SALAMANCA, Antonio
SALAMANCA (Martínez de Salamanca), Antonio. – Figlio di Gonzalo Martínez (della madre non si conosce il nome), nacque a Salamanca nel 1478. La sola fonte che ne riporti gli estremi biografici è la trascrizione settecentesca dell’epigrafe posta sulla sua lastra tombale, già nella chiesa romana di S. Lorenzo in Damaso e oggi perduta, che ne fissava la nascita il giorno 4 aprile (Galletti, 1760).
Il suo trasferimento a Roma dovette avvenire attorno al 1505. Nell’istanza che presentò ai Conservatori romani per avere la cittadinanza onoraria, ottenuta il 29 maggio 1560, dichiarò infatti di essere residente in città da cinquantacinque anni (gli stessi documenti informano della discendenza «ex nobili familia Salamantiae»: Pagani, 2000, p. 155, docc. 1-3).
Prima di allora non si conosce nulla. Di una possibile permanenza a Milano è unica traccia fino a questo momento una nota in un saggio di Franz Ehrle, che per primo riferì, senza peraltro motivare tale assunto, della sua provienienza milanese, una notizia ripresa in molta parte della letteratura successiva (Ehrle, 1908, p. 13; per lo status quaestionis si veda Misiti, 1992, pp. 545 s.).
Verso il 1510 sposò la giovane romana Sigismonda Viccarda (1494-1557), dalla quale ebbe almeno tre figli: Maddalena, Francesco ed Emilia (Pagani, 2013a, p. 477).
«Antonio de Salamancha» è menzionato per la prima volta come «libraio» nel censimento del 1517, la più antica traccia documentaria della sua presenza a Roma, dove risiedeva nel rione Parione, parrocchia di S. Lorenzo in Damaso.
Nel 1519 chiese e ottenne il privilegio pontificio per la sua prima edizione, sei libri del ciclo cavalleresco di Amadís de Gaula in lingua spagnola (curati e in parte scritti da Garci Rodríguez de Montalvo), di cui uscirono quell’anno i primi quattro (Amadis de Gaula. Los quatro libros), seguiti nel 1525 da Las sergas del virtuoso cavallere Esplandian, pubblicate insieme al fiorentino Giacomo Giunta. La formulazione delle sottoscrizioni presenti da questo momento sulle edizioni di Salamanca e i contratti stipulati per formare società temporanee con i tipografi, che si sarebbero occupati della produzione materiale dei volumi, hanno portato a credere che egli non disponesse di presse tipografiche e che il suo contributo fosse limitato a sostenere gli oneri finanziari. Esiste tuttavia la testimonianza contemporanea di Francesco De Marchi, che nel suo trattato Della architettura militare (già in corso di elaborazione prima del 1545, ma edito postumo a Brescia nel 1599) lo ricordò come «spagnuolo stampatore in figure, e in lettere» (p. 44).
Risale a questo periodo, verso il 1519-20, un ritratto a disegno (pietra nera su carta; Londra, British Museum, inv. 1860, 0616.80) che il connoisseur Pierre-Jean Mariette assegnò per primo a Sebastiano del Piombo, riconoscendo nell’effigiato Salamanca sulla base del confronto con la nota stampa attribuita a Nicolas Béatrizet che lo mostra in età avanzata con la didascalia «Orbis, et urbis antiquitatum imitator».
Unico stampatore spagnolo attivo a Roma nel Cinquecento, Salamanca privilegiò con poche eccezioni la produzione di testi in lingua castigliana destinati alla fruizione nell’ambito della comunità dei suoi connazionali residenti in città (Gonzalo Sánchez-Molero, 2007). Dalla società con Antonio Blado uscì probabilmente, verso il 1520, la tragicommedia La Celestina di Fernando de Rojas (priva di note tipografiche) e poi nel 1531 il Libro aureo de Marco Aurelio emperador y eloquentissimo orador di Antonio Guevara.
Trattò in seguito anche testi liturgici di autori spagnoli (Spechio vulgare per li sacerdoti di Francisco Delicado, 1525; il Breviario riformato del cardinale Francisco Quiñones de Luna, 1535; nel 1544 le Missae di Cristóbal de Morales).
È probabile che entro il 1527 avesse intanto avviato la produzione e il commercio di stampe, come suggerisce il numero di «bocche», nove, rilevato dal Catasto Clementino nella sua bottega nel rione Parione, poco distante dalla casa (dove abitavano venti persone). Tuttavia gli inizi di quest’attività risultano al momento difficili da certificare perché le più antiche incisioni datate che portano il nome di Salamanca dalla prima edizione, e che pertanto lo individuano con sicurezza come committente, sono del 1538.
Sono almeno centocinquanta le piastre incise prima del 1527 da Marcantonio Raimondi, Agostino Veneziano, Marco Dente e Giacomo Caraglio, provenienti dalla bottega dello stampatore Baviero de’ Carrocci detto il Baviera ed evidentemente sfuggite alle distruzioni dei lanzichenecchi, che l’editore poté acquisire, forse nel corso degli anni Trenta, attraverso canali ancora da chiarire (Witcombe, 2008, p. 71). Su tutte queste lastre compare in edizioni successive alla prima, talora su forme già stanche, il marchio «Ant. Sal. exc.», dove exc. sta per excudebat, espressione che nel Cinquecento identificava lo stampatore. Considerato che questo contrassegno si ritrova anche su rami degli anni Quaranta dove l’indirizzo di Salamanca è già presente, è ragionevole supporre che tale operazione venisse effettuata a un certo momento indistintamente su tutte le matrici presenti in bottega, probabilmente nel 1553, in concomitanza con il loro trasferimento presso l’officina del nuovo socio Antoine Lafréry. Un’ampia collezione di queste tavole è conservata in una sorta di volume-campionario, eccezionale documento oggi a Roma, Biblioteca Angelica (C.2.20), che raccoglie in tiratura tardocinquecentesca impressioni di rami appartenuti al salmantino.
Dopo il sacco di Roma del 1527, la prima notizia che si registra di Salamanca è la sua entrata nel 1530 nell’Ordine religioso-militare dei Cavalieri di S. Pietro, una qualifica d’onore che, una volta acquisita, garantiva privilegi e redditi.
Individuando sino dagli esordi gli ambiti tematici nei quali anche in seguito avrebbe operato, nel 1538 Salamanca pose il suo indirizzo su quattro grandi tavole anonime con la riproduzione di monumenti antichi (Colosseo e Porta Maggiore) – un nuovo genere che sarebbe stato alle origini della fortunata serie lafreriana dello Speculum romanae magnificentiae –, con la traduzione grafica di moderni capolavori di pittura (Trasfigurazione di Raffaello) e con la pubblicazione di soggetti d’invenzione su disegni appositamente predisposti per l’intaglio nel rame. Due di queste stampe, lo spettacolare Colosseo e il Vecchio nel girello con il motto «Anchora inparo», sono ricordate da Giorgio Vasari nell’edizione giuntina delle Vite come creazioni dell’architetto pratese Domenico Giuntalodi incise da Girolamo Fagiuoli (Vasari, 1550 e 1568, 1984, V, p. 195).
Anche dopo l’avvio di questo nuovo negozio Salamanca continuò a pubblicare libri, associandosi con Valerio Dorico per la guida in castigliano Las yglesias y indulgentias de Roma (1539) e per il manuale calligrafico La operina, da imparare di scriuere littera cancellerescha di Ludovico degli Arrighi (1540), mentre per i tipi di Baldassarre Cartolari uscirono nel 1541 La entrada de la Magestad Cesarea en la ciudad de Milán, opuscolo di ricordi del viaggio di Carlo V in Italia, e nel 1547 la raccolta di poesie di Juan Boscán e Garcilaso de la Vega Las obras de Boscan y algunas de Garcilasso de la Vega.
Nel corso degli anni Quaranta, già sessantenne, Salamanca investì con sempre maggiore consapevolezza nella produzione di immagini a stampa con una media di tre-quattro emissioni all’anno, affermandosi come titolare della più importante impresa nel suo genere in città dopo il Baviera e prima di Lafréry. Privilegiando i grandi formati, proseguì nella valorizzazione delle antichità (Pasquino, 1542), e arricchì il catalogo con nuove invenzioni a tema sacro (Crocifissione, 1541; David e Abigail, 1543), episodi ispirati alle vicende di Scipione l’Africano, temi mitologici (Morte di Meleagro, 1543), ritratti, e prime opere di cartografia (Algeri, 1541; Tabula moderna Terrae Sanctae, 1548). Per farlo si servì di incisori da poco arrivati dalla Francia o dall’Italia settentrionale, come Nicolas Béatrizet, Niccolò della Casa, Enea Vico e Giulio Bonasone, e altri bulinisti le cui identità e provenienza restano sconosciute.
In particolare dalla collaborazione con il lorenese Niccolò della Casa prese avvio nel 1543 la più ardita impresa calcografica di Salamanca, portata a compimento circa vent’anni più tardi con la traduzione a bulino su dodici lastre del Giudizio Universale di Michelangelo.
Complessivamente sono almeno una sessantina le matrici che portano l’indirizzo di Salamanca dal primo stato. Le altre, stimabili in non meno di trecento, sono da considerare frutto di campagne di acquisizione, talvolta anche di particolare consistenza (come nel caso del Maestro del Dado), di rami già incisi. Si tratta tuttavia di stime provvisorie, in attesa che il corpus di Salamanca venga finalmente ordinato in catalogo.
Attivo anche come banchiere, nel 1542 Salamanca si unì in società con Antonio de Stancharijs, proseguendo nell’esercizio di questa professione fino almeno al 1560 (l’ultimo socio di cui si abbia notizia è il pesarese Bernardo Vertema).
Un contratto siglato nel 1546 per la vendita di una vigna (Pagani, 2013a, p. 475), oltre a fornire il nome del padre («Gondisalvi Martinez»), ha permesso di localizzare in Campo dei Fiori la bottega di Salamanca, che nell’epistola dedicatoria della sua opera Roma, l’umanista tedesco Georg Goldschmidt (Fabricius) ricorda insieme a quella del veneziano Michele Tramezzini come luoghi deputati all’incontro e alla discussione tra gli amanti delle antichità (Fabricius, 1551, p. 9). È in toni molto diversi che i nomi dei due stampatori furono associati poco tempo dopo (22 agosto 1552) in una lettera indirizzata a Giorgio Vasari dal filologo e collezionista Vincenzio Borghini, il quale nel tessere gli elogi della tecnica di intaglio di Lambert Suavius ebbe a commentare «[…] altra cosa che cotesti Salamanchi o Tramezzini» (Il carteggio..., 2001, p. 346).
Su proposta dell’architetto Antonio Labacco e del pittore Luzio Luzi il 13 giugno 1546 Salamanca fu ammesso – con il titolo di «banchiere», ma evidentemente avendone riconosciuto il ruolo nella vita artistica cittadina –, alla Congregazione dei Virtuosi al Pantheon, dove ricoprì diverse cariche fino al 1551. Pochi mesi più tardi, nel 1547, pubblicò il primo di una serie di quattro bulini dal modello ligneo realizzato da Labacco sui progetti di Antonio da Sangallo il Giovane per la basilica di S. Pietro. Contemporaneamente, qualificandosi per la prima volta come incisore, firmò la Pietà dal marmo vaticano di Michelangelo («Quod potuit imitatus exculpsit»), probabilmente eseguita, anche considerata l’età avanzata, con la collaborazione di Béatrizet, le cui iniziali figurano ai lati del cartiglio con la firma.
Dopo un decennio di aperta competizione nella produzione e commercio delle stampe sulla piazza romana, il 20 dicembre 1553 Salamanca si unì in società con il borgognone Antoine Lafréry (1512-1577), che si era stabilito a Roma al principio degli anni Quaranta. Il sodalizio proseguì fino alla sua morte e fu sciolto il 28 settembre 1563 dal figlio Francesco (Ehrle, 1908, pp. 35-39).
Nell’ambito di questa unione Salamanca e Lafréry siglarono la prima edizione in lingua spagnola dell’Anatomia del medico Juan Valverde de Amusco. Dedicata al cardinale inquisitore Juan Álvarez de Toledo (1556), l’opera è ricordata da Vasari in virtù del notevole corpus delle calcografie derivate dalle xilografie di Andrea Vesalio (Vasari, 1550 e 1568, 1984, V, p. 22), mentre è curioso come nella vita vasariana di Marcantonio Raimondi, vera e propria storia dell’incisione fino a quel momento, Salamanca non risulti mai apertamente citato.
Risale probabilmente al primo periodo della società con Lafréry un volume di oltre duecento stampe appartenuto a Filippo II di Spagna e ancora oggi nella Real biblioteca del monasterio de El Escorial (inv. 28-I-13), che bene evidenzia la specializzazione del salmantino nell’ambito della storia antica e delle favole mitologiche.
L’accordo con Lafréry non impedì a Salamanca di stipulare nell’ultima parte della sua vita anche altre forme di cooperazione, come la societas designorum con un ricamatore spagnolo, Jacobus García, o di pubblicare tavole solo con il proprio nome (Tomba di Giulio II, 1554; Svizzera e Urbis Romae descriptio del fiammingo Jacob Bos, 1555; Capitello composito di Léon Davent, 1560)
È con la formula «aeneis typis suis delineavit et publicae studiosorum utilitati in luce misit» che Salamanca sottoscrisse nel 1562 l’ultima incisione, un bulino di Jacob Bos che riproduceva l’antica statua di Marte nella casa di Massimo de’ Massimi, arcivescovo di Amalfi.
Morì a Roma l’11 luglio 1562 e fu sepolto in S. Lorenzo in Damaso.
Come editore di stampe il figlio Francesco appose il proprio nome sulla sola Greciae chorographia, opera non datata di Sebastiano Di Re (incisore chioggiotto attivo a Roma dal 1557 al 1563). Egli conservò i rami ricevuti dall’eredità paterna fino alla sua morte, avvenuta a Roma il 18 settembre 1585. In seguito le matrici, in numero di seicentotrentacinque, furono vendute insieme a un torchio calcografico al milanese Camillo Agrippa e al romano Giacomo Lauro (Pagani, 2013a, cui si rinvia anche per la biografia di Francesco).
Resta infine da stabilire un probabile legame di parentela di Salamanca con l’omonimo Antonio D. Salamanca attivo alla fine degli anni Sessanta, editore di almeno quattordici bulini (Pagani, 2013b, pp. 264-266).
Fonti e Bibl.: G. Vasari, Le vite… (1550 e 1568), a cura di P. Barocchi - R. Bettarini, V, Firenze 1984, pp. 22, 195; G. Fabricius, Roma, Basilea, per Ioannem Oporinum, 1551, p. 9; P.L. Galletti, Inscriptiones romanae infimi aevi Romae extantes, III, Roma 1760, p. DXLI, n. 163; F. Ehrle, Roma prima di Sisto V: la pianta di Roma Du Perac-Lafrery del 1577 riprodotta nell’esemplare esistente nel Museo Britannico, Roma 1908, pp. 13, 35-39; C. Hülsen, Das Speculum romanae magnificentiae des Antonio Lafreri, in Collectanea variae doctrinae Leoni S. Olschki bibliopolae Florentino…, München 1921, pp. 121-170; S. Deswarte-Rosa, Les gravures de monuments antiques d’A. S., à l’origine du Speculum romanae magnificentiae, in Annali di architettura, 1989, n. 1, pp. 47-62; M.C. Misiti, A. S.: qualche chiarimento biografico alla luce di un’indagine sulla presenza spagnola a Roma nel ’500, in La stampa del Cinquecento in Italia, Atti del Convegno… 1989, a cura di M. Santoro, Roma 1992, pp. 545-561; V. Pagani, Documents on A. S., in Print Quarterly, XVII (2000), pp. 148-155; Il carteggio di Vincenzio Borghini, Firenze 2001, pp. 345-348; C. Furlan - L. Rebaudo, “Hercules tristis insaniae poenitentia”. Su un disegno all’antica di Bernardino da Parenzo, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa. cl. di lettere e filosofia, s. 4, VII (2002), 2, pp. 321-341 (con un’ipotesi per il collezionismo di disegni); J.L. Gonzalo Sánchez-Molero, Antonio de Salamanca y los libros españoles en la Roma del siglo XVI, in Roma y España. Un crisol de la cultura europea en la edad moderna, Atti del Convegno internazionale, Roma… 2007, I, Madrid 2007, pp. 335-366 (con bibliografia precedente sull’attività di editore di libri in castigliano e nuove proposte attributive); G. Sapori, Una cornice per il ritratto di A. S., in Il mercato delle stampe a Roma, XVI-XIX secolo, a cura di G. Sapori, San Casciano Val di Pesa 2008, pp. 11-19; C. Witcombe, Print publishing in Sixteenth-century Rome: growth and expansion, rivalry and murder, London 2008, pp. 67-105; P. Baker-Bates, A. S.: a Spanish friend of Sebastiano del Piombo, in Konsthistorisk Tidskrift, LXXXI (2012), 4, pp. 211-218; V. Pagani, La vendita della stamperia dei Salamanca, 1587, in Annali della Pontificia insigne Accademia di belle arti e lettere dei Virtuosi al Pantheon, XIII (2013a), pp. 475-494; Id., Giulio Roberti and Francesco Salamanca, in Print Quarterly, XXX (2013b), pp. 259-272.