RIZZO, Antonio
RIZZO, Antonio. – Nato intorno al 1430, è detto veronese da una fonte databile 1475 (Colacio, 1486, c.n.n.), mentre in più documenti (Lorenzi, 1868, p. 94, n. 202; Paoletti, 1893, pp. 177 s., n. 11) è riportato il nome del padre, Giovanni. Già gli eruditi del XIX secolo – Giuseppe Cadorin (1838), Cesare Bernasconi (1863), Pietro Paoletti (1893) – si sono scontrati con la difficoltà di identificare questo Giovanni Rizzo tra i molti ricordati nei documenti.
A Verona fu attivo un lapicida Giovanni di Antonio «de Lacu Cumarum» soprannominato Ricius che nel 1473 risulta già morto (Mazzi, 1913; Zamperini, 2007). Questo Rizzo potrebbe essere il lapicida che da Verona inviava materiali lapidei al cantiere di S. Maria della Carità guidato da Giacomo da Milano (Fogolari, 1924, p. 113). Sempre da Verona, tra il 1464 e il 1467, un Rizzo, quasi certamente il medesimo, riforniva di marmi rossi la Certosa di Pavia (Bernstein, 1972). L’attività di un Rizzo veronese in questi due cantieri aveva fatto supporre che Antonio li avesse frequentati o vi avesse lavorato (Magenta, 1897; Arslan, 1953). Ugualmente non è certo sia il figlio di Rizzo il Giovanni Stefano di Antonio Rizzo che nel 1489 presenziava al contratto del monastero con Maffiolo da Carrara (Alberto Maffiolo da Carrara..., 1902, p. 15). Pur confondendolo con il più recente Andrea Riccio, un encomio, che Giovanni Battista Giovio attribuisce al celebre avo Paolo, celebra il Rizzo come originario della diocesi di Como e autore dell’Adamo di Palazzo Ducale «che di bellezza cogli antichi giostra» (Giovio, 1784, p. 233). Nel 1486 il padre di Rizzo è indicato come ‘ser’ Giovanni il che ne lascia incerta la professione (Paoletti, 1893, p. 147, n. 11).
È sicuro, invece, che Rizzo abitasse a San Giovanni Nuovo, in case del monastero benedettino femminile di S. Zaccaria appositamente ristrutturate a spese del cenobio nel 1469, forse in seguito al suo matrimonio con Maria, figlia di Giacomo Gibellin, amministratore delle stesse monache. Suocero e genero furono legati da attività lavorative e possessi immobiliari, come dimostra una lite tra eredi dopo la morte del primo per il diritto su alcune proprietà (Paoletti, 1893, p. 184; Ludwig, 1911, pp. 13 s.). La notizia è rilevante perché in quegli anni era in costruzione, sotto la direzione del proto Antonio Gambello, la nuova chiesa di S. Zaccaria, nella quale Rizzo poté essere coinvolto se la badessa gli saldò un credito di quaranta ducati (Placentino, 2016, pp. 230 s.). Dei figli di Rizzo è noto un Simplicio cui il padre cedette, appena ricevutala, una sansaria (banco da mediatore) al Fondaco dei Tedeschi nel 1491 (Paoletti, 1893, p. 148); si è proposto di identificare tale personaggio con un Simplicio Rizzo veneto, orafo attivo a Roma all’inizio del secolo seguente e morto prima del 1522, quando il figlio Antonio fu coinvolto in una causa che ebbe come periti il Caradosso (pseud. di Cristoforo di Giovanni Matteo Foppa) e Raffaele di Andrea Fiorentino (Bertolotti, 1884). Rizzo fu anche zio, non si sa per quale vincolo parentale, di Giambattista e Lorenzo Bregno: il primo abitava anch’egli a San Giovanni Nuovo e mostra di avere a lungo studiato i modelli dello zio (Jestaz, 1986; Markham Schulz, 1991).
Rizzo ebbe certamente un’educazione scolastica di base, poiché era in grado di firmare e, come dichiara in un documento del 1496 per la loggia di Vicenza, sapeva far di calcolo, mentre doveva avere una conoscenza della geometria sufficiente alla pratica ingegneresca cui fu spesso chiamato dalla committenza. Nel 1488, infatti, Rizzo e Giorgio di Amedeo da Lugano ottennero dal Senato la privativa per un tipo di mulini da loro inventati, con estensione agli eredi per settant’anni, ma non a tutto il territorio del Dominio (Ludwig, 1911, pp. 14 s.; Mandich, 1936, p. 538).
L’artista, anche da proto di Palazzo Ducale, si definì sempre sculptor; i documenti della Signoria lo chiamano ingegnere o architetto, mentre il Consiglio cittadino di Vicenza lo presenta «excellens architectus, geometra clarus, sculptor peritissimimus ac ingeniossimus opificiorum ducalium praeses» (Zorzi, 1937, pp. 128 s.). Si è supposto che, al contrario di altri proti veneziani, Rizzo non abbia praticato il commercio dei materiali da costruzione, attività normalmente collaterale a quella di lapicida (Markham Schulz, 1983, p. 15); tuttavia dai documenti riguardanti i lavori nella chiesa di S. Elena si evince che in quell’occasione Rizzo usò pietre di sua proprietà mentre nel 1497 la richiesta di marmi di Carrara per lo studiolo di Isabella d’Este da parte di Gian Cristoforo Romano era relativa a materiali provenienti dal cantiere di Palazzo Ducale.
Eccezionale è la fortuna letteraria di Rizzo, relativa specialmente all’Adamo ed Eva di Palazzo Ducale. Gregorio Correr, committente, nella sua carica di beneficiario di S. Zeno a Verona, del trittico di Andrea Mantegna, dedicava a Rizzo due epigrammi e un distico – non rintracciati – prima di morire, patriarca di Venezia, nel 1464 (degli Agostini, 1752, p. 132). Entro quella data, evidentemente, lo scultore doveva aver pubblicato qualche opera che lasciasse intendere la sua capacità di dialogare da pari a pari con gli esiti più avanzati della cultura figurativa contemporanea e in particolare con Mantegna, del quale, com’è stato notato fin dai primordi della moderna critica d’arte (Burckhardt, 1855, p. 620), mostra di studiare il linguaggio figurativo (Markham Schulz, 1983, p. 6). Segue una menzione di Giovanni Testa Cillenio entro il 1470, dove Rizzo è lodato, tra gli altri, insieme a Giovanni Boldù, pittore dedito anche alla medaglistica (Ricci, 1897). Nell’elenco di artisti contemporanei steso da Matteo Colacio nel 1475, Rizzo è menzionato come famosissimo nella statuaria e nell’architettura insieme a Bellano e ai Lombardo (in Opuscula, 1486, c. n.n.; Notizia, 1884, p. 96). Accanto a loro, i pittori menzionati sono i Bellini, i Lendinara e Antonello da Messina. Nella vita di quest’ultimo Giorgio Vasari fa una breve menzione di Rizzo e, pur confondendolo con l’ormai più moderno Andrea Riccio, lo dice tanto legato al pittore siciliano (a Venezia tra il 1474 e il 1476) da essere addolorato per la sua morte precoce. Tra l’ottavo e la prima metà del nono decennio si devono scalare i cinque componimenti a lui dedicati dall’umanista triestino Raffaele Zovenzoni (Notizia, 1884, p. 90; Ziliotto, 1950), in rapporti anche con committenti dello scultore come Vittore Cappello (Ziliotto, 1950, p. 74), o a essi legati, come Francesco Tron (p. 161). Marcantonio Sabellico nelle Decadi ([1487], 1556) consacra Rizzo, celebre statuario, ma ormai anche proto del Palazzo Ducale, come una gloria cittadina. Poco dopo Luca Pacioli contribuisce alla fama extraveneziana di Rizzo inserendolo in un canone figurativo italiano alle soglie della maniera moderna, come scultore e architetto del Palazzo Ducale, nella sua Summa de arithmetica (1494, epistola dedicatoria, c.c. n.n.). Importante citazione contemporanea è quella di Pomponio Gaurico nel trattato De sculptura stampato nel 1504, ma probabilmente circolante già in precedenza almeno a Firenze e negli Stati estensi. Rivolgendosi ai due professori padovani interlocutori del dialogo, l’insegnante di retorica Raffaele Regio e l’aristotelico e collezionista d’arte Nicolò Leonico Tomeo, Gaurico ricorda di Rizzo che «cum vobis fuit familiaritas» (Gaurico [1504], 1999, p. 250).
Infine Francesco Sansovino (1581), che ben conosceva, anche per retaggio familiare, i cantieri veneziani tra Quattro e Cinquecento, cita due opere capitali di Rizzo come la scala dei Giganti e il monumento Tron attribuendole nella Venetia città nobilissima ad Antonio Bregno «architetto e prothomaestro» del palazzo: è possibile che il cognome attribuito a Rizzo derivi dalla documentata parentela con i più giovani scultori Giovambattista e Lorenzo (Sansovino, 1581, cc. 119v, 66r; ma anche Schofield, 2006, pp. 9, 22-26). Il monumento Giustinian e quello Cappello, invece, sono riferiti dal medesimo a un Antonio Dentone, non senza separare in quest’ultimo la statua del defunto come autografa del ‘Dentone’ da quella di S. Elena (Sansovino, 1581, cc. 80r, 78r).
Non è possibile mettere a fuoco in maniera incontrovertibile la formazione dello scultore. Se difficilmente poté avvenire nella tardogotica Verona, fu probabilmente l’ambiente lagunare a fornire le occasioni indispensabili a un esordio di carriera tanto clamoroso. Seguendo un suggerimento di Paoletti (1893, p. 157) alcuni studiosi hanno pensato che il Maestro di San Trovaso, così detto da un fine rilievo nella chiesa omonima, possa coincidere con lo scultore in un suo primo momento (Stedman Sheard, 1987, p. 477; Ceriana, 2012, p. 34) e che anzi lo stile del rilievo stiacciato suggerirebbe un apprendistato presso Agostino di Duccio nel cantiere del Tempio Malatestiano all’altezza del sesto decennio (Pilastro delle Muse). L’incontro di Rizzo con quest’ultimo poté avvenire nella bottega di Bartolomeo Bon, accogliente anche verso i giovani forestieri e verso il transfuga fiorentino in particolare. Per spiegare la modernità del linguaggio artistico dello scultore è ragionevole pensare, anziché a viaggi di aggiornamento a Firenze collocati da Anne Markham Schulz (1983, pp. 8, 11) all’inizio degli anni Sessanta e nel decennio seguente ma non altrimenti documentati, alla conoscenza dei fiorentini operanti a Padova e del cantiere Ovetari.
La prima attività accertabile sul piano documentario è, tuttavia, quella negli anni Sessanta per il doge Cristoforo Moro (morto nel 1471). È probabile che Rizzo sia arrivato alla più alta committenza veneziana tramite la bottega di Bartolomeo Bon, alla quale, di fatto, subentrò insieme a Niccolò di Giovanni Fiorentino (Markham Schulz, 1983, pp. 18-24) nel completamento e nella decorazione dell’Arco Foscari in Palazzo Ducale. In tale cantiere fu eseguita sicuramente entro la morte del Moro la testa frammentaria, unico resto della figura dogale orante davanti al Leone marciano, riconosciuta alla bottega di Rizzo (Pincus, 1976, pp. 375 s.), ma correttamente datata e identificata più di recente (Ceriana, 2011). Il ritratto, seppur parzialmente rilavorato nel XIX secolo, è imprescindibile per valutare le capacità di Rizzo nel primo decennio di attività. Nell’ingresso monumentale al cortile dogale gli si possono attribuire, poi, alcune sculture del coronamento e gli appartengono certamente le tre figure principali di Adamo, Eva e Marte. Nel basamento della progenitrice si legge in capitali antiche «Antonio Rizo». I due celeberrimi nudi più grandi del vero di Adamo ed Eva, i primi monumentali a Venezia, hanno come riferimento figurativo la contemporanea pittura, da Mantegna al giovane Bellini, dalle incisioni di Pollaiolo alla scultura donatelliana. La datazione ha oscillato nella storiografia tra il lasso temporale della vita del committente (Pohlandt, 1971, p. 175; Markham Schulz, 1983, p. 32), e più tardi, tra l’ottavo e il nono decennio, quando questa modernità sembrerebbe meno isolata (Mariacher, 1948, p. 77; Stedman Sheard, 1987, p. 476). Il limite più recente è la data di morte dello Zovenzoni, 1484, per l’Eva cui il poeta dedica un encomio. Le altre opere eseguite in quegli anni su ordine del doge sono tre piccoli altari per la basilica ducale di S. Marco dedicati a S. Giacomo, a S. Paolo e a S. Clemente: una data 1465 incisa su quest’ultimo e una quietanza di pagamento del giugno 1469 (Keydel, 1969) ne certificano l’ambito cronologico e l’autore. Le tre ancone mettono a fuoco, oltre ai modi plastici dello scultore nella figura a tutto tondo e nel rilievo stiacciato, la sua cultura architettonica e il suo repertorio ornamentale, anch’esso orientato verso la coeva cultura figurativa padovana (Paoletti, 1893, pp. 160 s.).
Nella seconda metà del settimo decennio sembrano cadere due sepolture di capitani del Mar della Repubblica, monumenti che sono stati in passato collegati a Rizzo (p. 144): quella, dispersa, di Orsatto Giustinian (morto nel 1464) a S. Andrea della Certosa e quella ancora esistente di Vittore Cappello (morto nel 1467) a S. Elena. La struttura architettonica e decorativa della prima, che adotta l’inedita forma del catafalco marmoreo tipica della tradizione d’Oltralpe, ritorna in un’opera sicura di Rizzo, il monumento Tron, mentre le figure superstiti sono state correttamente attribuite a Niccolò di Giovanni (Markham Schulz, 1978). Nella seconda – che inaugura la fortunatissima tipologia veneziana del monumento celebrativo integrato alla facciata di un edificio sacro – se la figura di S. Elena appartiene di nuovo alla mano del fiorentino, il protiro all’antica e la figura dell’ammiraglio orante appartengono a Rizzo, poiché il ritratto del capitano si legge perfettamente come consequenziale a quello del doge Moro. I due più moderni scultori di Venezia nel settimo decennio, entrambi favoriti dal doge, trovarono probabilmente il modo di spartirsi le più ambite commesse, almeno fino alla partenza di Niccolò di Giovanni per la Dalmazia alla fine del medesimo decennio. Si può ipotizzare che le innovative idee architettoniche di questi monumenti siano state di Rizzo, in seguito acclarato architetto. Nel dicembre del 1476 Rizzo rivendicava il saldo per importanti lavori fatti anni addietro ancora nella chiesa olivetana di S. Elena, per il tramezzo, per una cappella e per una porta che, tuttavia, a quella data non era ancora stata messa in opera (Ceriana - Ermini, in corso di stampa).
Gli anni Settanta furono cruciali per consolidare la carriera tecnica e artistica di Rizzo: nel 1474 e nel 1477 fu impegnato nella difesa di Scutari contro gli attacchi turchi, particolarmente per la gestione delle bombarde (Cadorin, 1838, p. 163, n. 19; Bernasconi, 1863, p. 21). Come ricompensa per il valore dimostrato e per le ferite ricevute ottenne nel 1483 una pensione per sé e per i figli di un ducato al mese per vent’anni. Nel 1476 la Scuola Grande di S. Marco mise sotto contratto Rizzo per dotare la sala del capitolo di un pulpito con una scala a chiocciola disegnata dal confratello Gentile Bellini: le transenne dovevano avere specchi di pietra nera ornati di bassorilievi in marmo bianco (Paoletti, 1894, pp. 15 s.). L’opera, distrutta nell’incendio della Scuola meno di un decennio più tardi, dovette essere compiuta rapidamente se, come d’uso, Rizzo fu fatto confratello nel 1477. Dal «guardian grande» della medesima confraternita Rizzo fu richiamato insieme a Mauro Codussi nel novembre del 1490 a valutare il lavoro di Pietro Lombardo, Giovanni Buora e Bartolomeo di Domenico Duca per la nuova fabbrica (Paoletti, 1893, p. 103, doc. 73).
Permette di verificare la crescita di Rizzo la sua maggiore opera di quegli anni, il monumento funerario del doge Nicolò Tron (morto nel 1473) ai Frari: la complessa e nuovissima struttura a più livelli sovrapposti è perfettamente funzionale alla narrazione encomiastica del defunto, mettendo in sequenza il ritratto, il catafalco, le epigrafi, il corteo allegorico delle virtù e i temi sacri. Le sculture cruciali del complesso, la probabile Prudenza e la Carità ai lati del doge stante, segnano un crinale decisivo dell’arte di Rizzo: se la prima è una naturale evoluzione dell’Eva di Palazzo Ducale, la seconda ha proporzioni più quadrate e mostra di adeguarsi all’incipiente moda antiquaria lagunare.
Un impegno assai minore di dimensioni, ma di analoga densità progettuale, è il memoriale del cavaliere aurato Giovanni Emo (morto nel 1483), già in S. Maria dei Servi, eretto a cura degli eredi nel decennio successivo. Il risultato, privo di contenuti sacri, risultò impressionante per la qualità antica dell’architettura e per la quantità di dorature (Sansovino, 1581, c. 58r). Delle tre sculture che ci restano di questo complesso smantellato nel XIX secolo, assai notevole è il ritratto stante di Emo (Vicenza, Museo civico).
Nel febbraio del 1483 Rizzo è citato per la prima volta in connessione con i lavori del Palazzo Ducale in documenti che riguardano l’approvvigionamento di materiali lapidei dall’Istria per l’Arco Foscari, un cantiere che lo scultore aveva ereditato dalla bottega di Bon (Paoletti, 1893, p. 144). Il devastante incendio di una parte dell’edificio in quello stesso anno, distruggendo anche gli appartamenti dogali, offrì l’occasione a Rizzo di utilizzare a pieno le sue capacità professionali, diventando presto indispensabile alla Signoria. Sappiamo, infatti, che nel 1485, in seguito a una sua supplica, gli fu concesso un aumento di 25 ducati allo stipendio base di 100, computando probabilmente anche l’attribuzione di una bottega al Fondaco della Farina (Lorenzi, 1868, p. 97, n. 297). Forse a seguito di proposte di lavoro concorrenti giuntegli da Verona, il salario annuale di proto gli fu aumentato a 200 ducati nell’ottobre del 1491 (pp. 106 s., n. 229), giudicandolo artefice necessario «per satisfation e bellezza di tal opera» (Lorenzi, 1868, p. 114, n. 239; Cadorin, 1838, pp. 135 s.). Nel 1486 sottoscriveva una dichiarazione per sostenere la necessità che i lapicidi di origine lombarda continuassero a lavorare nel cantiere del palazzo in opposizione alle recriminazioni protezioniste dei colleghi veneziani (Lorenzi, 1868, p. 100, n. 214). Rizzo fu impiegato anche in lavori pubblici minori: nel 1493 disegnò, e verosimilmente realizzò, le volte in due stanze della magistratura fiscale, la Messettaria (Paoletti, 1893, p. 162, n. 1). Dovette poi essere più volte chiamato come perito: nell’estate del 1499 il proto Giorgio Spavento non era stato pagato per il lavoro eseguito nella sala del Maggior Consiglio, forse risalente nel tempo, a causa della divergenza di valutazione tra Rizzo, che probabilmente deprezzava l’opera, e gli altri collaudatori (Lorenzi, 1868, pp. 121, doc. 249, 123, doc. 252).
Le idee per la ricostruzione dell’ala orientale di Palazzo Ducale si possono valutare a partire dalle zone che recano lo stemma dei dogi Barbarigo, cioè i due porticati sovrapposti e parte del piano superiore, e la facciata sul rio, dove un potente basamento a scarpa di bugnato a diamanti è interrotto dalla porta d’acqua a tre fornici, cioè l’ingresso usuale del principe, dalla forte connotazione trionfale (Paoletti, 1893, p. 154).
A completamento del nuovo percorso del doge dalla Porta della Carta all’interno del palazzo Rizzo realizzò una scala marmorea detta dei Giganti, che doveva collegare gli spazi pubblici e gli appartamenti privati con il cortile. La struttura e l’ornamento ne rimangono ben leggibili nonostante i consistenti restauri settecenteschi (Rambaldi, 1910).
Verosimilmente costruita alla fine degli anni Ottanta, primo tempo del dogato di Agostino Barbarigo, la sontuosa struttura fonde l’uso delle scale esterne e la tradizione dei palchi trionfali lignei costruiti in occasione delle cerimonie della Repubblica (Muraro, 1961, p. 365). L’inconfondibile somiglianza dell’attuale fabbrica con una scala in un disegno di Jacopo Bellini è ancora da spiegare compiutamente (Degenhart - Schmitt, 1990). Al colmo della rampa, in corrispondenza dell’ampio pianerottolo, un triplice arco a tutto sesto interrompe la sequenza archiacuta della loggia segnalando il significato trionfale del sito destinato alla cerimonia d’incoronazione.
L’ornamentazione della scala ordinata in trofei appesi alle strutture verticali mostra l’ampiezza del repertorio ornamentale di Rizzo, che alterna temi antiquari a motivi tratti dalla pittura contemporanea (Markham Schulz, 1983, p. 104). Le numerose criptografie latine devono essere state composte e proposte dalla committenza, mentre le otto Vittorie alate sono un vertice della scultura rinascimentale non solo a Venezia (pp. 109-113). È possibile che, come Mantegna nella Camera degli Sposi, Rizzo abbia nascosto l’autoritratto in una delle teste maschili che punteggiano la Scala dei Giganti.
Alcuni camini con lo stemma Barbarigo nell’appartamento dogale appartengono a questi stessi anni, verosimilmente prima del marzo 1492, quando le stanze furono di nuovo abitabili (Malipiero, 1844, p. 689). Il linguaggio decorativo delle mostre marmoree appare assimilabile a quello della scala, in particolare quello della sala degli Scarlatti e quello con diverse allegorie politiche, espresse da un complesso thiasos marino. Nel 1495 Rizzo fu chiamato con Pietro Lombardo a stimare la cornice approntata da Sebastiano da Lugano per la pala di Cima da Conegliano sull’altare maggiore di S. Giovanni in Bragora (Humfrey, 1977, app. I, p. 402). Un pezzo erratico, databile a questi anni e certamente autografo, è una cornice di ciborio con delicatissimi angeli adoranti entro un’architettura: acquistato probabilmente a Venezia da Giuseppe Bossi nell’Ottocento (Milano, Castello Sforzesco), fu parte di un importante complesso non ancora identificato (M.T. Fiorio, C. Pirovano, Scultore veneto (ottavo decennio del XV secolo), in Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. Materiali lapidei, I-IV, Milano 2012-2015, II, 2013, pp. 386-390).
Altro progetto cui Rizzo poté mettere mano è quello della Torre dell’Orologio, progettata nel cuore dell’ultimo decennio, da quando nel 1496 si operarono le demolizioni necessarie sul lato di piazza S. Marco all’imbocco delle Mercerie, fino al febbraio del 1499, quando l’opera compiuta fu scoperta (Erizzo, 1860, pp. 38-41). L’edificio doveva ospitare l’ingegno costruito da Giancarlo Rainieri da Reggio Emilia, inserendosi nel porticato continuo di quel lato della piazza. L’architettura, periziata nel 1500 da Pietro Lombardo, successore di Rizzo nella carica di proto dal 16 maggio 1498, è stata attribuita a Codussi (Paoletti, 1893, p. 190), ma se lo stile architettonico non è in contrasto con quello di Rizzo, il suo ruolo di proto rende improbabile che il progetto governato dai procuratori de supra non gli fosse affidato. La statua del doge Barbarigo orante davanti al Leone marciano, abbattuta nel 1797 (Erizzo, 1860, p. 126), fu probabilmente eseguita dalla bottega dello scultore. Il prestigio grandissimo di Rizzo come proto di Palazzo e la sua accertata competenza tecnica dovettero spingere le comunità del dominio, Verona e Vicenza, a impiegare l’artista per i propri palazzi pubblici. Il 20 agosto 1491 gli oratori veronesi in laguna scrivevano al Consiglio cittadino di avere contattato Rizzo per i lavori della nuova loggia cittadina e che egli aveva insistito di non poter facilmente lasciare il cantiere di Palazzo Ducale, ma che, tuttavia, se avesse avuto la certezza di uno stipendio annuale, sarebbe rimpatriato volentieri (Paoletti, 1893, p. 147; Brenzoni, 1957-1958, pp. 306 s.). Se nella città scaligera si scelse infine di incaricare uno scultore più accessibile come Angelo di Giovanni (Donisi, 2000-2001, p. 61), a Vicenza, a seguito del crollo di parte delle logge esterne del palazzo della Ragione, il 20 aprile 1496 Rizzo fu prontamente invitato a dare un parere sul consolidamento della fabbrica e a riprogettare un più stabile e moderno organismo. Del suo intervento possediamo due importanti relazioni risalenti allo stesso anno (Zorzi, 1937, p. 127). È merito, tuttavia, della celebrità della successiva e nuova fabbrica palladiana se nel XVIII secolo Tommaso Temanza (1778, p. 290) menzionò Rizzo come restauratore della Loggia nel primo dizionario degli architetti veneziani del Rinascimento.
Della clamorosa malversazione operata dal principale architetto e scultore di Venezia, che fu sempre favorito dal doge, è a tutt’oggi difficile mettere a fuoco i contorni. L’episodio concluse drammaticamente la carriera di Rizzo. Un qualche sospetto sui costi esorbitanti del nuovo Palazzo dovette sorgere all’interno della procuratoria se già nel marzo del 1496 in Senato si propose di eleggere due supervisori al cantiere (Lorenzi, 1868, p. 115, n. 240). Nel 1498 Francesco Foscari e Gerolamo Cappello scoprirono la frode. Dai coevi ricordi di Domenico Malipiero (1844, p. 674) e di Marin Sanudo (1879) si apprendono i dettagli: 12.000 ducati incassati falsificando le polizze contabili consegnate all’ufficio del Sale risultarono dal controllo dei conti del cantiere, dove, a fronte dell’esorbitante spesa di 80.000 ducati, non era ancora realizzata «la mità della fabbrica». Il fatto dovette imbarazzare la Signoria: nell’incarico definitivo di proto di Palazzo Ducale conferito dopo un anno di prova a Pietro Lombardo nel marzo del 1499, Rizzo è indicato evasivamente come «absentà», termine evidentemente inadeguato ai fatti. Stando a Malipiero (1844), Rizzo fuggì in Romagna e poi a Foligno, così che «tutto quel che è sta’ trova’ de so, ghe è sta’ venduto» (p. 674). Per Sanudo, Rizzo – evidentemente presagendo il fatto o avvertito da qualcuno per tempo – ebbe modo di vendere quanto poteva, compresa «una possessione», e andò verso Ancona o Foligno. Fu invece imprigionato un suo aiuto, Simone Faxan. In realtà, Carlo Grigioni (1910, pp. 44 s.) rintracciò Rizzo a Cesena nel 1499, ricordato dalle cronache locali (Fantaguzzi, 2012) e probabilmente testimone a un atto notarile. Delle due traiettorie di fuga, quella umbro-marchigiana nota a Venezia e la romagnola attestata da fonti neutre, la seconda sembra più credibile, perché Rizzo ebbe certamente interesse a far perdere le sue tracce, depistando eventuali emissari della Signoria. Questa notizia è l’ultima coeva di Rizzo che non è noto dove e quando sia morto.
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