PRIULI, Antonio
PRIULI, Antonio. – Nacque a Venezia il 10 maggio 1548, figlio secondogenito di Girolamo Priuli (figlio di Antonio procuratore di S. Marco), del ramo detto degli Scarponi di S. Felice. La madre era Elisabetta Cappello, figlia di Michele (dei Cappello del ramo di S. Polo).
L’importanza di questo ramo dei Priuli è attestata, alla metà del Cinquecento, dalla costante presenza prima dell’avo e poi, dagli anni Settanta, del padre, nelle maggiori cariche pubbliche. Più difficile una valutazione della loro situazione economica, dopo la chiusura nel 1551 del banco gestito dall’avo Antonio. I beni familiari, case e terreni, denunciati dal padre Girolamo nella dichiarazione di decima del 1582, assicuravano un’entrata annua stimata a 1259 ducati. Andrea Da Mosto la definisce una rendita «limitata» (1960, p. 351), il che si deve intendere non in assoluto, bensì in relazione agli obblighi imposti dalla condizione nobiliare e dall’esercizio di cariche prestigiose. Queste entrate erano, del resto, largamente integrate dalle rendite dei benefici ecclesiastici goduti dai Priuli. Uno zio di Antonio, Matteo (1528-1595) fu vescovo di Vicenza dal 1570; e nel 1595 gli successe in quel medesimo episcopato il fratello maggiore di Antonio, Michele (1547-1603).
Poco si sa della formazione di Antonio Priuli, che non compì studi regolari, ma dovette avere almeno un’infarinatura di lettere. La sua carriera al servizio della Repubblica cominciò negli anni Settanta, durante la guerra di Cipro. Priuli fu ‘venturiere’ nell’armata, portando con sé soldati armati a sue spese. Fu per due volte governatore di galea. Ebbe poi il provveditorato di Peschiera nel 1573.
Al ricordo della battaglia di Lepanto (1571) si lega anche il prestigioso matrimonio contratto nel 1580 con Elena, figlia dell’eroico ammiraglio Agostino Barbarigo. Priuli ebbe sei figli maschi, tra cui Matteo, abate della Vangadizza e cardinale, Agostino vescovo di Bergamo, Michele che sposò Elena Pesaro, e Girolamo, che sposò nel 1618 Franceschina Dolfin, con una dote enorme, valutata fino a 200.000-300.000 ducati. Delle otto figlie, sette furono monacate; Adriana andò invece sposa a quel Francesco Corner, del ramo di S. Polo, che fu poi doge nel 1656. Priuli risiedeva nel palazzo di S. Felice, a Cannaregio, ma comperò dal cardinale Pietro Aldobrandini per 24.000 ducati il Palazzo dei duchi di Ferrara, che divenne poi nel 1621 sede del Fondaco dei turchi. Possedeva inoltre un’azienda commerciale di legnami, con capitale di 4000 ducati, e una tenuta nel Polesine.
A Venezia si credeva comunemente che Priuli si fosse gravemente indebitato nel servizio pubblico, persino per 80.000 ducati, ma forse la maggior parte dei debiti fu contratta per la carriera del figlio cardinale. È però vero che l’impegno di Priuli verso la Repubblica fu continuo: al momento della sua elezione ducale, nel 1618, il panegirista Arsenio Miero poté vantare «co’ pubblici registri che, dal settantré fin al presente, abballottato con solenne applauso, sessantacinque dignità eccellenti havete conseguite e con stupenda memoria rettamente amministrato» (Da Mosto, 1960, p. 349). Non tutte le cariche furono di eguale rilievo: fino ai cinquant’anni, oltre a una regolare presenza in Senato, lo troviamo provveditore alle pompe, sopra banchi, alla sanità, ai Dieci savi alle decime, alle biade, sopra atti. Ma nel 1597 fu eletto per la prima volta savio grande e da allora la sua carriera decollò. Capitano di Padova nel 1599, fu rieletto savio di Consiglio per sei mesi ogni anno tra il 1600 e il 1605 e altre dieci volte tra il 1606 e il 1618; dati che lo pongono tra i patrizi più eminenti del primo Seicento (Grendler, 1990, p. 84).
Nel 1601 fu eletto dal Senato ambasciatore straordinario in Francia, accanto a Giovanni Dolfin, in occasione delle nozze di Enrico IV con Maria de’ Medici: in tale occasione ottenne dal re di Francia il cavalierato. Nel 1602 fu eletto per la prima volta riformatore dello Studio (carica prestigiosa cui sarebbe stato rieletto nel 1608, 1612, 1615 e 1617). La dignità di procuratore di S. Marco, ottenuta nel 1603, ne fece poi un naturale candidato al dogato. Nella elezione del successore di Marino Grimani, nel gennaio del 1606, fu uno dei principali antagonisti di Leonardo Donà. Ma infine fu proprio Priuli, il 10 gennaio, a spianare la via a Donà, cedendogli i propri voti (De Rubertis, 1933, p. 18). Nuovamente nel luglio del 1612, alla morte di Donà, aspirò alla suprema dignità; secondo i giudizi che giravano su di lui nell’arena politica veneziana, aveva «parenti et autorità», ma «gli nuoce[va] l’havere molti figliuoli et uno di essi ecclesiastico» (Cicogna, 1824-1853, IV, p. 650). Prevalse infatti in quell’occasione Marcantonio Memmo, e Priuli continuò il gravoso giro delle cariche pubbliche.
Benché l’età avanzata e le molte indisposizioni lo rendessero inadatto alla vita militare, Priuli dovette accettare, nel 1613-14, il provveditorato generale in Terraferma, per vigilare sui confini lombardi della Repubblica, durante la prima guerra del Monferrato, coadiuvato dal segretario ducale Roberto Lio. In quell’occasione prese anche provvedimenti contro un prestatore ebreo di Asola, nel Bresciano, Joseph Levi, e promosse la creazione del locale Monte di pietà.
Nel 1615 fu nuovamente candidato al dogado, ma gli fu preferito Giovanni Bembo. Nel maggio del 1616, allo scoppio delle ostilità con l’arciduca Ferdinando d’Asburgo (il futuro imperatore Ferdinando II) nella guerra di Gradisca o degli Uscocchi, Priuli fu eletto «provveditore generale delle armi in terraferma et Istria». L’autorità del provveditore era essenzialmente di carattere politico; il comando effettivo delle operazioni spettava al condottiero corso Pompeo Giustiniani. Perciò Priuli, per sostenerne l’autorità di fronte agli altri capi militari, che tendevano all’insubordinazione, nel settembre del 1616 si adoperò per fargli ottenere la patente di mastro di campo. Tuttavia l’aggravamento delle condizioni di salute lo obbligò a lasciare nell’autunno il campo di Mariano del Friuli, e finalmente nel gennaio del 1617 gli fu consentito di rientrare a Venezia, sostituito nel provveditorato da Antonio Lando.
Conclusasi la guerra di Gradisca con la pace di Madrid del settembre del 1617, restava da provvedere alla sua esecuzione nel Friuli e nell’Istria, specialmente riguardo all’annosa questione degli Uscocchi di Segna: nel marzo del 1618 Priuli, scelto dal Senato come commissario assieme all’altro procuratore di S. Marco Girolamo Giustinian, si recò a Veglia per incontrare i commissari austriaci Karl von Harrach e Johann Jacob von Edling. Le trattative erano ormai a buon punto, quando il 18 maggio 1618 arrivò la notizia dell’elezione ducale di Priuli.
In effetti, era stato nuovamente candidato al dogato nel marzo-aprile del 1618, ma gli era stato preferito Nicolò Donà. Deceduto questi dopo appena un mese, nel maggio del 1618 Priuli fu finalmente eletto. Lasciato subito l’incarico di commissario (in cui fu poi sostituito da Niccolò Contarini) fece il suo solenne ingresso a Venezia, con una cerimonia di insediamento in cui furono distribuiti al popolo oltre 3000 ducati.
Il suo dogato coincise con le prime fasi della guerra dei Trent’anni, i cui sviluppi non furono favorevoli alla Repubblica (e soprattutto al patriziato filosarpiano) per l’evidente rafforzamento degli Asburgo dopo il soffocamento della ribellione boema e l’intervento spagnolo in Valtellina. In quel periodo di intrighi e sospetti, aperto dalla congiura di Bedmar del 1618, cadono anche la condanna a morte di Antonio Foscarini da parte del Consiglio dei dieci (1622) e, nello stesso anno, l’aspra disputa tra Roma e Venezia per il conferimento del vescovato di Brescia al cardinale Matteo Priuli, figlio del doge. La decisione di papa Gregorio XV, contraria alle leggi veneziane, fu aspramente criticata dall’ambasciatore veneto Renier Zeno; sicché alla fine il cardinale dovette rinunciare al vescovato, nonostante la vigorosa difesa tentata dal vecchio doge.
La moderna storiografia (e in particolare Gaetano Cozzi) ha messo in luce come Priuli fosse legato per tradizioni familiari e scelte personali alla componente più conservatrice e filocuriale del patriziato veneziano, tanto da essere sfiorato, nel 1612, dallo scandalo del tradimento e della fuga di Angelo Badoer (Preto, 1994, p. 80); Priuli era anche, tecnicamente, un ‘papalista’, per l’appartenenza del figlio Matteo al clero, in un primo tempo (dal 1609) come abate commendatario della Vangadizza, e dal 1616 come cardinale.
Questi orientamenti e queste situazioni condizionarono l’atteggiamento di Priuli nei confronti dei più illustri intellettuali attivi in ambiente veneto nel primo Seicento. Al pari di altri autorevoli patrizi conservatori e filoromani, egli seppe infatti apprezzare il prestigio recato da Galileo Galilei allo Studio di Padova con le sue scoperte; e per quanto il ruolo personale di Priuli non sia sempre individuabile con certezza nel contesto di una magistratura collegiale come quella dei Riformatori dello Studio, è significativo che egli sia stato coinvolto nelle più importanti decisioni prese a favore dello scienziato pisano, come l’aumento di stipendio del 1603, la segnalazione alla Signoria del processo inquisitoriale avviato nel 1604 a Padova contro Galilei e Cesare Cremonini, che fu prontamente bloccato da Venezia, e soprattutto la ‘parte’ presentata al Senato nell’agosto del 1609 per premiare e onorare Galilei dopo la presentazione ufficiale del suo cannocchiale. Il favore di Priuli per Galilei venne meno solamente dopo la sua improvvisa partenza per Firenze, nel 1610.
Fu invece costantemente avverso a fra Paolo Sarpi, non solo per la totale incompatibilità delle loro concezioni dei rapporti fra Venezia e Roma, ma anche a causa di ben precisi interessi familiari dei Priuli in materia di benefici ecclesiastici. Secondo un appunto di Fulgenzio Micanzio, Sarpi, dovendo trattare la scabrosa questione beneficiaria nella sua veste di consultore, si mostrò insensibile alle pressioni e alle sollecitazioni rivoltegli da Priuli, prima e dopo l’elezione ducale, provocandone così l’ostilità.
Morì il 12 agosto 1623, di ritorno da una gita sul Brenta. Fu sepolto a Venezia, a S. Lorenzo.
Seguendo l’esempio del doge Leonardo Donà, non volle che il suo corpo fosse imbalsamato ed esposto pubblicamente, e lasciò pertanto disposizione che il suo cadavere fosse sostituito durante le pubbliche esequie da una figura di stucco.
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