ONGARO, Antonio
ONGARO, Antonio. – Nacque a Venezia (cfr. l’egloga Fillide, in Rime, III, 2, v. 6: «Adria è la patria mia, Ganoro il nome»), con ogni probabilità, intorno al 1560 giacché in una lettera datata 25 agosto 1581 si definisce «giovinetto» precisando però di esercitare già la professione di legge.
Da Venezia, ancora bambino, si trasferì a Padova dove intraprese gli studi giuridici; fu anche a Napoli e intorno al 1578 passò a Roma dove inizialmente esercitò la professione di legge ma di fatto avviò la sua attività di letterato, entrando sotto la protezione di Girolamo e Michele Ruiz, illustri esponenti di una famiglia spagnola trapiantata nell’Urbe, che svolsero un ruolo di generoso mecenatismo. Grazie ai Ruiz ebbe modo di frequentare altre famiglie aristocratiche, come i Farnese, gli Aldobrandini, gli Orsini e i Colonna, presso il cui castello a Nettuno, nel 1582, fu per la prima volta rappresentato il suo Alceo, dedicato ai fratelli Ruiz. Fu di temperamento facile agli amori, come si evince dalle Rime in cui celebrò con pseudonimi le donne amate.
In una canzone epitafica (Rime, III, 7) piange la moglie Aurelia Afferi del Cardinale. A Vincenzo Monforte (1996) risulta invece che fosse sposato con Camilla Farnese – figlia di Mario, duca di Valentano – nata dal primo matrimonio del duca con Camilla Lupi di Soragna. Si può ipotizzare che, morta Aurelia, Ongaro avesse sposato in seconde nozze Camilla.
Con il nome di Affidato fece parte dell’Accademia degli Illuminati, istituita e patrocinata da Isabella Pallavicini, seconda moglie di Mario Farnese. Intorno al 1585, dopo la parentesi nettunese, si trasferì a Valentano, nei pressi di Viterbo, al servizio di Mario Farnese del quale si professò riconoscente debitore per esser giunto, grazie alla sua protezione, «da tempeste al porto» (Rime, I, 1, vv. 9-14). Sembrerebbe aver partecipato alla campagna in Fiandra al seguito di Mario o di Alessandro Farnese o, quanto meno, averne avuto intenzione e desiderio di parteciparvi.
I motivi che lo spinsero al passaggio dalla protezione dei Ruiz a quella del Farnese non sono del tutto chiari: forse i Ruiz (Monforte, 1996), erano uomini di fiducia del duca Mario e il servizio di Ongaro presso di loro potrebbe essere stato autorizzato o imposto da Farnese stesso che successivamente avrebbe però richiamato il poeta alla sua corte. Oppure potrebbero essersi verificate incomprensioni tra i Ruiz e Ongaro tali da portare a una rottura, come forse suggerisce il poemetto Della Notte (Rime, III, 6) in cui il poeta, dietro la difesa di sé stesso rivolta a una donna impudentemente avvicinata, sembra in realtà difendersi da altre accuse.
Morì a Valentano, in una data compresa tra il 3 dicembre 1592, giorno della morte di Alessandro Farnese, che pianse nei suoi versi, e il 1599.
A questa data, infatti, doveva già essere morto, perché – con lettera datata 2 dicembre 1599 – l’amico Tiberio Palella, anch’egli appartenente all’Accademia degli Illuminati, inviava il manoscritto delle Rime alla marchesa Isabella Pallavicini, pregandola di farle stampare con il beneplacito del signor Mario Farnese, dal momento che gli era giunta notizia che alcuni pubblicavano indebitamente spacciandoli per propri i sonetti di Ongaro al quale una morte prematura aveva impedito di sistemare la propria produzione letteraria. Monforte (1996), in particolare, si dichiara propenso a collocare la morte entro i primi mesi del 1593, dal momento che nei versi di Ongaro, sempre aperti e ricettivi ai fatti di cronaca contemporanea, manca ogni accenno a vicende pubbliche posteriori alla scomparsa e ai funerali di Alessandro Farnese.
Esperienza fondamentale per Ongaro furono gli anni romani durante i quali frequentò Torquato Tasso e i letterati riuniti intorno al poeta: Cinzio Aldobrandini, Gabriello Chiabrera, Isabella Andreini, Virginio Orsini, Giambattista Strozzi il giovane, Antonio Decio: insieme a questi ultimi tre compare come pastore della valle Tiberina nell’opera di Antonio Piccioli Prose Tiberine… all’amorosissimo Tirsi Principe dei pastori della valle Tiberina… (Trevigi, Evangelista Deuchino, 1597). Tasso, celebrato dallo stesso Ongaro in un sonetto encomiastico (Rime, I, 44), esercitò su di lui profonda e decisiva influenza orientandone la poetica.
Di netta derivazione tassiana è infatti il dramma piscatorio Alceo (1581), al quale Ongaro deve la sua pur esigua fama: con quest’opera fu tra i primi a imitare, con buona perizia, l’Aminta di Torquato Tasso (prima rappresentazione: 1573; ed. princ.: 1581), trasponendo però la scenografia delle vicende cantate dai consueti boschi dell’egloga pastorale alle coste laziali del mar Tirreno, precisamente sulle spiagge di Nettuno. L’Alceo dipende dall’Aminta per tutto lo svolgimento dell’intreccio narrativo, sebbene in misura più definita nei primi due atti. La stretta aderenza al modello, unitamente alla mutata ambientazione marina, valse all’Alceo, nella Pinacotheca imaginum (1643) di Giovan Vittorio Rossi, la definizione di Amynta madidus, spesso ripresa dagli eruditi dei secoli scorsi. Con tale trasposizione marittima Ongaro si mosse peraltro nel solco di una moda letteraria avviata dalle Eclogae piscatorie di Iacopo Sannazzaro (1526) che inaugurarono un microgenere assai fortunato nella letteratura volgare del Cinquecento. Al genere piscatorio appartiene anche l’egloga Glicone (Rime, III, 3), ambientata sullo sfondo di scenari partenopei, che, risultando prova più acerba, è forse precedente all’Alceo. Verosimilmente Ongaro venne a conoscenza di tale produzione durante il suo soggiorno napoletano; è certo che abbia avuto buona consuetudine almeno con alcune opere di questo filone letterario. Egli esplicitamente riconosce come propri modelli Berardino Rota, autore di 14 Egloghe Pescatorie (1560) e Ludovico Paterno che compose una raccolta di Marittime nel quinto volume de Le Nuove Fiamme (1561). Inoltre Chiodo individua nell’Alceo reminiscenze dell’opera latina del Sannazzaro e segnala echi dell’egloga Glicone in opere successive di letterati alle prese con il genere piscatorio, dal Giovan Battista Marino delle Marittime (1604) fino a Ripano Eupilino (1752), pseudonimo di Giuseppe Parini.
Il dramma piscatorio di Ongaro incontrò grande favore di pubblico, come attestano le numerose dichiarazioni di stima formulate dai suoi amici in varie epistole e come soprattutto testimonia la fortuna editoriale di cui, da subito, godette l’opera. L’Alceo segna in ogni caso una distanza dall’egloga piscatoria umanistica. Se infatti Sannazzaro, pur palesando allusioni autobiografiche e sostituendo, alle tradizionali geografie quelle del suo panorama familiare (la baia di Napoli, Mergellina e Posillipo), si rifugia nel vagheggiamento di un mondo arcadico e idillico, Ongaro più decisamente piega l’eredità dell’esperienza letteraria a lui precedente a farsi interprete del proprio universo esistenziale, porgendo tra le righe il dato autobiografico. Con modalità imprevista rispetto a quel genere letterario, apre improvvisi squarci introspettivi con acuminata profondità di riflessione e finezza di tratteggio psicologico.
Compose anche 160 liriche, raccolte e pubblicate per generoso interessamento di amici, dopo la sua morte, in tre libri rispettivamente di 96, 48 e 16 testi. Sono composizioni di varia natura (occasionali, celebrative, epitafiche, amorose, filosofiche), sostanziate di numerosi riferimenti alla realtà coeva e impreziosite da riferimenti mitologici e classicheggianti: muovendo da un iniziale intendimento di imitazione petrarchesca, si arricchiscono di quel gusto estetico e di quelle suggestioni filosofico-scientifiche che caratterizzarono la poesia tardo-cinquecentesa e a volte approdano a esiti particolarmente intensi che sembrano in rari momenti preannunciare persino corde leopardiane. Tale produzione trova, pur con varie modalità e tendenze, abbondanti confronti con i contemporanei, quali Gaspara Stampa, Vittoria Colonna, Francesco Maria Molza, Annibal Caro, Bernardo Tasso, Giovanni della Casa, Luigi Tansillo.
Fu autore anche di 10 carmi latini (per un totale di 530 versi) di ottima fattura rivelando una cifra stilistica affatto personale. L’elaborata sintassi consegna un dettato magniloquente che lascia trapelare il tessuto già barocco della sua lirica italiana. In essi si riscontrano temi presenti anche nella sua poesia volgare. Si tratta di nove brevi carmi (sette epitafi, un’invettiva e una lamentatio) e di un poemetto in 397 esametri, l’Hospitium Musarum, dedicato al piccolo Pietro Ruiz e composto a ridosso del 1583, come suggeriscono indizi interni al testo. Il poema ruota intorno a tre perni: la topica deplorazione del miserevole stato in cui versano gli studi e la cultura, il canonico elogio del mecenate Girolamo Ruiz e la dettagliata descrizione di palazzo Ruiz e delle sue magnificenze artistiche che occupa tutta la seconda parte del poema costituendone di fatto il nucleo narrativo privilegiato e inserendo a buon diritto il poema in quel filone letterario di descriptiones domorum che tanta fortuna ebbe nel Cinquecento, soprattutto in ambiente romano.
Scrisse infine, in dialetto veneziano, un capitolo in terza rima spigliato e scherzoso (tuttora inedito: Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Marc. Ital., IX.173, cc. 360r-361r), che racconta la fine di una relazione con una persona rivelatasi indegna del suo sentimento e in cui affiorano temi comico-realistici di quella poesia amorosa e puttanesca particolarmente feconda in ambiente veneziano tardo-cinquecentesco.
Opere. Rime d’Antonio Ongaro, detto l’Affidato Accademico Illuminato, a cura di Tiberio Palella, in Farnese, per Nicolò Mariani, 1600 (libri I-II); Delle Rime del signor Antonio Ongaro detto l’Affidato nell’Accademia de gli Illuminati. Parte terza. Non più stampata con alcune compositioni latine del medesimo autore date fuori da Agostin Campana, in Vicenza, per Giorgio Greco, 1605 (III libro).
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