NICCOLINI, Antonio
– Nacque a San Miniato (Pisa) il 21 aprile 1772 da Niccolò e da Teresa Giannini di Orciano, penultimo di 16 figli.
Ancora adolescente ebbe come primo maestro il decoratore napoletano Pasquale Cioffo, esperto in trompe l’oeil, e nel 1788 comparve tra i disegnatori di Pisa illustrata, raccolta di tavole incise da Ferdinando Fambrini. L’incontro a Livorno con Francesco Fontanesi segnò poi il suo approdo al mondo della scenografia. Le scene dipinte per il teatro dell’Accademia dei Coraggiosi a Pomarance nel 1794 rappresentarono molto probabilmente il suo primo incarico in questo ambito. L’anno successivo partecipò alla decorazione della sala del teatro Reale a Pescia, chiamato dal fratello Giuseppe, insieme al quale proseguì un intensa attività, soprattutto nel settore teatrale, che gli consentì la conquista di una discreta fama, quanto meno in ambito toscano, e che culminò con la nomina a professore di pittura presso la Reale Accademia di belle arti di Firenze (28 marzo 1798).
Nel 1806, concluso il sodalizio con Giuseppe, decorò le scene per Andromeda e Perseo, balletto di Gaetano Gioja con cui s'inaugurò il teatro Carlo Lodovico di Livorno. Grazie alla mediazione di questo coreografo approdò a Napoli nel 1807. L’esordio al S. Carlo avvenne il 27 giugno 1807 con il Climene, opera in musica di Giuseppe Farinelli; fu tuttavia il Cesare in Egitto, balletto coreografato da Gioja sulla musica di Robert von Gallenberg a segnare il suo primo vero successo, decretando l’inizio di una folgorante carriera che lo vide annientare la fama del suo predecessore, il conterraneo Domenico Chelli. Le sue scenografie incontrarono molto spesso il favore del pubblico e della critica che, tuttavia, talvolta gli imputò uno scarso rispetto del dato storico. Nel difendersi da tali accuse, in una lettera scritta per il Monitore delle Due Sicile (17 dicembre 1811), rivendicò le sue ragioni, distinguendo acutamente tra l’architetto, che espone la storia dell’arte attraverso gli esempi e non «può permettersi la minima licenza», e lo scenografo, il quale deve «applicare con criterio e con gusto le cognizioni delle epoche architettoniche e delle varie nazioni che deve rappresentare a quelle del tempo per il quale le rappresenta» (cit. in Mancini, 1964, pp. 186 s.). Ricoprì un ruolo centrale anche nell’Accademia di belle arti, all’interno della quale nel 1817 fu alla guida della Reale Scuola di scenografia. Dal 1820 gli fu affidata la docenza di prospettiva e geometria pratica e infine, nel 1822, ne divenne direttore. In tale ruolo cercò di promuovere le produzioni artistiche locali, e a questo scopo offrì un contributo essenziale alla fondazione della Scuola degli artieri, una scuola elementare di disegno applicato alle arti meccaniche volta a migliorare la qualità dell’alto artigianato.
All’indomani del suo arrivo a Napoli divenne architetto di prima classe, insieme al francese François Le Compte e ad Antonio De Simone. In ragione di ciò fu coinvolto in numerose ristrutturazioni delle residenze reali. Nel 1813 divenne anche architetto decoratore dei reali teatri e restaurò e realizzò ex novo numerosi edifici teatrali. Uno degli interventi più riusciti fu la prima ristrutturazione del S. Carlo (1816), dove seppe adeguare la struttura alle nuove esigenze degli spettacoli moderni e del crescente pubblico senza sovvertire l’impianto preesistente. Al mondo delle rappresentazioni teatrali è legato anche il testo Alcune idee sulla risonanza del teatro (Napoli 1811), in cui nel sottolineare le rilevanti differenze tra il teatro antico e quello moderno sostenne la netta superiorità del secondo rispetto al primo, poiché figlio di conoscenze scientifiche e tecnologiche superiori. Nello scritto mostrava un approccio all’antico fondato sull’osservazione delle rovine e sui rilievi sistematici operati alla luce di uno studio accurato delle fonti antiche.
Analoghe caratteristiche emergono nei suoi testi di storia naturale, dedicati in particolare allo studio del cosiddetto Tempio di Serapide (Macellum) di Pozzuoli, in quegli anni al centro dell’attenzione di numerosi geologi. Si applicò a lungo all’osservazione di tali rovine, recandovisi fin dal 1808, disegnando e notando la disposizione anomala delle conchiglie presenti sulle colonne dell'edificio. Sulla base di tali studi, nel 1828 concepì una delle ipotesi più moderne sul fenomeno del bradisismo (Rapporto sulle acque che invadono il pavimento dell'antico edifizio detto il tempio di Giove Serapide, Napoli 1829). L’impegno profuso fu premiato con l’inclusione, a partire dagli anni Venti, nella Società reale borbonica, di cui divenne presidente ad interim nel 1848.
Sia in architettura sia in scenografia il suo gusto fu improntato a un fondamentale eclettismo che incluse anche l’arte cinese e il gotico, considerato non solo essenziale documento di una fase della storia artistica, ma anche fonte inesauribile di suggestivi elementi decorativi da inserire nei giardini delle ville private affidate alla sue cure, dove emerse con particolare evidenza un modus operandi volto ad accostare rovine classiche e gotiche, tipiche del giardino all’inglese, a elementi di architettura meridionale, il tutto armonizzato assecondando le caratteristiche naturali del sito. Tali peculiarità della sua arte trovarono applicazione nei lavori di ammodernamento della grande villa della duchessa di Floridia, moglie morganatica di Ferdinando.
Tra gli incarichi eseguiti per la famiglia reale va citata anche l’alcova di Francesco I e Isabella, realizzata a Capodimonte nel 1830. Qui tutto è frutto del lavoro dell’architetto, dalla tinta celeste del parato di seta fino allo stile sobriamente neoclassico che accosta le pitture alla pompeiana e gli stucchi tipicamente partenopei ai pavimenti mosaicati provenienti dagli scavi di Capri e Pompei, seguendo un concetto di progettazione totale degli spazi.
Si rivelò anche ispirato urbanista nelle varie proposte presentate ai sovrani – napoleonidi prima e Borbone poi – che rivelano una visione unitaria degli spazi urbani e degli edifici inseriti in essi, secondo una idea moderna di paesaggio. Notevole il cosiddetto Progetto drande, non realizzato, per la risistemazione degli spazi antistanti il palazzo reale con una serie di giardini terrazzati digradanti vero il mare che avrebbero dovuto avere funzione di parco pubblico. La dimensione aperta e fruibile caratterizza anche l’altro massiccio intervento nel panorama cittadino, in questo caso attuato: quello della scalinata di Capodimonte, commissionata nel 1826 da Francesco I ma terminata solo nel 1836, e unicamente grazie alla caparbia dello stesso progettista che decise di portare a termine il lavoro a sue spese con il ricavato dalla vendita della sua collezione d’arte, offerta alla corona borbonica. Nonostante le accuse di avere fatto una scalinata somigliante alla scala di Giacobbe riprodotta nella scenografia di un oratorio musicale presentato al S. Carlo qualche anno prima, una volta ultimata l’opera riscosse un grande successo di pubblico e rappresentò un formidabile raccordo con la parte collinare della città.
Tra gli incarichi pubblici non mancarono quelli legati al mondo dei musei e dell’arte. Diresse per ordine regio la pubblicazione del Real Museo Borbonico (Roma 1836-45). Nel 1825, con Joseph Fraque, docente di pittura all’accademia, e Giuseppe Cammarano, docente di paesaggio, fu tra gli incaricati di selezionare i dipinti migliori presenti nelle residenze reali da esporre all’interno dello stesso museo. Per tale istituzione propose anche una soluzione finalizzata a dare omogeneità e coerenza agli ambienti per risolverne gli annosi problemi di spazio, ma il suo progetto fu scartato a favore di quello di Pietro Bianchi. Va ascritta al genio di Niccolini anche l’ideazione del sistema per staccare e trasportare il grande mosaico pompeiano della Battaglia di Isso, merito che Bianchi cercò di arrogare a se stesso. Niccolini controbatté nella memoria Ricordi di taluni fatti risguardanti il distacco ... del gran musaico Pompejano in confutazione di quanto fu su di ciò divulgato (Napoli 1849).
Nel 1848 la crisi economica e del riformismo borbonico produsse una significativa battuta d’arresto in tutti i lavori di ammodernamento in corso, per cui la mentalità di Niccolini risultò d’un tratto non più in sintonia con quella del nuovo sovrano, Ferdinando II. Iniziò dunque per lui una fase di lento declino, culminata nelle accuse di favoritismo e inefficienza rivoltegli della Commissione straordinaria temporanea per proporre riforme all’istituto di belle arti e agli istituti ad esso legati, composta dai colleghi architetti Pietro Valente ed Errico Alvino. Si difese pubblicamente in una lettera in cui faceva appello alla opinione del popolo e al tribunale della storia (Discorso ai signori componenti la Commissione incaricata di esaminare l'andamento del R. Istituto per le belle arti (ibid. 1848), ma le accuse rappresentarono la definitiva rottura dei già difficili rapporti con il re Ferdinando II, per il quale pure nel 1844 era riuscito a eseguire in economia dei lavori di restauro del S. Carlo. Essa giungeva infatti dopo una serie di battute d’arresto, tra le quali la sospensione dalla direzione dei lavori per il completamento del palazzo reale di Capodimonte – dove fu sostituito dal più giovane collega Tommaso Giordano – e l’esonero dall’incarico di realizzare cinque camini per la stessa dimora regia. Al di là delle possibili implicazioni politiche e dei sentimenti di rivalità tra colleghi, le critiche che gli venivano mosse riguardavano sostanzialmente lo stile, definito barocco, e la pratica professionale, ancora legata a un concetto tradizionale del mestiere d’architetto che mal tollerava l’obbligo di redigere progetti esecutivi.
La morte lo sorprese a Napoli, il 9 marzo 1850 quando era ancora impegnato su vari fronti.
Fonti e Bibl.: V. Torelli, Cavalier A. N., in L’Omnibus, XVIII (1850), 38, p. 150; C.N. Sasso, Storia de' monumenti di Napoli e degli architetti che li edificavano, I-II, Napoli 1856-58, passim; A. Venditti, Architettura neoclassica a Napoli, Napoli 1961, passim; F. Mancini, Un’autobiografia inedita di A. N., in Napoli nobilissima, III (1964), pp. 185-194; E. Anhalt-Rondoni - A. Matteoli, Un architetto sanminiatese oggi dimenticato, in Bollettino degli Euteleti della città di San Miniato, LIX (1978), 47, pp. 103-105; F. Mancini, Scenografia napoletana dell’Ottocento. A. N. e il neoclassico, Napoli 1980; L. Caruso - L. Caruso, Antonio Benci biografo di N., in Il teatro del re: il S. Carlo da Napoli all'Europa, a cura di G. Cantone - F.C. Greco, Napoli 1987, pp. 81-111; F. Divenuto, Il teatro solido e bello. Leconte e N., ibid., pp. 113-149; P. Mascilli-Migliorini, A. N. e il teatro del Fondo a Napoli: progetti e trasformazioni in periodo murattiano, in Rivista italiana di studi napoleonici, XXVI (1989), 4-5, n. 2 , pp. 69-75; M.L. Scalvini, A. N. e il «Progetto Grande» per Napoli da Gioacchino Murat a Ferdinando II, in Il disegno di architettura, a cura di P. Carpeggiani - L. Patetta, Milano 1989; Id., La scuola di architettura nell’Accademia napoletana e i suoi responsabili, in L’architettura nella accademie riformate. Insegnamento, dibattito culturale, interventi pubblici, a cura di G. Ricci, Milano 1992, pp. 213-235; A. Milanese, Il Museo reale di Napoli al tempo di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat: Le prime sistemazione di 'museo delle statue' e delle altre raccolte (1806-1815), in Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte, XIX-XX (1996-97), pp. 345-405; A. N.: architetto e scenografo alla corte di Napoli, 1807-1850, a cura di A. Giannetti - R. Muzii, Napoli 1997; L. Ciancio, Le colonne del tempo: il tempio di Serapide a Pozzuoli nella storia della geologia, dell'archeologia e dell'arte (1750-1900), Firenze 2009, pp. 163-170 e passim.