MOSTO, Antonio
– Nacque a Genova il 12 luglio 1824 da Paolo e da Nicoletta Rivarola, quartogenito di sette figli.
La famiglia era radicata nell’ambiente commerciale della città, impegnata in traffici nella penisola e in Oriente. Mosto, che da adolescente iniziò a lavorare nell’azienda paterna, conobbe il fermento politico e culturale degli anni precedenti al 1848 frequentando per gli affari familiari il porto, principale centro di diffusione di idee e di notizie della città. L’entusiasmo per gli ideali democratici e per il movimento nazionale si formò in lui probabilmente già prima del 1848, ma fu in quell’anno che abbracciò la militanza politica. Si arruolò, infatti, con il fratello Andrea, nella costituenda Guardia nazionale, la milizia civica paramilitare di ispirazione liberale concessa dallo Statuto. Quando nel marzo 1848, pochi giorni dopo la svolta costituzionale del Regno di Sardegna, esplose l’insurrezione milanese, i due partirono volontari per la Lombardia. Si arruolarono in una compagnia intitolata a Mazzini, insieme a Goffredo Mameli, Nino Bixio, Giuseppe Daneri e altri giovani che sarebbero diventati famosi nel mondo del patriottismo italiano. Il nome della formazione qualificò il carattere democratico e radicale dei genovesi, i quali peraltro, giunti in Lombardia, furono divisi e aggregati ad altre formazioni dell’esercito regolare piemontese. I Mosto, uniti alla brigata Pinerolo, parteciparono all’assedio di Peschiera. Rientrati a Genova dopo l’armistizio, furono tra i simpatizzanti del Circolo italiano, un’organizzazione di tendenza mazziniana in cui erano presenti Bixio, Filippo De Boni, Giovanni Battista Albertini e Luigi Lomellini.
Nel decennio successivo al 1848 Mosto si affermò come esponente importante della borghesia commerciale genovese e allo stesso tempo moltiplicò il suo impegno politico. A Genova fioriva una battagliera stampa democratica, mentre l’organizzazione mazziniana era rafforzata da esuli giunti da tutta la penisola dopo la fine delle Repubbliche di Roma e di Venezia. Mosto, insieme a Francesco Bartolomeo Savi e Antonio Burlando, si ritrovò in un ambiente politico effervescente, in cui il movimento repubblicano assunse proporzioni sempre più vaste gettando radici nel ceto borghese e in quello popolare. Nella sua casa si tennero cene e riunioni politiche, mentre l’impresa di famiglia finanziò senza sosta l’organizzazione. Il suo pragmatismo lo portò a lavorare concretamente per la preparazione della futura guerra nazionale, senza sviluppare però particolari aspirazioni intellettuali. Anche per questo non fu direttamente protagonista delle lacerazioni che periodicamente attraversarono il mondo della democrazia e del patriottismo genovese. Inoltre, con la conoscenza personale di Mazzini, si rafforzò un legame politico e umano destinato a durare sempre.
In questi anni Mosto fu inoltre tra i più decisi animatori della nuova società per il Tiro a segno, istituita all’inizio del nuovo decennio con l’obiettivo di addestrare i futuri volontari per la guerra di liberazione nazionale. L’associazione, pur ideata dagli ambienti radicali, ottenne grande successo e la partecipazione si ampliò rapidamente sia a istituzioni cittadine, come la Guardia nazionale, sia a esponenti moderati. Mosto fu in prima fila non solo come animatore del Tiro a segno, ma anche come fuciliere, vincendo negli anni successivi un notevole numero di gare e diventando anche sotto questo aspetto uno dei riferimenti dei numerosi frequentatori dell’associazione.
Il 1857 fu un anno drammatico per il movimento repubblicano e sancì la prima grave crisi dell’organizzazione genovese a cui apparteneva Mosto. In vista della partenza della spedizione di Pisacane, Mazzini aveva previsto altri due moti a Genova e Livorno, che finirono entrambi disastrosamente. Mosto, pur non partecipando all’azione, fu identificato dalla magistratura sarda come uno dei suoi promotori. Nel processo tenuto nel 1858 fu tra i condannati a morte, insieme con Mazzini. A differenza del suo amico Savi, che scontò una lunga detenzione, riuscì a fuggire all’arresto, imbarcandosi clandestinamente e riparando in Inghilterra.
Nell’esilio britannico si legò ancora più profondamente a Mazzini, collaborando con il leader repubblicano per alcuni mesi come suo segretario. Frequentò inoltre l’ambiente degli esuli, stringendo amicizia con Nicola Fabrizi, Federico Campanella, Antonio Profumo e soprattutto con il siciliano Rosolino Pilo. Ebbe importanti incarichi, curando gli aspetti finanziari e operativi dell’organizzazione clandestina e della rete mazziniana. Di fronte all’ipotesi di una nuova guerra nell’Italia settentrionale firmò l’appello dei dirigenti repubblicani (tra cui Francesco Crispi, Alberto Mario, Aurelio Saffi e Pilo) che li impegnava a combattere per l’unità nazionale senza pregiudiziali ideologiche, ma respingendo la guida di Napoleone III. Rimase sempre un uomo d’azione, anche nella vita civile: a Manchester aprì una attività commerciale (come rappresentante di prodotti alimentari italiani) che incontrò un discreto successo e fu sostenuta intensamente dallo stesso Mazzini.
A Genova, frattanto, non si era conclusa l’attività del Tiro a segno. All’inizio della seconda guerra d’indipendenza all’interno dell’associazione si formò un gruppo di volontari genovesi (tra cui suo fratello minore Carlo), che fu aggregato ai Cacciatori delle Alpi di Garibaldi e fu molto apprezzato nella campagna del 1859, creando le premesse per i futuri successi. Mosto, rientrato a Genova grazie all’amnistia promulgata dal governo piemontese in occasione della guerra, non fu impegnato nelle operazioni militari. Giunto in città, oltre a riprendere l’attività commerciale, fu immediatamente riconosciuto come uno dei maggiori dirigenti del movimento democratico, curando la pubblicazione del periodico mazziniano Pensiero e azione e svolgendo un’intensa pratica organizzativa. Grande successo raccolse la sua attività, per esempio, nella sottoscrizione per il Milione di fucili per Garibaldi, a cui aderirono repubblicani e moderati, fra i quali lo stesso sindaco di Genova Giuseppe Morro.
Il 1° febbraio 1860 fu tra i fondatori della società La Nazione, in cui militavano molti dirigenti della democrazia: Agostino Bertani, Bixio, Lorenzo Pareto, Daneri, Vincenzo Carbonelli e Vincenzo Ricci. Il programma era molto simile a quello della Società nazionale di Giuseppe La Farina, aderendo alla formula «libertà, indipendenza e unità sotto Vittorio Emanuele II», ma nella pratica mostrava un evidente connotato radicale. Nelle febbrili settimane che precedettero il maggio del 1860 la sua casa ospitò ininterrotte riunioni e intense discussioni, mentre in città si formò un piccolo ma addestrato gruppo di volontari, i Carabinieri genovesi, armati di armi moderne ed efficaci, equipaggiati a spese dello stesso Mosto e del suo amico Burlando.
In quei giorni fu assai vicino a Garibaldi e tra i più decisi a volere la spedizione in Sicilia. Dopo la partenza da Quarto i Carabinieri furono organizzati in un reparto autonomo, da lui comandato, in cui figuravano personaggi importanti della democrazia genovese: Burlando e Savi innanzitutto, poi Stefano Canzio, Davide Uziel e, tra gli altri, anche Carlo Mosto. La campagna siciliana rese celebri i Carabinieri genovesi nel movimento patriottico e sulla stampa nazionale e internazionale, facendo sì che il loro capitano diventasse uno dei personaggi più conosciuti dell’epopea dei Mille.
I Carabinieri furono i principali protagonisti della vittoria garibaldina a Calatafimi, e nei giorni successivi furono sempre impegnati in scaramucce a copertura della marcia della colonna di Garibaldi su Palermo. In uno di questi scontri fu ucciso il fratello di Mosto (il quale ne poté verificare la morte solo molti giorni dopo, in seguito alla tregua firmata nel capoluogo tra Garibaldi e i vertici borbonici). I Carabinieri furono all’avanguardia quando la spedizione raggiunse Palermo e ancora una volta essenziali negli scontri sulle barricate della capitale siciliana. Il corpo, dopo esser stato accresciuto con l’arrivo di volontari dall’Italia settentrionale e l’ingresso di militi meridionali, fu in prima fila nella battaglia di Milazzo, riportando perdite altissime. Furono i Carabinieri a intervenire in uno degli episodi più celebri della spedizione, quando la cavalleria borbonica stava per travolgere Garibaldi, salvato poi da Giuseppe Missori nel corpo a corpo. Divenuti oramai il corpo scelto dell’esercito meridionale fondato da Garibaldi in Sicilia, i Carabinieri sbarcarono in Calabria il 19 agosto e parteciparono alla fulminante marcia su Napoli. La formazione genovese, cresciuta di molto, fu quindi riorganizzata in due compagnie. Mosto fu promosso maggiore. Nei tre mesi successivi combatterono sulla linea del fronte, da Caiazzo fino alla presa di Capua, l’ultimo atto della campagna garibaldina. Nella battaglia del Volturno rinnovarono la loro fama, partecipando agli scontri intorno a S. Angelo e difendendo Caserta, subendo ancora una volta perdite molto elevate. Poche settimane dopo, con lo scioglimento dell’esercito meridionale, i genovesi tornarono nella loro città, delusi per la mancata prosecuzione della marcia su Roma. Mosto fu proposto per la medaglia d’oro, che avrebbe invece respinto dopo l’episodio di Aspromonte dell’agosto 1862.
Nei due anni successivi partecipò alle convulse vicende che dividevano le forze nazionaliste e, soprattutto, mazziniani e garibaldini. Genova, roccaforte del Partito d’azione, fu al centro di questi aspri scontri politici che portarono alla formazione di due organizzazioni distinte, anche sotto l’aspetto militare. Il problema del completamento dell’unificazione, con la liberazione di Roma e Venezia, insieme alla lotta per la direzione politica del movimento (e a molte rivalità personali), erano i temi che attraversavano la democrazia italiana e radicalizzarono l’ambiente politico genovese. Mosto fu membro di entrambi i comitati, affiancando alla lealtà verso Mazzini una solida amicizia con Garibaldi. Partecipò da protagonista alla fondazione dell’Associazione emancipatrice italiana, nell’assemblea presieduta da Garibaldi a Genova il 9 marzo 1862. In realtà divisioni e perplessità, politiche ed operative, cominciarono a dividere anche l’ambiente repubblicano (Mario, Bertani, Crispi criticarono sempre più spesso l’atteggiamento di Mazzini), finché la situazione precipitò con la crisi di Aspromonte, alla fine dell’estate del 1862, quando la pronta repressione della polizia italiana portò al temporaneo scioglimento dell’organizzazione democratica. In quel periodo Mosto diventò l’esponente di maggior rilievo del movimento mazziniano genovese (in città fu eletto consigliere comunale), oltre che uno dei principali dirigenti nel paese. Si divise tra la direzione del Tiro a segno e la promozione delle strutture politiche del movimento, dedicandosi senza sosta alla raccolta di armi e di fondi per possibili interventi nel Veneto. Rotture e riavvicinamenti tra mazziniani e garibaldini continuarono a marcare una fase in cui Mosto non rinunciò mai al suo ruolo di mediatore, una funzione svolta anche negli anni successivi. In questa lunga serie di riunioni e trattative incontrò segretamente, in rappresentanza dei repubblicani, anche Vittorio Emanuele II, ma il colloquio non diede frutti concreti.
Nel frattempo dovette registrare il progressivo esaurimento del patrimonio familiare, dovuto anche all’ininterrotta azione di sostegno al movimento mazziniano. Cercò tuttavia di rinnovare le sue iniziative imprenditoriali, impegnandosi tra l’altro con Carlo Cattaneo nella campagna per l’apertura del traforo del Gottardo. Verso la fine degli anni Sessanta fu tra i promotori della Banca popolare di Genova, di cui fu eletto direttore. Nella seconda metà del decennio mantenne anche il suo ruolo nella Società emancipatrice e nella nuova associazione repubblicana, la Falange sacra, partecipando poi a Parma all’Assemblea delle società democratiche italiane.
Nel 1866, mentre il paese era in fermento in vista della guerra con l’Impero asburgico, riprese la sua attività militare. Dopo lunghe insistenze e trattative, sostenuto dal sindaco e da gran parte delle forze politiche della città, ottenne l’autorizzazione a fondare un corpo, i Bersaglieri volontari, composto da molti dei vecchi Carabinieri genovesi oltre che da reclute che provenivano dallo stesso ambiente politico o territoriale. I Bersaglieri si distinsero nelle battaglie di Montesuello e Lodrone e poi a Tiarno e Bezzecca ma, ancora una volta, accolsero la fine della guerra con profonda delusione. Mosto espresse dure critiche sull’operato degli alti ufficiali italiani e sulla conclusione del conflitto. Subito dopo la smobilitazione del suo reparto, riprese l’attività politica nell’Alleanza repubblicana universale, l’ultima organizzazione fondata da Mazzini. Nell’autunno del 1867, quando Garibaldi ritentò l’impresa romana, Mosto e i genovesi lo seguirono in massa, pur rendendosi conto della grande confusione politica e militare in cui si svolgeva l’operazione. Entrati nello Stato pontificio, parteciparono all’assalto a Monterotondo, ma subirono perdite enormi. Lo stesso Mosto fu ferito gravemente a una gamba, tanto da restare menomato e dover essere rapidamente riportato nella sua città.
Mazziniani e garibaldini, dopo Mentana, si riavvicinarono unendosi nell’Associazione dei reduci presieduta da Stefano Canzio. Mosto fu in prima fila in questa organizzazione e nella miriade di nuove ed effimere organizzazioni mazziniane. La politica repubblicana registrò crescenti adesioni nell’ambiente operaio e nel mondo del reducismo patriottico, ma si rivelò sempre più settaria e marginale nel sistema politico, impegnata in piccole cospirazioni e qualche confuso tentativo semi-insurrezionale. Nel giugno del 1869, in conseguenza di una retata fatta a Milano dalla polizia, Mosto fu arrestato con altri importanti dirigenti come Canzio e Luigi Stallo, ma la detenzione si concluse con il loro rilascio, senza processo, dopo qualche mese.
Mosto, che nel frattempo si era sposato contro il parere della sua famiglia con una donna di origine spagnola, Pasqualina Yrarzabal, conobbe sempre maggiori insuccessi nelle attività imprenditoriali e, soprattutto, il grave fallimento della Banca popolare che lo costrinse alle dimissioni da direttore.
Le difficoltà personali lo portarono ad abbandonare progressivamente l’impegno diretto nel Tiro a segno e nelle organizzazioni repubblicane, a cui pure restò iscritto, rappresentandole continuamente nelle manifestazioni ufficiali e patriottiche. La morte di Mazzini, nel 1872, fu per lui un colpo terribile e lo segnò per sempre. Iniziò un esplicito abbandono della lotta politica, che divenne definitivo alla metà degli anni Settanta. Restò però sempre fedele all’eredità repubblicana e quando le polemiche divisero ancora una volta i reduci, di fronte alle critiche sull’esperienza mazziniana, non esitò a difendere l’azione del movimento repubblicano, confermando una concezione della militanza patriottica unitaria e pragmatica, priva di asprezze ideologiche.
Morì a Genova il 30 giugno 1890.
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