MILLEDONNE, Antonio
– Nacque a Venezia il 27 sett. 1522 da Giovanni e da Oria Orio, figlia naturale del patrizio Giacomo Antonio Orio.
I Milledonne erano un’antica famiglia di cittadini originari veneziani. Al padre Giovanni era stato attribuito l’incarico di conestabile di ponti a Verona al seguito del parente, l’eletto capitano di Verona Marco Orio.
La formazione del M. avvenne a Verona. L’inedita autobiografia Vita d’Antonio Milledonne secretario del Consiglio di X (conservata nella Biblioteca civica di Padova, poi rielaborata nella biografia di Pietro Arduino, egli stesso segretario del Consiglio dei dieci, ed edita nel 1618) evidenzia un’indole vivace, con un’inclinazione per la vita religiosa. L’itinerario educativo fu completato al suo ritorno a Venezia, nel 1535, con una solida preparazione umanistica di storici e oratori greci e latini. Queste premesse formative, coniugate alla parentela con l’influente senatore Giacomo Orio, favorirono nel 1540 l’ingresso del M. nella Cancelleria ducale, come notaio «estraordinario».
Nel 1543 ebbe la sua prima destinazione burocratica nell’armata navale, come coadiutore del segretario, presso il capitano general da Mar Stefano Tiepolo, e l’elezione a notaio ordinario della Cancelleria ducale. Risale a quegli anni l’inizio della concessione di grazie con le quali il Consiglio dei dieci premiava per meriti di servizio il personale della Cancelleria ducale attraverso il possesso patrimoniale di uffici burocratici minori, come la nodaria e scrivania della Camera fiscale di Brescia, pervenuta al M. nel 1547. Nel medesimo anno il Consiglio lo incaricò dell’importante segreteria degli Esecutori alla bestemmia, magistratura incaricata della tutela della moralità e del decoro. Nel 1551-53 l’ingresso nel mondo delle ambascerie come segretario di Nicolò Da Ponte, ambasciatore straordinario a Roma presso papa Giulio III, gli permise di conoscere direttamente le trattative diplomatiche con la corte di Roma, il caso di eresia del vescovo di Bergamo V. Soranzo e la questione del patriarcato d’Aquileia. Nel frattempo proseguiva la sua carriera con l’elezione a segretario del Senato nel 1551.
Dopo l’intermezzo all’audienza dei consiglieri nel 1555, il M. intraprese la sua seconda missione diplomatica a Roma con l’ambasciatore Bernardo Navagero dal 1555 al 1558.
I diplomatici veneziani furono impegnati nei negoziati di pace fra il papa e il re di Spagna Filippo II, nel rinnovo della concessione delle decime del clero a Venezia contro la minaccia turca, e nella ricerca dell’esenzione dei sudditi veneziani che avevano beni in Romagna. Gli argomenti discussi nel S. Uffizio dettero al M. l’occasione di osservare il vertice del meccanismo inquisitoriale romano attraverso il comportamento dei suoi cardinali, la pratica processuale, la priorità del problemi affrontati. Pochi anni dopo il patrizio veneziano Giovan Maria Memmo pubblicò a Venezia il Dialogo nel quale dopo alcune filosofiche dispute, si forma un perfetto principe et una perfetta Repubblica, e parimente un senatore, un cittadino, un soldato et un mercatante (Venezia 1563), il cui libro I era ambientato nel 1556, a Roma, proprio nel palazzo dell’ambasciatore Navagero. Vi era ricordato (p. 56) il segretario M. che, accompagnando l’ambasciatore, ascoltava i ragionamenti degli interlocutori del dialogo attorno alla formazione del principe.
Nel 1560 partecipò in Francia, con i patrizi Nicolò Da Ponte e Bernardo Navagero, alla missione per congratularsi della successione al trono di Francesco II. Il coronamento della carriera nella diplomazia, nei limiti previsti per i cittadini originari, fu comunque l’inclusione nel seguito degli ambasciatori veneti Nicolò Da Ponte e Matteo Dandolo al concilio di Trento come segretario d’ambasciata durante la terza e ultima fase dei lavori, tra il 1562 e il 1563.
La nomina del cardinale veneziano B. Navagero a legato papale permise a Da Ponte e a Dandolo di essere costantemente informati, in maniera diretta e discreta, delle novità di contenuti e di procedura adottate dalla presidenza dei legati. In particolare l’ambasciatore Da Ponte, sostenne lo ius divino dell’obbligo di residenza dei vescovi, suscitando comprensibile risentimento a Roma. A seguito di questa esperienza diplomatica il M. redasse una Historia del concilio di Trento, divisa in due libri, succinta nell’impianto ma pregevole per essere una delle prime riflessioni storiografiche sul Tridentino e per l’ampia circolazione manoscritta che ebbe. La Historia confermava, nella veste semiufficiale in cui era redatta, che a Trento ambasciatori e segretario avevano pienamente corrisposto alle commissioni del Senato. L’opera è stata pubblicata in francese da A. Baschet, Journal du concile de Trente rédigé par un secrétaire vénitien présent aux sessions de 1562 à 1563 (Paris 1870).
Tornato a Venezia, la carriera del M. dipese dall’affermazione del Consiglio dei dieci, che per consolidare il suo crescente potere si avvalse anche dello stretto legame con la burocrazia centrale. Il rafforzamento della posizione del M. culminò nel settembre 1567 con la promozione a segretario del Consiglio. Nella magistratura penale fu inizialmente deputato alla formazione dei processi criminali, poi all’audienza dei capi e anche alle «materie di Stato». Nel luglio 1568 fu inviato a colloquio con il cardinale Giovanni Francesco Commendone per cercare di mitigare l’osservanza della bolla In Coena domini nei territori della Repubblica. All’aprirsi della guerra veneto-turca (1570), l’aumentata mole degli impegni del M. ritardò la spedizione dei casi criminali, tanto da obbligare i capi a sollevarlo da questo incarico. La scrupolosa dedizione al servizio burocratico fu probabilmente all’origine della gravissima infermità che, nel giugno 1575, lo portò alla paralisi della mano destra.
Risale a quegli anni l’ex-voto Le tentazioni di s. Antonio nella chiesa di S. Trovaso, dipinto da Tintoretto per l’altare di S. Antonio, presso la tomba del M., il quale è raffigurato nell’effigie del santo. Ulteriore testimonianza del ruolo assunto dal M. nella società veneziana è l’opera di Paolo Paruta Della perfettione della vita politica (1579), trattato in forma di dialogo su valori, tematiche e problemi della vita politica e religiosa della città lagunare negli anni Settanta del Cinquecento. I personaggi fittizi che partecipano al dibattito, ambientato a Trento al termine del concilio, sono principalmente illustri membri del patriziato veneziano, tra i quali il segretario M. è ammesso a interferire nell’esposizione con dubbi, aggiunte e domande rivolti soprattutto all’ambasciatore Da Ponte, eletto doge nel 1578.
L’elezione di Da Ponte alimentò le ambizioni del M. per l’ascesa alla carica di capo della burocrazia veneziana. L’occasione si presentò nel 1581, con l’elezione alla carica di cancellier grande.
Le voci favorevoli che circolavano in città, da interpretare come previsioni della vigilia elettorale, trasmesse dal nunzio apostolico A. Bolognetti presentavano il M. come «persona di molta bontà e sufficienza» (cit. in Stella, 1964, p. 33). Era stato lo stesso M. che, per ordine del Consiglio dei dieci aveva fatto depennare dall’avogaria di Comun gli atti da essa emanati contro l’arcivescovo di Spalato Alvise Michiel, organizzando l’esibizione dei registri corretti al nunzio. Nel 1581, quindi, il M. rappresentava «l’eminenza grigia» (Cozzi, Considerazioni …, 1980, p. 127) delle tendenze oligarchiche del patriziato esperto nella gestione dello Stato, legato alla politica pontificia e arroccato nel controllo del Consiglio dei dieci. Tuttavia, nel corso della correzione del 1582-83, a questa magistratura furono sottratte le competenze in materia di politica estera e finanziaria e avvisaglia di questo processo di ridimensionamento dei poteri fu proprio la mancata designazione del M. alla carica di cancellier grande. L’esclusione fu opera di quella parte del patriziato estranea all’agone politico che espresse il diffuso malcontento verso il Consiglio dei dieci, bocciando clamorosamente il suo candidato e accusandolo di superbia. Il M., che si era sentito duramente offeso, non rispettò il cerimoniale che prevedeva di andare a ringraziare i patrizi nel Maggior Consiglio con gli altri concorrenti esclusi dalla votazione. Ma pochi giorni dopo, pur di seguitare ad avvalersi del suo servizio, il Consiglio dei dieci lo perdonò e gli palesò, insieme con la zonta, la propria benevolenza concedendogli di trasmettere ai nipoti Cenighi la proprietà degli uffici burocratici a lui pervenuti e le sovvenzioni in denaro concesse.
A seguito della bruciante sconfitta scrisse due dialoghi rimasti manoscritti. Il primo è il Ragionamento di duo gientil’huomini l’uno romano, l’altro veneziano sopra il governo della Repubblica veneziana fatto alli 15 giennaro 1580 al modo di Venetia. Si tratta di un tentativo di inserirsi nella tradizione della trattatistica del repubblicanesimo veneziano (D. Giannotti, G. Contarini, ma anche F. Sansovino), presentando il concreto funzionamento dei meccanismi costituzionali di Venezia, ma soprattutto di ricucire la crisi costituzionale di quei giorni. Il M. restituiva, nella visione di una città contenta dei suoi ordinamenti e delle sue condizioni di vita, la tranquillità politica al corpo patrizio. Il secondo Dialogo de’ Antonio Milledonne con uno amico suo che la repulsa dalli honori non sia cosa mala nasconde, dietro l’amarezza bruciante della sconfitta elettorale del 1581, un ragionamento sulla riscoperta dei meriti della morte di Cristo, cioè il tema della giustificazione per fede. L’interlocutore veneziano del dialogo, un membro della Cancelleria ducale, riportava la notizia che il M., malgrado la bocciatura in Maggior Consiglio, vivesse contento considerando la dignità di cancellier grande come una carica vana e transitoria e preferendo rimettersi alla volontà di Dio, che lo aveva escluso dalla competizione.
Il M. morì a Venezia il 5 nov. 1588.
Nelle disposizioni testamentarie dell’agosto 1588 scrisse di sperare di meritare il paradiso per l’infinita misericordia di Dio e chiedeva di essere seppellito senza pompa dai confratelli della Scuola di S. Maria della Carità, alla quale apparteneva. Disponeva, inoltre, di far dissezione del proprio corpo per comprendere le cause della sua malattia alle vie respiratorie, la cui conoscenza sarebbe stata utile ai medici che lo avevano in cura, e di sottoporre ad anatomia la mano destra rimasta paralizzata.
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M. Galtarossa