MARTINENGO, Antonio
MARTINENGO (Martinengo da Barco), Antonio. – Figlio di Giovanni di Prevosto, esponente di una delle più importanti famiglie bresciane, nacque tra il XIV e il XV secolo.
La fortuna dei Martinengo si era rafforzata alla fine del Trecento attraverso l’accorta politica patrimoniale del nonno paterno del M., Prevosto (m. 1400). Nel 1421 le sostanze familiari di questo vennero suddivise fra gli eredi: proprio questa ripartizione avrebbe dato vita ai numerosi rami della famiglia, designati col nome del possedimento principale spettato a ciascun erede (a eccezione del ramo Cesaresco). In occasione di tale assegnazione il padre del M. non è nominato; probabilmente Giovanni, che era stato a capo della fazione guelfa della città di Brescia e podestà a Bergamo durante la signoria di Pandolfo Malatesta, era già morto; il M. e il fratello Leonardo ereditarono il castello di Urago d’Oglio e i fondi di Chiari, Rudiano, Pontoglio, Padernello, Castelletto di Quinzano, Farfengo e Roccafranca che, almeno all’inizio, amministrarono congiuntamente.
Al pari di altri membri della famiglia, il M., insieme con il fratello, si dedicò presto alla carriera militare. Si sposò una prima volta con Nostra de Bonis, figlia di Giovanni de Nogarolis (Nogarola), da cui ebbe il primogenito Gaspare; alla morte della moglie sposò in seconde nozze Elisabetta Tadini, dalla cui unione nacquero Bernardino, Maria Daria, Clara e Nostra.
Il territorio bresciano, dopo l’effimera signoria malatestiana, era tornato sotto il controllo del duca di Milano, Filippo Maria Visconti, la cui politica espansionistica lo poneva in forte contrasto con Venezia. Alla stregua di altri gruppi parentali, il M. e Leonardo ottennero, tra il 1425 e il 1427, dapprima l’esclusione dall’estimo ducale di Urago e Padernello, poi si schierarono con Venezia. Nel 1427 combattevano infatti come capitani nell’esercito veneziano di Francesco Bussone detto il Carmagnola, con il compito di presidiare il loro possedimento principale, ossia il castello di Urago al confine bergamasco, che i Viscontei sottoposero prontamente ad assedio. Contro la preponderanza militare nemica, tuttavia, a poco valse la strenua difesa del M. e di Leonardo, né la richiesta di aiuto all’esercito veneziano, impegnato nell’assedio di Montichiari; il borgo di Urago capitolò nel pomeriggio del 12 ottobre, lo stesso giorno in cui il grosso dell’esercito milanese proseguiva verso Maclodio, dove si scontrò con il Carmagnola riportando una dura sconfitta nella celeberrima battaglia, alla quale parteciparono anche il M. e Leonardo. Ciò significa che i due non furono presenti alle trattative per la resa di Urago, ma che si erano allontanati quando la difesa del castello era risultata insostenibile. La vittoria di Maclodio consentì loro di rientrare in possesso di Urago; subito dopo il Carmagnola proseguì nella conquista del Bresciano ponendo l’assedio a Orzinuovi, che si arrese il 16 ottobre. Le condizioni di pace furono sottoscritte dai rappresentanti di Orzinuovi il 2 novembre, alla presenza di alcuni capitani del Carmagnola, tra i quali era il M., che dunque aveva seguito le milizie veneziane. Dopo la pace di Ferrara (19 apr. 1428), che era costata a Filippo Maria la perdita di Brescia e del suo territorio, il duca di Milano tentò, nel gennaio 1431, di prendere nuovamente Orzinuovi; il M. occupava allora Pontoglio ma subì, insieme con le truppe capitanate dal Carmagnola, una disastrosa sconfitta a Soncino (16 marzo) per opera dell’esercito milanese comandato da Francesco Sforza, Niccolò Piccinino e Niccolò da Tolentino e nel corso della battaglia fu fatto prigioniero. Non è noto il luogo della detenzione, che dovette protrarsi per tutta questa fase della guerra, al termine della quale il M. ottenne la libertà in cambio di un forte riscatto.
La pace tra la Lega veneto-fiorentina e Milano, siglata a Ferrara nel 1435, durò fino al 1437, quando le operazioni militari ripresero. Al termine dell’anno, però, il comandante dell’esercito veneziano Gianfrancesco Gonzaga, che aveva sostituito il Carmagnola, passò dalla parte di Filippo Maria Visconti; Brescia si trovò così priva di valide difese e nel corso del 1438 fu stretta d’assedio, sia dal Gonzaga sia dal Piccinino. Si può ritenere che il M. si trovasse in quegli anni in città, o comunque operasse in zone prossime a essa, mentre Brescia si risolse a chiedere soccorso a Venezia attraverso diverse ambascerie.
In tale frangente il Piccinino e il Gonzaga assunsero il controllo delle valli bresciane; il 30 luglio il condottiero Bartolomeo Colleoni cercò di liberare la Valcamonica e alle sue truppe si unì anche il Martinengo. Le forze bresciane colsero alcuni successi, ma subirono poi il contrattacco di Pietro Visconti che le costrinse a ripiegare, conservando come unica posizione fortificata il castello di Breno, sottoposto ad assedio. A dicembre il cerchio dei nemici si strinse attorno a Brescia, dove era scoppiata un’epidemia di peste, mentre il M. era impegnato nella difesa di Bornato e Leonardo in quella di Rovato. In loro soccorso giunse Erasmo da Narni detto il Gattamelata, il cui intervento obbligò le truppe milanesi a ripiegare; tuttavia, di lì a poco il capitano veneziano subì un duro contrattacco nella pianura che collega Bornato a Calino e dovette retrocedere permettendo ai nemici di riprendere Rovato il 30 agosto. Dopo un nuovo disperato appello a Venezia, il 30 settembre Brescia vide partire anche il Gattamelata, chiamato in difesa di Verona insieme con il M. e Leonardo. È in tale contesto che quest’ultimo fu fatto prigioniero e trasferito a Mantova, dove morì di peste nel 1439; il M. assunse allora la tutela dei nipoti, Gianfrancesco e Leonardo (II). La spedizione verso Verona delle truppe del Gattamelata ebbe esito positivo: il territorio fu liberato e l’esercito veneziano devastò il Ducato di Mantova.
Per quanto non si posseggano esplicite notizie, si deve ritenere che il M. abbia partecipato a queste operazioni militari, senza però essere direttamente coinvolto nel durissimo assedio subito da Brescia nel dicembre 1438, dal momento che non è ricordato dalle fonti, pur così prodighe di notizie sui protagonisti della resistenza cittadina ai ripetuti assalti del Piccinino. Non meno probabile è la sua militanza nei numerosi scontri che si susseguirono nei due anni successivi, fino alla decisiva vittoria delle truppe veneziane guidate da Francesco Sforza sull’esercito visconteo il 10 apr. 1440 a Torbole, cui seguì il recupero dell’intero territorio.
Nel febbraio del 1441 il Piccinino invase nuovamente e devastò il Bresciano, scontrandosi con lo Sforza dapprima a Cignano, quindi a Martinengo. Nel corso di questa rinnovata fase bellica il M. si adoperò, tra giugno e agosto, affinché molti dei territori orientali dell’area bresciana, di sua pertinenza o sotto la giurisdizione di altri esponenti del patriziato locale, passassero sotto il controllo militare di Venezia. La Serenissima lo ricompensò per questi servigi concedendo a lui e ai due nipoti il feudo di Pavone; la donazione, effettuata da Francesco Sforza il 4 ag. 1441, fu confermata dal governo veneziano il 7 marzo 1443, con l’aggiunta del feudo di Gabbiano (Borgo San Giacomo) e di una pensione annua di 2791 lire.
Negli anni seguenti la pace di Cavriana, i cui accordi furono pubblicati il 10 dic. 1441, il M. continuò a servire la Repubblica di s. Marco e fu coinvolto nella ripresa delle operazioni belliche, quando, nel 1446, il riaccostarsi di papa Eugenio IV al re di Napoli Alfonso V d’Aragona, alleato del Visconti, fece ritenere possibile a quest’ultimo di poter togliere allo Sforza Piacenza e Pontremoli. Il M. seguì le truppe veneziane guidate da Micheletto Attendolo che, dopo gli iniziali successi milanesi, passarono all’offensiva in autunno varcando l’Adda e occupando Cassano. Qui il M. fu ordinato cavaliere sul campo insieme con Pietro Avogadro.
Il 13 ag. 1447 morì Filippo Maria: a Milano le forze ostili ai Visconti presero il potere proclamando la Repubblica Ambrosiana con l’aiuto militare di Francesco Sforza che abbandonò Venezia al fine di preparare le condizioni per rivendicare il titolo ducale.
Sconfitti i Veneziani a Piacenza, lo Sforza penetrò nel Bresciano; di fronte alla minaccia di un nuovo assedio alla città, il M. vi rientrò immediatamente e, con Pietro Avogadro e Marsilio Gambara, provvide ad armare i cittadini a proprie spese: una misura preveggente, poiché a Caravaggio lo Sforza inflisse una sconfitta disastrosa all’Attendolo (14 sett. 1448), in seguito alla quale ottenne senza fatica la resa di numerose località, giungendo davanti alla porta urbana di S. Nazzaro. Il nuovo assedio non ebbe i drammatici connotati del precedente: lo Sforza si limitò ad attuare il blocco della città fuori dalle mura, in quanto la sua attenzione andava spostandosi su Milano. A tale fine il 18 ottobre stipulò la pace con Venezia e l’8 novembre l’intero distretto bresciano tornò sotto la Serenissima, che ricompensò quanti si erano adoperati in suo favore. Ancora una volta il M. fu tra questi: il governo veneziano gli concesse l’onore più alto inserendolo, insieme con i suoi discendenti, nel patriziato della Repubblica.
Nel documento, riportato dal Sanuto, si giustifica tale decisione ricordando le numerose volte in cui il M. aveva messo in pericolo la sua vita per Venezia e si era visto distruggere il «locum suum» (ossia Urago) e perché aveva militato con grande valore sotto l’Attendolo, tanto da meritarsi il cavalierato. Sanuto aggiunge che la richiesta fu approvata dalla Quarantia il 1° giugno e dal Maggior Consiglio il 9 di quello stesso mese.
Nel frattempo Francesco Sforza otteneva il titolo ducale, ma negli ultimi mesi del 1450 Venezia, rovesciate le alleanze, dette inizio alle manovre che sfociarono, a metà del 1452, in un nuovo conflitto. Il M. vi prese parte guidando una compagnia di balestrieri bresciani contro Manerbio, dalla quale gli Sforzeschi avevano cacciato i Veneziani. Sottoposta ad assedio, la cittadina ricevette rinforzi da Milano, ma alla fine dovette arrendersi, venendo a patti con gli assedianti il 18 marzo 1453. In ottobre Francesco Sforza guidò un’offensiva che sembrò garantirgli la vittoria finale: Brescia si vide ancora minacciata, tuttavia il ritiro delle truppe di Carlo VII, il sovrano francese alleato del duca di Milano, e la penuria di risorse finanziarie spinsero lo Sforza ad aprire trattative di pace. Nel marzo 1455 si costituiva la Lega italica, che diede vita a numerosi trattati particolari; in tale contesto si colloca l’accordo stipulato il 26 marzo tra Venezia e il marchese di Ferrara Borso d’Este, a cui presenziarono il M., Pietro Avogadro e Bartolomeo Caprioli.
Negli anni successivi, probabilmente anche in considerazione di un’età già abbastanza avanzata, i servigi richiesti al M. dai governi di Brescia e di Venezia assunsero un carattere prevalentemente diplomatico: un caso significativo fu l’opposizione tra Salò e i conti di Lodrone circa i diritti rivendicati da questi ultimi su una parte del lago d’Idro. Per comporre il dissenso nel 1462 il M. e Pietro Avogadro furono inviati in una missione che ebbe pieno successo. Nel 1465 il M. si recò a Venezia, insieme con Pietro, Ambrogio Avogadro e Bartolomeo Caprioli, incaricato dal governo bresciano di difendere i diritti di pesca vantati sul lago d’Idro e contestati da Verona.
Nel 1459 i nipoti Gianfrancesco e Leonardo erano stati dichiarati maggiorenni: a seguito di ciò il M. procedette alla divisione di quei beni che aveva amministrato per conto loro, dopo la morte del fratello. In particolare, il M. mantenne la proprietà della casa di famiglia in via Palazzo Vecchio a Brescia (detta della Fabbrica), nella quale aveva abitato il nonno Prevosto, mentre i nipoti si trasferirono in una residenza di via delle Cossere, prossima a quella dello zio.
Nel 1466 a Francesco Sforza succedeva Galeazzo Maria: ne seguì un nuovo periodo di tensione, a seguito del quale Venezia decise di potenziare le strutture difensive di Brescia con un aggravio della fiscalità. In tale contesto fu molto apprezzato il gesto del M. e di Luigi Avogadro, i quali, benché esenti, vollero contribuire versando il tributo imposto.
Ma il M. non si occupò soltanto di armi e di politica. Numerose furono infatti le iniziative da lui intraprese a favore di enti e ordini religiosi. In particolare, sostenne con larghezza di mezzi i frati gesuati nella edificazione del convento e della chiesa del Ss. Corpo di Cristo a Brescia, detta S. Cristo, scelta dal M. come luogo della sua sepoltura. Nel 1457 inviò al papa Callisto III una lunga petizione, nella quale rappresentava tutte le iniziative per assicurare la cura spirituale nel territorio di Urago, un tempo sottoposto al cenobio benedettino di S. Lorenzo di Cremona. Un’altra iniziativa rilevante, patrocinata dal M., fu l’ampliamento della cappella maggiore della chiesa di S. Francesco a Brescia e la sua affrescatura a opera di Bonifacio Bembo; al completamento dei lavori il M. ottenne dal capitolo dei minori il 9 febbr. 1464 la concessione della cappella, quale luogo di sepoltura per lui e i suoi eredi.
Il M. morì a Brescia il 14 sett. 1473 e fu sepolto nella chiesa dei gesuati di S. Cristo.
Poco prima di morire fece testamento davanti al notaio Comino Martinengo, presente il padre generale dei carmelitani Cristoforo Martignoni; suddivideva così l’ingente patrimonio tra i figli Gaspare e Bernardino, mentre alla moglie Elisabetta lasciava la facoltà di vivere nel palazzo cittadino, una pensione e le rendite di Oriano. Al primogenito, iniziatore del ramo dei Martinengo della Pallata, destinava i beni di Urago, Roccafranca, Orzinuovi, Pavone e Pievedizio, i pedaggi della media Valcamonica con altri possedimenti e diritti, alcuni dei quali tenuti a metà con Bernardino; a quest’ultimo, oltre all’altra metà degli stessi beni (Collebeato, Erbusco, Montichiari, ecc.), lasciava Gabbiano, Farfengo, la casa di via Palazzo Vecchio a Brescia e soprattutto Padernello, che avrebbe dato il titolo al ramo familiare. Alle figlie legava 1000 ducati d’oro ciascuna come dote e, qualora avessero abbracciato la vita conventuale, ne destinava 200 in più. Lasciti importanti per il suo suffragio erano inoltre destinati a numerose istituzioni ecclesiastiche e caritatevoli.
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