FRANZINI, Antonio Maria
Nacque a Casal Cermelli, nell'Alessandrino, il 2 luglio 1788, da Giovanni e da Luisa Cermelli.
Il padre, lombardo, originario di Mirabello Pavese (ma la famiglia vantava non lontane origini corse), si era da tempo trasferito nell'Alessandrino, dove aveva ricevuto l'incarico di amministrare le proprietà immobiliari site in Casal Cermelli della famiglia dei conti Trotti Bentivoglio. A un Trotti, Luigi, era infatti stata infeudata Casal Cermelli nel 1623.
Il F., dopo avere studiato nei collegi di Monza e Torino, fu sottoposto alla leva napoleonica dal 1° maggio 1809. Nel luglio dell'anno successivo entrò come volontario nella guardia d'onore, chiamatovi - secondo una tradizione dal F. stesso poi accreditata - dal "principe Borghese, consorte di Paolina Bonaparte, padrino ed omonimo del Conte di Cavour". La vicinanza a personaggi allora, o in seguito, così importanti non lo salvarono dal partecipare a tre delle campagne napoleoniche degli anni successivi, nelle quali comunque ebbe modo di far notare le sue invidiabili qualità militari.
Nel 1814 passò all'esercito sardo dove gli fu riconosciuto solo il grado di luogotenente di artiglieria leggera di seconda classe. Passò capitano nel 1826. Precedentemente, nel marzo 1821 Carlo Alberto lo aveva incaricato di informarsi circa le intenzioni di G. Moffa di Lisio e G.O. Provana di Collegno e - se possibile - di dissuaderli dai loro propositi. In seguito, il F. disse di essere stato incaricato dal principe anche di "sorvegliare il Corpo di Artiglieria" dove era allignato il "morbo dei rivoltosi". Con il suo contegno in quelle giornate, e poi il 5 maggio 1821 (quando, interrogato dagli inquirenti di Carlo Felice sui moti, tese a sottolineare le responsabilità dei rivoltosi e a tacere su quelle del principe di Carignano), rese a quella corte un servigio da non poco. Questo comportamento non fu dimenticato da Carlo Alberto. Con il 1831 il F. si avvantaggiò sia delle sue effettive capacità di tecnico e di organizzatore militare, sia delle passate benemerenze: da maggiore che era, fu fatto tenente colonnello (1831), passò nel corpo di stato maggiore generale, poi divenne colonnello (1833). Era stato intanto decorato nell'ottobre 1831 dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro "per distinti servigi prestati a Sua Maestà". Stimato assai da A. Saluzzo di Monesiglio, fra l'altro comandante del corpo di stato maggiore, il F. si mise in luce nei campi di istruzione e in occasione di uno di questi, nel 1838, fu nobilitato col titolo di conte. Nel 1839, a cinquantuno anni, divenne maggior generale; nel 1844 ottenne una "pensione" di 800 lire dal tesoro dell'Ordine mauriziano. La fedeltà a Carlo Alberto e il suo operato nel 1821 lo avevano quindi più che ripagato.
Alla vigilia del 1848 passava per uno dei più quotati e capaci tecnici dell'esercito piemontese. La scelta di Carlo Alberto di volerlo come ministro della Guerra, e poi come ministro della Guerra "al campo" nella campagna contro l'Austria (nel gabinetto Balbo, dal 16 marzo al 27 luglio 1848; poi, dopo il breve gabinetto Casati, in quello Alfieri, ma per poco, dal 15 al 22 ag. 1848) dette al F. un rilievo e un'importanza forse sproporzionati all'uomo e alle sue capacità, ma bene indicativi delle tendenze politiche del momento e della volontà regia di mantenere, attraverso uomini fedeli, il completo controllo delle operazioni.
È noto quanto complessa, e scarsamente funzionale, fu l'organizzazione della catena dell'alto comando nel 1848 (come anche, poi, nel 1849). Ministro "al campo", consigli di guerra, comandanti militari, governo, Camera dei deputati: tutto confliggeva, ma anche tutto si arrestava di fronte alle decisioni finali del re. Il F. era un anello importante (dal 10 apr. 1840 era tenente generale) ma non decisivo di questa catena. Di carattere metodico e burocratico, poco apprezzava l'irregolarità di quell'alto comando. Personalmente "irascibile per natura" (Pinelli, III, p. 207), si sentiva fedele al suo re, ma non tollerava piaggerie ed eccessive subordinazioni, risentendo più di altri di "quel sentimento comune di irritazione, di risentimento e di sospetto che il Re diffonde[va] in coloro che ne segu[ivano] e ne esegu[ivano] la politica" (Pieri, 1948, p. 503). Omodeo (1939, p. 46) ha riportato uno sbotto del F. contro la onnipresenza di Carlo Alberto: "Egli non vuole che si tiri un colpo di fucile ove non assista di presenza… Ma questo non è da Generale in Capo".
Il F. condivideva l'impostazione strategica della campagna voluta da Carlo Alberto: non voleva certo una guerra rivoluzionaria né volle mai concedere molto ai volontari, piemontesi e italiani, e a tutto quello che essi rappresentavano. "Non sarò mai per consigliare al Re - ebbe a scrivere - di disordinare il proprio esercito per ordinarne un altro", di lombardi e volontari. Profondo senso fece un suo intervento alla Camera, quando pubblicamente aveva insinuato che la corte sabauda - sfiduciata verso i suoi generali - volesse assoldare un comandante straniero, forse francese (che nell'opinione del F. non avrebbe potuto essere altri che Th.-R. Bugeaud de la Piconnerie). Questo non contribuì certo a metterlo in buona luce nei confronti della pubblica opinione e della Camera, che però attribuirono per tutta la durata della campagna al re e agli altri comandanti militari più che al solo F. l'organizzazione delle operazioni.
Piuttosto che a rinvigorire lo spirito offensivo delle truppe, il F. pensò sin dall'inizio - per esempio - che vi era un eccessivo spreco di munizioni. Insieme con Carlo Alberto si schierò contro chi proponeva che la campagna fosse un'occasione di "avanzamenti eccezionali" di carriera. In più occasioni è documentata la sua personale avversione ai volontari: fossero essi Giovanni Durando e le sue truppe che nel maggio chiedevano rinforzi verso Castelfranco, o G. Pepe che chiedeva solo istruzioni. I malevoli misero in relazione la scarsa propensione sabauda ad ardite operazioni anche con il "podagroso Franzini" e le sue malattie. Se questo è forse eccessivo, è comunque vero che da alcune cruciali situazioni (come a Goito) il F. fu allontanato proprio dalla sua gotta. E Pieri (1962, p. 224), non senza ragione, annotava a proposito di questo combattimento che l'assenza del F. "forse non fu male".
Il F., è stato scritto, "era dell'opinione che la guerra di Lombardia non si sarebbe dovuta fare, e la faceva per isgravio di coscienza, con la preoccupazione di non mettere a grosso repentaglio l'esercito (Omodeo, 1939, p. 48). Un simile giudizio, che si attaglia in qualche modo al F. come a buona parte della più alta ufficialità piemontese di quegli anni, non può essere accettato in tutto, o in tutte le sue conseguenze. È vero che ai primi scontri sfortunati e poi alle avvisaglie del crollo finale il F. fu fortemente sfiduciato e non si astenne dal consigliare al re di tornare indietro. Ma il F. rimase comunque al suo posto e, se non combatté di persona, diresse l'organizzazione che permise i combattimenti. Soprattutto quel giudizio non può essere accettato qualora voglia condurre, deprimendo la classe militare, a esaltare l'operato del re, che, tra le altre gravi responsabilità, ebbe proprio quella di circondarsi di collaboratori come Franzini.
L'evento che più segnò la partecipazione del F. alla campagna del '48, dalla dichiarazione di guerra del 23 marzo all'armistizio Salasco (9 agosto) fu però il suo discusso operato per il combattimento di Santa Lucia del 6 giugno. In questo, e nelle polemiche che esso alimentò in seguito, si trovarono a operare insieme sia l'insofferenza del F. verso il suo incarico così maldefinito, sia le sue tendenze all'autonomia, sia i suoi sordi attriti con gli altri comandanti (in specie con il generale E. Bava), sia infine la sua sfiducia in una guerra che non fosse rigidamente limitata e dinastica.
Bava aveva presentato un piano di operazioni verso Santa Lucia, che il F. - in quanto ministro della Guerra "al campo" - emendò in tema di ordinamento di marcia delle truppe. Ciò, di fatto accettato da Bava, impedì al momento dello scontro che le forze piemontesi fossero sufficienti a evitare al combattimento il carattere sanguinoso, dannoso e inutile che poi venne ad assumere. La pubblica opinione, pur non messa a giorno dei particolari dell'operazione, fu colpita dall'entità delle perdite subite dai Piemontesi.
L'8 sett. 1848 il F. era nominato comandante generale del corpo di stato maggiore: carica importante e delicata, ma assai tecnica. Quando si diffuse la notizia che Bava avrebbe pubblicato una relazione assai critica sulla conduzione della campagna facendo esplicito riferimento al fatto d'armi di Santa Lucia, il F. protestò energicamente con G. Dabormida. Ma il 22 ottobre Bava veniva nominato comandante in capo del regio esercito piemontese. La campagna del 1849 lasciò quindi il F. in disparte.
La sua posizione personale all'interno dell'entourage militare non era nel frattempo molto migliorata. Ai risentimenti di Bava si aggiungevano le critiche dei più giovani riformatori. Alfonso Ferrero della Marmora, in una sua lettera, giudicava negativamente l'inclusione del F. - pur sempre ancora comandante del corpo di stato maggiore - nella commissione per il riordinamento dell'esercito. Questa, istituita il 29 maggio 1849, avrebbe dovuto proporre un progetto complessivo di riforma. Ma prima che questa finisse i suoi lavori, fu il ministro della Guerra Bava a presentare un suo progetto di legge vanificando tutte le precedenti discussioni della commissione (cui peraltro il F. era intervenuto con argomenti non certo innovatori). Non si parlò, però, per il F. di accantonamento brusco. Egli era stato anche nominato presidente del Congresso consultivo permanente della guerra, ma l'organismo, a quanto pare, non si riunì mai. Più tardi, quando esso fu ricostituito (12 ott. 1849), il F. era solo uno dei tanti membri.
Il F. era deputato: ma "parlamentarmente poco o nulla si segnalò" (Sarti, pp. 479). Alle elezioni per la seconda legislatura era stato sconfitto da un giovane capitano nell'esercito, R. Cadorna, nel suo stesso collegio elettorale. Fu così fatto senatore (10 luglio 1849) e dai banchi della Camera alta intervenne, con spirito tecnico, sui temi militari: ma più per opporsi alle proposte dei democratici che per prendere una propria originale posizione pubblica nei dibattiti interni ai circoli dirigenti dell'esercito. Con l'avvento al ministero della Guerra di La Marmora, di fatto, si chiuse qualsiasi spazio per il Franzini. Il 5 febbr. 1850 fu messo a riposo.
Rimaneva pur sempre una vecchia "illustrazione dell'esercito". Intervenne al Senato nell'aprile 1852 (con D. Chiodo, V.A. Sellier de La Tour e - ironia della storia - Bava) per opporsi alle riforme militari di La Marmora. Il ministro della Guerra gli fornì una innocua ma prestigiosa collocazione come presidente del ricostituito Congresso consultivo permanente che, secondo gli Annuari militari, visse dal 1854 al 1859. Di quest'organismo, però, non si trova alcun riscontro documentario: al punto da far pensare che le sue attività consultive furono poca cosa, a fronte della vasta attività riformatrice del ministro La Marmora.
Quando morì a Torino, il 13 genn. 1860, nessun importante giornale piemontese o nazionale lo ricordò con necrologi, seppur brevi.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Torino, Fondo Paesi di nuovo acquisto, Contado dell'Alessandrino, m. 6, Casalcermelli; Ibid., Fondo ministero della Guerra, Stati di condotta dei signori ufficiali superiori, m. 70; Torino, Bibl. reale, Miscellanea Patria, vol. XVI, pp. 75 ss.; Torino, Museo del Risorgimento, Archivio Dabormida, bb. 45-49, 92; F.A. Pinelli, Storia militare del Piemonte…, Torino 1854-56, III, pp. 157, 168; Carlo Alberto re di Sardegna. Memorie inedite del 1848, a cura di A. Lumbroso, Milano 1935, p. 157; A. Omodeo, in La Critica, XXXVII (1939), 1, pp. 46 ss. (rec. a I rapporti fra governo sardo e governo provvisorio di Lombardia, a cura di M. Avetta); C. Pischedda, L'azione di Carlo Alberto nella campagna del 1848-1849, in Nuova Rivista storica, XXXI (1947), 1-2, p. 129; A. Moscati, I ministri del '48, Napoli 1948, pp. 46 ss.; P. Pieri, La guerra regia nella pianura padana, in Il 1848 nella storia italiana ed europea, a cura di E. Rota, Milano 1948, pp. 187 s., 203; Id., Il vecchio esercito piemontese, in Il Ponte, V (1949), 8-9, p. 940; Id., L'esercito piemontese e la campagna del 1849, Torino 1949, pp. 14, 16, 22; Id., Storia militare del Risorgimento…, Torino 1962, pp. 207, 224, 227 s., 264, 267, 381, 453; Storia del Parlamento italiano, II, Dal ministero Gioberti all'ingresso di Cavour nel governo, a cura di G. Sardo, Palermo 1964, p. 181; III, Dall'ingresso di Cavour nel governo alla crisi Calabiana, a cura di G. Sardo, ibid. 1965, p. 220; G. Rochat - G. Massobrio, Breve storia dell'esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino 1978, p. 18; P. Del Negro, Esercito, Stato, società. Saggi di storia militare, Bologna 1979, p. 58; R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1854-1861), Roma-Bari 1984, p. 161; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, Terni 1890, pp. 479 s.; Encicl. militare, III, p. 833.