LANDRIANI (da Landriano), Antonio
Nacque presumibilmente a Milano prima del 1440 da Accursio (Accorsino) e da Antonia di Achille Stampa (senior).
Il padre, interrotta la carriera ecclesiastica, era stato membro dei Dodici di provvisione del Comune di Milano e priore durante la breve esperienza repubblicana iniziata nel 1447; dopo il 1450 ricoprì a lungo una delle due cariche di sindaco del Comune e fu soprastante alla Zecca; più che benestante, apparteneva ai circoli mercantili e bancari della città, mentre altri rami del casato avevano feudi, signorie, condotte militari e stili di vita tipicamente aristocratici.
Anche il giovane L. operò come banchiere, cambiatore e prestatore; impegnato quotidianamente nel suo banco in broletto, nel 1465 fece un cospicuo mutuo al duca di Milano e servì spesso i Gonzaga con anticipi e operazioni di cambio sulle rate delle condotte milanesi. Era legato anche da parentela con famiglie mercantili e bancarie come i Toscani e i Maggiolini, di origine pisana, che trattavano tessuti preziosi e generi di lusso. Nel 1473 stilò con Accerito Portinari un lodo per terminare amichevolmente una lite tra i Cusani e certi mercanti inglesi.
Coloro che servivano le corti con prestiti e merci di pregio spesso venivano coinvolti nella gestione delle tesorerie ducali e negli appalti di dazi e gabelle: il L. si occupò nel 1467 della riscossione delle "annate" dai feudatari; l'anno successivo fece parte degli esecutori dell'eredità della duchessa Bianca Maria Visconti e nello stesso anno organizzò una lotteria a premi ("ventura") i cui proventi sarebbero stati destinati al rifacimento del broletto.
Nel 1474 morì improvvisamente Antonio Anguissola, nelle cui mani il duca Galeazzo Maria Sforza aveva concentrato le funzioni della Tesoreria generale: il L., già esperto e reputato nonostante la giovane età, fu scelto per sostituirlo. Creando un tesoriere unico, questo duca ambizioso e accentratore voleva esercitare un più stretto controllo sui molteplici canali di entrate e uniformare la gestione separata delle Tesorerie preesistenti. Il L. accettò l'incarico chiedendo di potersi valere della collaborazione del fratello Agostino.
I suoi compiti spaziavano dall'appalto dei dazi alle decisioni su entrate e spese, dalla raccolta di prestiti e sovvenzioni alla vendita di entrate fiscali. La nuova posizione lo portò ad abbandonare gradatamente l'attività bancaria, pur mantenendo attivi rapporti con gli ambienti mercantili. Dal 1480-81 presiedeva il Collegio dei deputati al denaro, un comitato "speciale" che però funzionò per molti decenni per fronteggiare emergenze finanziarie. Frattanto i suoi fratelli si distinguevano in diversi campi: Giacomo aveva intrapreso una promettente carriera ecclesiastica nell'Ordine degli umiliati, aspirando anche al cardinalato con il sostegno della famiglia e dei duchi; Giovanni e Francesco ricoprirono a loro volta la carica di sindaco del Comune, Pietro entrò a corte, Agostino e Battista collaboravano con il L. nella Tesoreria. Il L. sposò Maddalena Stampa, figlia del miles Achille (iunior), dalla quale ebbe due figli maschi, Agostino e Ludovico. Questi entrò nell'Ordine degli umiliati e fu preposito di Viboldone (ente con il quale la famiglia Landriani aveva rapporti fondiari) e poi vicario dell'Ordine. Delle due figlie, Margherita sposò Francesco di Giovan Stefano Brivio, appartenente agli ambienti della finanza ducale, e Bianca il conte Battista della Somaglia. La moglie del L. si ammalò gravemente nel 1495; non è certa la notizia di un secondo matrimonio, l'anno successivo, che gli viene solitamente attribuito, con Caterina Rusconi, ma che va più probabilmente riferito a un omonimo "cameriere" del duca. Il L. abitò sempre in Porta Comasina nel quartiere di S. Cipriano.
Come tesoriere generale, membro del comitato speciale detto dei Deputati alle cose pecuniarie e infine come consigliere ducale, il L. servì fedelmente e per molti decenni Ludovico Sforza, detto il Moro, luogotenente del nipote Gian Galeazzo Maria, ma di fatto padrone dello Stato. Si occupò della Zecca e delle monete, dell'amministrazione del sale e soprattutto fu spesso impegnato nel negoziare prestiti da privati e da banche milanesi ed estere, guadagnandosi così la gratitudine dei signori e molti riconoscimenti. Non si contano le testimonianze sulla sua attività negli anni Ottanta e Novanta nei comitati più ristretti dedicati alla gestione del denaro pubblico, nei rapporti con grandi mercanti e banchieri, nella spasmodica ricerca di nuove fonti di finanziamento e di nuove modalità di prelievo. Erano compiti a volte ingrati, specialmente quando doveva negare denari a condottieri e ambasciatori di potenze alleate che lo sollecitavano con fortissime insistenze: i risentimenti allora cadevano invariabilmente sul ministro, anziché sui signori da cui dipendeva.
Quando nel 1494 morì il giovane e inetto duca Gian Galeazzo Maria Sforza, Ludovico il Moro era pronto ad assumere pienamente il dominio dello Stato, ma a Milano era forte tra il popolo e tra i nobili un partito legittimista, a cui era cara la continuità dinastica. Ludovico il Moro evitò di convocare il Consiglio generale e preferì ricorrere, il 22 ottobre, a una riunione dei "principali", durante la quale annunciò di lasciare campo libero alla successione del piccolo Francesco Sforza. Nella circostanza toccò proprio al L. farsi avanti e chiedere pubblicamente al Moro, per il bene dello Stato e "per la conditione dil tempo", di assumere personalmente lo scettro; subito si associarono entusiasticamente altri fedeli e poi tutti i presenti "niuno osando contradire" (Corio). Il cavallo e il drappo d'oro erano già pronti: il Moro li indossò e "corse" la città, entrò nei principali templi, fece suonare le campane in segno di letizia.
L'episodio conferma quanto il Moro dipendesse dalla capacità del L. di mobilitare facoltosi amici e clienti e di sovvenire direttamente le casse camerali; quando nel 1494 il L. fu colpito da una grave infermità, lo Sforza fu molto preoccupato dalla possibile perdita di un collaboratore tanto prezioso e dopo la guarigione dimostrò apertamente il suo sollievo facendo un dono ragguardevole al medico che lo aveva salvato; talvolta accettava i suoi saggi consigli di non sperperare denaro in spese superflue. Tra i tanti doni e concessioni che volle riservare al L. si segnalano la conferma delle esenzioni di famiglia risalenti al 1467, la concessione dei dazi di Olgiate e, il 12 luglio 1497, la conferma di certe acque derivate dall'Olona; inoltre il Moro favorì i progetti di parentati che il L. ricercava per figli e nipoti. Dopo aver maritato figlie e sorelle trovò moglie ai nipoti Giovan Angelo Baldi (con una Ranzoni) e Aloisino Lattuada (con una Cagnola) e per altri parenti ottenne dai duchi cariche e responsabilità elevate. Gerolamo, figlio naturale del L. (ma secondo altri autori nipote ex fratre) divenne generale degli umiliati, compì importanti missioni diplomatiche e fu ammesso nel 1495 al Consiglio segreto; dopo la crisi del 1499 fu considerato l'erede politico del L.; alcune sue lettere riflettono il vigore di una personalità indipendente e volitiva. Un altro nipote, Cristoforo Lattuada, fu vescovo di Glandèves e ambasciatore residente a Venezia nel 1497-99.
Parentele, clientele, abitudini nuove aggiungevano lo splendore magnatizio alla socialità mercantile della prima fase della vita del Landriani. Egli fu oggetto di dediche e di opere letterarie; la posizione che raggiunse e i traguardi conquistati dai suoi parenti accrebbero enormemente il suo prestigio e la sua influenza. Così, nonostante il declino del ramo di tradizioni più marcatamente signorili e militari (a cui apparteneva per esempio un illustre omonimo del L., morto nel 1461), la domus Landriana ritrovò una posizione eminente e nel 1499 i documenti la indicano tra le famiglie milanesi più rappresentative e influenti. Un tocco di eccentricità, o una concessione alle mode del tempo, è testimoniato da una novella di Matteo Bandello (Una simia, essendo portata una donna a sepellire…, in Tutte le opere, a cura di F. Flora, Milano 1934, II, p. 589 [III, LXV]): il tesoriere possedeva uno "scimmione grossissimo, di volto più degli altri simile a l'uomo", che usava tenere legato nel cortile del suo palazzo.
Dal 1494, nonostante il traguardo del titolo ducale, il Moro dovette affrontare una gravissima crisi finanziaria e politica. L'usurpazione aveva lasciato strascichi pericolosi di dissidenza a cui lo Sforza rispose con una stretta repressiva; la sua politica estera, già difficoltosa e a volte avventurosa, si complicò prima a causa dei segnali di ostilità da parte degli Svizzeri, poi con la decisione di chiamare in Italia il re di Francia Carlo VIII; questa scelta che secondo Corio "parturiva la ruina dil nome Sforzesco" suscitò una dura opposizione in una parte cospicua del ceto dirigente milanese e tra il popolo stesso. In settembre il duca aveva urgente bisogno di 50.000 ducati "per servire la maestà del re", ma i suoi ministri gli obiettarono che molti banchieri si erano esposti eccessivamente e che a Roma e a Genova alcune importanti firme bancarie, come la banca Martelli, erano fallite. Ciononostante, il L. e Bergonzio Botta interpellarono i più facoltosi mercanti, tra cui Giovanni Beolco e alcuni altri "soliti fare con la camera", e riuscirono a mettere insieme 12.000 ducati d'oro; ma il sistema dei prestiti era stato utilizzato fino alle estreme conseguenze e il futuro si presentava incerto. Nel pieno di questa profonda crisi il Moro, attorniato dai suoi più stretti consiglieri, cercò di reagire (ma con evidenti difficoltà anche psicologiche) promulgando una raffica di decreti che tendevano a moderare le asprezze repressive degli anni precedenti; elevò ulteriormente il tono del fasto cortigiano, promuovendo iniziative sfavillanti e iniziando un ambizioso programma di rinnovamento urbanistico in alcuni quartieri milanesi e nella reggia prediletta di Vigevano. Nel settembre del 1495 fu ritrovato all'interno del duomo uno scritto minaccioso: "Fin che non se amazza Antonio da Landriano mai non cessaranno li presti in Milano: amazemelo, amazemelo!". Il capitano di giustizia adottò provvedimenti esemplari che costarono la gogna a due ladri, impiccati "con gran satisfactione del popolo", ma ciò non bastò a tranquillizzare i fedeli del Moro, tra gli altri Botta, che da tempo subiva minacce e si muoveva sotto buona scorta (Arch. di Stato di Milano, Sforzesco, 1122, lettera di Alberto Bruscolo, 17 sett. 1495).
Le necessità di denaro erano sempre più pressanti e fu tentata nuovamente la massiccia vendita di entrate fiscali: nell'ottobre 1496 il Moro affidò al L., a Botta, a Marchesino Stanga e a Gualtiero da Bascapè (che formavano allora il comitato dei Deputati alle cose pecuniarie) la gestione di una colossale operazione di vendita di dazi, di entrate e di beni fiscali in tutto il dominio. Furono stipulati più di 4000 contratti, coinvolti 5000 acquirenti e più di cento Comunità. L'operazione ebbe risvolti autoritari e suscitò una generale ostilità: il L. e i suoi colleghi furono additati come i più feroci tra i canes rapaces che controllavano le finanze dello Stato. Impressionante l'esposizione personale del tesoriere negli ultimi anni del secolo: il suo credito ammontava a 42.500 ducati, oltre il 10% dell'entrata del dominio, e quello di G.S. Brivio, suo genero, a 54.000 ducati, cifre che danno la misura della capacità di questi favoriti di rastrellare ingenti risorse mediante le loro reti di relazioni e il proprio credito, "salvo poi ad essere relevati dal duca, che ricorreva anche ad appositi decreti per sottrarli alle richieste dei creditori" (Arcangeli, p. 263). Si comprende come un simile giro d'affari scatenasse accese rivalità tra gli operatori tagliati fuori dai circuiti privilegiati (ibid.). Ciò accresceva ulteriormente l'odio verso i favoriti del Moro e gli avversari erano pronti a sfruttare la sinistra fama del L., ovvero "colui che misse il prestito alli gentilomini et artesani de tutte le città di dominio" (Ambrogio da Paullo, p. 106).
Nel 1498 la situazione internazionale si fece più difficoltosa per il Ducato milanese. Diventato re di Francia, Luigi XII, già duca di Orléans, decise di realizzare il progetto del suo predecessore di attaccare e conquistare il Ducato di Milano con l'aiuto dei Veneziani. Il Moro intensificò l'allestimento delle difese nel territorio e si diede a imporre, con l'aiuto del L. e dei suoi fedeli ministri, nuove onerose taglie al clero, ai nobili milanesi e ai cittadini più facoltosi delle città, accanendosi specialmente su Cremona dove si registravano episodi di forte dissidenza. In dicembre furono avviate faticosamente trattative con il re; il cronista Antonio Grumello narra che, quando Luigi XII chiese al Moro 200.000 scudi d'oro per sospendere le operazioni contro il Ducato e concedere la pace, il L. disse che a quel prezzo c'era di che fare guerra per duecento anni. La "bravata" (così la definì Pietro Verri) era in fondo una considerazione abbastanza realistica dello stato delle finanze ducali, ma alcuni dei nobili milanesi avrebbero preferito continuare i negoziati, e la loro ostilità verso il tesoriere aumentò. A luglio del 1499 il L. ebbe l'incarico di fissare i prelievi da imporre ai feudatari per armare nuovi contingenti di fanteria: all'interno della commissione di cui faceva parte, e alla presenza del duca, fu duramente attaccato da Francesco Bernardino Visconti, che lo accusò di portare lo Stato alla rovina. A sua volta Botta accusò il Visconti di intrattenere contatti con Gian Giacomo Trivulzio, capo delle armate francesi in Italia. Il cronista veneto Domenico Malipiero (p. 560) riferisce di un altro duro scontro intercorso tra il L., i Trivulzio e i Borromeo ("el thesorier è vegnù alla man con Triulci e Borromei") e lo interpreta come prodromo dell'assassinio. Questi episodi sono rivelatori delle tensioni interne al ceto dirigente milanese, mentre la posizione del Moro si faceva sempre più precaria.
L'estate del 1499 fu segnata da una drammatica sequenza di eventi: l'attacco veneziano al Ducato, la ribellione di Cremona e infine, il 28 agosto, la conquista francese di Alessandria, dove si erano concentrate le difese sforzesche. Il Moro munì castelli, arruolò milizie e volle formare una guardia armata, per cui chiese l'ennesimo prestito ai mercanti; inoltre tentò tardivamente di ingraziarsi il popolo e i Collegi professionali milanesi, ma si preparò anche a fuggire con i figli e con il tesoro, per andare a chiedere soccorso al re dei Romani Massimiliano d'Asburgo.
La sera del 30 il L., che nel corso della giornata aveva venduto l'ennesimo bene camerale a un creditore, uscì dal castello in groppa alla sua mula, inerme o circondato da debole scorta, sotto una pioggia battente. Giunto nei pressi del palazzo Visconti-Carmagnola fu circondato da un drappello di cavalleggeri armati e mascherati, capeggiati da Simone Arrigoni, che lo assalirono e lo ferirono in diversi punti del corpo. Il Moro accolse la notizia con profondo sconforto, inviò presso di lui il cardinale Ascanio Sforza e lo fece trasportare al castello, ma le ferite erano profonde e il giorno dopo, il 31 ag. 1499, il L. spirò.
I notabili milanesi annunciarono al Moro che avevano deciso di arrendersi ai Francesi. Intanto i parenti del L. si affrettarono a mettere in salvo beni e denaro, e nella notte l'abitazione del tesoriere fu presa di mira dai saccheggiatori, mentre attacchi simili si indirizzavano verso le case di altri fedelissimi del duca.
Per spiegare l'attentato del 30 agosto occorre interrogarsi sull'identità di Arrigoni e sui motivi del suo gesto. Membro di una potente famiglia guelfa della Valsassina, dopo la caduta di Alessandria si era avvicinato ai Francesi e aveva organizzato l'assalto nella speranza di far rivoltare Milano, guadagnandosi il favore degli invasori. Ma egli era tutt'altro che estraneo all'establishment sforzesco: era stato maestro delle Entrate ducali, faceva parte dell'ambiente delle finanze di Stato, era stato parte in causa in faide sanguinose che avevano coinvolto vari Vimercati, Cusani, Cagnola, tutti nomi interni agli ambienti camerali. Nell'agguato al L., Arrigoni si era servito di diversi cavalleggeri mascherati (quattro, otto o dodici a seconda della fonte), probabilmente balestrieri a cavallo o stradiotti adatti a muoversi con agilità nelle vie cittadine, verosimilmente giunti dal campo francese, dove infatti ritornarono a rifugiarsi dopo la morte del Landriani. L'attentato ebbe dunque attinenza sia con conflitti maturati negli ambienti della finanza ducale - Ambrogio da Paullo scrive che Arrigoni "avea avuto offensione" dal L., altre fonti vicine ad Arrigoni parlano di una taglia che gli era stata imposta, particolarmente vessatoria - sia con lo scontro politico in atto all'interno del patriziato milanese. Sarebbe riduttivo vedervi, come fa per esempio Girolamo Priuli, solamente l'esito dell'esasperazione dei sudditi colpiti da una fiscalità rapace e distruttiva. I Milanesi erano sì stanchi delle vessazioni fiscali, ma soprattutto delusi dall'incapacità del Moro di scongiurare il disastro; e comunque l'arrivo dei Francesi era più temuto che desiderato, sia dal popolo sia dai nobili. Corio scrive che Arrigoni puntava a eliminare colui che era il massimo sostegno del Moro e Guicciardini (IV, 9) sintetizza tutti questi aspetti dicendo che il L. fu ucciso "o per inimicizie particolari o per ordine di chi desiderava cose nuove".
Dopo l'assassinio il Moro decise di affrettare la fuga e ai primi di settembre, mentre Francesi e Veneziani dilagavano in Lombardia, partì verso Como per raggiungere la corte imperiale. Prima di allontanarsi scelse quattro "principali" milanesi, tra cui Gerolamo Landriani generale degli umiliati, che avrebbero a loro volta designato un comitato di senatori: tra i nuovi eletti non ci fu alcun Landriani, poiché i Borromeo, i Trivulzio e i Visconti avevano superato le vecchie inimicizie e si erano ricompattati escludendo le casate troppo compromesse con lo Sforza. Nei mesi successivi, nel contesto di una situazione politica ancora molto confusa, i Landriani e i loro parenti più stretti (in particolare i Brivio e i conti della Somaglia) si distinsero per una severa posizione antifrancese; oltre a subire pesanti confische furono costretti a pagare onerose composizioni in denaro; ciononostante si giudica che la famiglia riuscisse a conservare buona parte delle cospicue ricchezze e anche il "capitale di relazioni" accumulato nel tempo dal L. (Arcangeli, p. 324).
Dopo la morte di Agostino rimasero eredi del patrimonio del L. le figlie Bianca e Margherita. Il L. era stato subito tumulato senza alcuna cerimonia in S. Pietro in Gessate: fu probabilmente un ripiego, poiché la più ovvia collocazione della sua tomba era il tempio ludoviciano di S. Maria delle Grazie, dove nel 1498 era stato sepolto il fratello Pietro; ma in quel momento, con l'avvento dei dominatori francesi, la chiesa bramantesca che il Moro aveva eletto a pantheon dei suoi familiari, cortigiani e fedeli, rischiò addirittura la demolizione.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Sforzesco, 1124, 10 nov. 1495; Famiglie, 94; G. Priuli, I diarii (1494-1512), a cura di A. Segre, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXIV, 3, 1, p. 174; D. Malipiero, Annali veneti, a cura di A. Sagredo, in Arch. stor. italiano, s. 1, 1843, t. 7, parte 1ª, p. 560; Cronaca di Antonio Grumello pavese dal 1467 al 1529, a cura di G. Müller, Milano 1856, pp. 28, 33; F. Muralto, Annalia, a cura di P.L. Donini, Mediolani 1861, p. 53; Ambrogio da Paullo, Cronaca milanese dall'anno 1476 al 1515, a cura di A. Ceruti, in Miscellanea di storia italiana, XIII (1873), pp. 105s., 119 s.; M. Sanuto, I diarii, II, a cura di G. Berchet, Venezia 1879, coll. 1033, 1150, 1187, 1190 s., 1198, 1214; P. Verri, Storia di Milano, Milano 1977, III, p. 97; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, Milano 1978, pp. 1564, 1621-1623; F. Guicciardini, Storia d'Italia, in Id., Opere, II, a cura di E. Scarano, Torino 1981, p. 449; Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca, VIII, a cura di N. Covini, Roma 2000, ad ind.; XV, a cura di A. Grati - A. Pacini, ibid. 2003, ad ind.; F. Calvi, A. L. tesoriere generale di Ludovico il Moro, in Rendiconti del R. Istituto lombardo di scienze e lettere, XV (1882), pp. 681-686; L.-G. Pélissier, Louis XII et Ludovic Sforza, Paris 1896, I, pp. 460-462, 467, 475; II, pp. 34, 46, 49, 213, 293; G. Biscaro, La vigna di Leonardo da Vinci, in Arch. stor. lombardo, XXXVI (1909), 2, p. 379; Id., Mercanti inglesi a Milano nella seconda metà del secolo XV, ibid., XLV (1918), p. 478; F. Malaguzzi Valeri, La corte di Ludovico il Moro, Milano 1929, pp. 57, 440-442; C. Santoro, Contributi alla storia dell'amministrazione sforzesca, in Arch. stor. lombardo, LXVI (1939), p. 76; Id., Gli uffici del dominio sforzesco, Milano 1948, pp. 17, 595; F. Catalano, La crisi politica e sociale di fronte al "barbaro", in Storia di Milano, VII, Milano 1956, p. 504; C. Santoro, L'organizzazione del Ducato, ibid., p. 528; G.P. Bognetti, La città sotto i Francesi, ibid., VIII, ibid. 1957, pp. 2, 12; D.M. Bueno de Mesquita, The deputati del denaro in the government of Ludovico Sforza, in Cultural aspects of the Italian Renaissance. Essays in honour of P.O. Kristeller, a cura di C.B. Clough, Manchester-New York 1976, pp. 282-291; F. Leverotti, La crisi finanziaria del Ducato alla fine del Quattrocento, in Milano nell'età di Ludovico il Moro. Atti del Convegno internazionale… 1983, Milano 1983, II, pp. 592 s., 596 s., 600, 602, 616, 620; L. Arcangeli, Esperimenti di governo: politica fiscale e consenso a Milano nell'età di Luigi XII, in Milano e Luigi XII, a cura di L. Arcangeli, Milano 2002, ad indicem.