Antonio Labriola
Nato in una famiglia «patriottico-liberale», Antonio Labriola divenne socialista – poi comunista – «per il disgusto del presente ordine sociale» (così scrive nel 1889). Queste poche battute riassumono fedelmente il cammino di una vita: travagliato, come rivela la distanza tra l’esordio e l’approdo, ma coerente. L’intera vicenda di Labriola appare segnata dalla passione civile e politica e dall’interesse per la questione sociale. La sua è una filosofia militante, il lascito di una figura distante dall’immagine tradizionale dell’intellettuale – e del professore universitario – appagato in un mondo di libri e di astrazioni.
Labriola nasce a Sangermano (oggi Cassino) il 2 luglio 1843. Compiuti gli studi secondari a Montecassino, si iscrive alla facoltà filosofica di Napoli, culla della «rinascenza dell’Hegellismo». Da Bertrando Spaventa («una testa pensante, anzi adirittura un filosofo») riceve un’«educazione (rigorosamente) hegelliana» che resterà un riferimento costante. Non ancora ventenne scrive Una risposta («una invettiva») alla prolusione di Zeller, del quale respinge l’idea di un «ritorno a Kant»; quindi una memoria sulla teoria spinoziana delle passioni. Ma le ristrettezze economiche lo costringono prima al «meschinissimo impiego» di «applicato di pubblica sicurezza», poi al «penoso lavoro» d’insegnante ginnasiale. Il 23 aprile 1867 sposa Rosalia Carolina von Sprenger, che gli darà tre figli. Studia Johann Friedrich Herbart, la cui influenza si avverte già nel Socrate, scritto nel 1869.
Conseguita la libera docenza in filosofia della storia, avvia un’intensa collaborazione con giornali della Destra storica e con il quotidiano svizzero «Basler Nachrichten». Denuncia la minaccia clericale, la scissione tra classe dirigente e masse, l’arretratezza culturale di queste, la fragilità del nuovo Stato unitario. Due saggi di ispirazione herbartiana (Della libertà morale e Morale e religione, 1873) gli valgono la cattedra di filosofia morale e pedagogia a Roma. È l’inizio di un magistero trentennale, ripensando al quale si dirà «un po’ socratico», «per natura più inclinato a parlare che a scrivere». Le sue lezioni insegnano – ricorderà Benedetto Croce – «non pensieri, ma a pensare» (B. Croce, Antonio Labriola [1904], in Id., Pagine sparse, raccolte da G. Castellano, serie terza, Memorie, schizzi biografici e appunti storici, 1920, p. 110).
È un liberale sui generis. Tiene agli operai romani lezioni sui loro diritti e si procura l’avversione dei colleghi, allarmati dalle sue «dottrine pericolose». Lo «studio diretto delle cose» lo spinge su posizioni radicali, poi al socialismo. Nel 1886 tenta, senza fortuna, di candidarsi al Parlamento. Il successo della Sinistra depretisiana lo abbatte. Il trasformismo lo disgusta, la Destra lo delude. Ma la politica resta al centro dei suoi interessi. Nel 1887 ottiene l’incarico di filosofia della storia. Apre il corso con una «prelezione» esemplare di un’originale sintesi tra eredità hegeliane e influenze herbartiane.
Il contatto con le lotte di massa lo trasforma in un attivista politico. In una lettera aperta del novembre 1887 si definisce «teoricamente socialista». Critica la politica liberista del governo e l’adesione italiana alla Triplice. Quindi esprime solidarietà agli operai romani licenziati per la crisi edilizia e poi propone un fronte democratico unitario contro Francesco Crispi. Partecipa a una manifestazione di disoccupati davanti a Montecitorio e la stampa conservatrice lo accusa di impartire lezioni sovversive da una «cattedra di anarchia». Nel centenario della presa della Bastiglia svolge un corso libero sulle origini della Rivoluzione francese, «l’esempio più vivo e più istruttivo del come una società si trasformi». Le lezioni vengono interrotte per gli incidenti provocati da studenti appoggiati dalle autorità accademiche, che sospendono per oltre un mese tutti i suoi corsi. Collabora con il «Sozialdemokrat» e assume posizioni estreme per la democrazia diretta («subordinare tutto alle assemblee operaie»), l’autonomia politica del proletariato («i borghesi li credo buoni soltanto a farsi impiccare»), la giornata lavorativa di otto ore («un passo verso la socializzazione del capitale»).
Tra il 1890 e il 1895 studia le fonti del marxismo, raccolte in anni di furore bibliofilo. Intreccia intensi scambi epistolari con Friedrich Engels (che incontra nel 1893 a Zurigo, al congresso dell’Internazionale), Filippo Turati e altri dirigenti socialisti. Fa lezione sulla «genesi» teorica e politica del materialismo storico quindi contribuisce alla costituzione del Partito socialista e a far scoppiare lo scandalo della Banca romana. A partire dal 1895 pubblica i Saggi sulla concezione materialistica della storia, il suo maggiore contributo alla cultura contemporanea. Nel 1896 tiene un memorabile discorso inaugurale su L’università e la libertà della scienza in cui critica l’irresponsabilità politica dei colleghi e attacca il governo. Nell’anno accademico 1900-1901 svolge un ultimo corso sui temi dell’incompiuto Da un secolo all’altro. L’anno successivo un cancro alla laringe gli impone di affidare a un allievo la lettura delle lezioni su Storia, filosofia della storia, sociologia e materialismo storico. Muore il 2 febbraio 1904 nell’ospedale tedesco di Roma. Le sue spoglie riposano nel cimitero dei protestanti di Testaccio, non distanti dalle ceneri di Antonio Gramsci.
Riandando con la memoria ai propri esordi («lontanissima preistoria»), negli anni della maturità Labriola rileva la «giovanile ingenuità» della Risposta alla prolusione di Zeller (composta nella primavera del 1863 e mai pubblicata). L’autocritica è comprensibile: il testo è espressione della baldanza di chi ha molte certezze e scarsi dubbi. Ma ciò nulla toglie alla qualità di pagine dense e spregiudicate.
Di Eduard Zeller, iniziatore di quel neokantismo che bollerà come «letteratura da eruditi», Labriola respinge la concezione della logica quale pura metodologia, esposizione di forme e regole del pensiero astratte dal contenuto. Zeller ricade, secondo Labriola, alle spalle di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, la cui «nuova filosofia» riesce a pervenire – in virtù della sintesi dialettica tra contenuto e forma del sapere – al «pensiero reale». E persino alle spalle di Immanuel Kant (che Labriola legge attraverso la lente hegeliana e spaventiana), del quale disperde intuizioni e potenzialità. «Il vero merito di Kant, è di aver inteso la conoscenza (– lo Spirito –) come risultato di due elementi», l’essere e il pensare: la sua «vera scoverta» è la «sintesi originaria»: di qui la concezione del sapere come produzione razionale dell’oggetto. Zeller invece che fa? Accetta come «soluzione del problema» la semplice rilevazione delle due fonti della conoscenza (la recettività e la spontaneità), e così smarrisce il «Significato Storico» del criticismo. La conclusione dell’analisi è quanto mai aspra. Quella di Zeller è una semplice «descrittiva» del processo conoscitivo, destinata a cadere nel più empirico psicologismo: egli non può dirsi a buon diritto kantiano, tanto meno un «restauratore del vero Spirito del Criticismo» (Opere, a cura di L. Dal Pane, 1° vol., 1959, pp. 36, 39, 40, 47).
La Risposta si conclude criticamente all’insegna di una visione della razionalità come processo e come concreta realtà vivente nella storia. L’assolutezza del sapere non va intesa come deduzione aprioristica dello scibile: l’idea secondo cui «la conoscenza è in sé tutto il conoscibile» («sapere assoluto») è dinamica, fondata sulla consapevolezza che «il conoscibile certo non è ora attualmente tutto conosciuto». D’altra parte ciò non comporta l’irrealtà né, tanto meno, l’impossibilità della scienza, la quale è, al contrario, «un Ideale» immanente «in ogni esplicazione Storica»: «non un giuoco soggettivo, ma la consapevole ed intima contemplazione della vita reale dell’Universo» (pp. 38 e 47).
Il tema della realtà del sapere è al centro dell’altro scritto di questi anni: la memoria, anch’essa inedita, su Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza (1866-67). Baruch Spinoza appare a Labriola un cardine dello spirito moderno («vero eroe del pensiero» lo definirà molti anni dopo, annoverandolo, con Niccolò da Cusa, Giordano Bruno e Hegel, tra i padri della comprensione dialettica della totalità) per la capacità di restituire un’immagine unitaria e coerente del reale e di giustificare così la sicurezza teoretica e morale dell’uomo moderno. La «fiducia incondizionata dello spirito nella oggettività della conoscenza» è per Labriola la cifra dell’ontologia spinoziana. Lo spirito di Spinoza è determinato e cosciente: «la sua attività consiste nella conoscenza effettiva». Risponde a questa fiducia la coerenza – e la potenza – di una visione unitaria del reale, di cui l’uomo è parte integrante. Spinoza è colui che, con Niccolò Machiavelli e William Shakespeare, ha portato a compimento l’anelito di riconciliazione dell’uomo con l’ordine eterno della natura.
Muovendo da questa premessa il campo problematico si amplia rispetto alla Risposta a Zeller. Sul piano ontologico e teoretico il concetto spinoziano di sostanza è assunto come un «progresso immenso sul dualismo cartesiano» e come «una vittoria completa sopra ogni presupposto di trascendenza» (Opere, cit., 1° vol., pp. 127, 269, 62-63); sul terreno etico la conciliazione dell’uomo con se stesso si compie in armonia con la regola naturale delle passioni, non in osservanza di norme astratte, inevitabilmente impotenti. Immanentismo da una parte, confutazione del volontarismo dall’altra: su questa base critica (consistente nel ricondurre le forme cristallizzate della coscienza alle loro cause naturali) ha luogo in Spinoza la fondazione di un’etica antisoggettivistica, libera da ossessioni antropocentriche e teleologiche. La conseguenza più significativa di questa rivisitazione della natura umana è, agli occhi di Labriola, la concezione della libertà in termini di consapevolezza, dunque la demolizione critica del libero arbitrio (che ancora il secondo saggio del Labriola marxista respingerà come assurdo logico, posto che «il volere non vuole da se stesso»). Unità e coerenza del reale implicano che l’uomo sia cosa tra le cose, entro una catena necessaria di cause. Il volere reale procede da una causa determinata e produce un determinato effetto. Merito di Spinoza è avere fondato il sistema morale «per la via del naturalismo, senza interruzione delle leggi costanti dell’universo».
Il testo racchiude intuizioni promettenti. Tale è in particolare la celebrazione del sistema spinoziano, «uno dei più perfetti e dei più conseguenti di cui vi sia esempio nella storia della filosofia» (pp. 110 e 121). Non sembri una notazione marginale: nel Labriola maggiore il marxismo avrà valore in quanto visione del nesso unitario della realtà, e la tendenza «critico-formale» al monismo sarà considerata «filosofia implicita al materialismo storico». Non per caso Labriola leggerà il Capitale anche attraverso l’Etica di Spinoza e a Spinoza accosterà lo stesso Karl Marx, studioso «impassibile» dei «procedimenti economici, more geometrico».
Tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo Labriola compie un’esperienza intellettuale destinata a incidere in profondità sul suo pensiero: lo studio di Herbart e delle nuove «scienze dello spirito» (in particolare la «psicologia dei popoli» e la linguistica comparata) che «si affaticano» nella «ricerca critica» e nella «elaborazione scientifica» dei «fatti del sapere storico». In Herbart, nel suo sguardo volto alla «spiegazione genetica dei fatti», Labriola rintraccia una filosofia amica della scienza. Un’analisi della condotta umana capace di aprire la via «ad una vera scienza della psicologia genetica» soddisfa il suo bisogno di concretezza; una metafisica intesa come «critica e correzione dei concetti» va incontro alla sua sete di sobrietà, al fastidio per la «temerità» di chi (l’allusione riguarda il filosofo della storia Augusto Vera, di stretta osservanza hegeliana) pretende di dar conto della realtà con «un paio di parole magiche» (Opere, 3° vol., 1962, p. 279).
Il primo scritto di rilievo pubblicato da Labriola (nel 1871) risente del nuovo orientamento. Nella Dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele l’analisi del problema della libertà si precisa in connessione con lo studio genetico-evolutivo della coscienza etica; e la pedagogia socratica è interpretata come un intervento chiarificatore, volto a mettere ordine nella morale concreta attraverso la formulazione di concetti sempre più «coscientemente appresi e pensati» (Opere, 2° vol., 1961, p. 75). È solo il primo documento di una nuova prospettiva di ricerca attenta al «positivo», al «circostanziato», alla puntuale ricostruzione dei nessi causali. Nei saggi del 1873 dati alle stampe in occasione del concorso alla cattedra di filosofia morale e pedagogia (Della libertà morale e Morale e religione) l’analisi psicologica fornisce un contributo fondamentale allo studio della morale, chiamato a fare luce sulla «molteplicità di stati» e di «esperienze interiori» che «formano l’io» e confluiscono nella «reale attività dell’anima» (Opere, cit., 3° vol., p. 79).
La prospettiva resta comunque saldamente ancorata al terreno storico. E se importanti stimoli Labriola trae al riguardo dal dibattito tedesco contemporaneo sulla metodologia storiografica, altrettanto incisiva – tale da condizionare l’adesione alle tesi del «concettualista» Herbart – è l’influenza di Hegel. Labriola non si stancherà di ripeterlo nel ripercorrere le tappe della propria formazione. A Engels scriverà di essere arrivato al socialismo «attraverso la filosofia della storia di Hegel e la psicologia dei popoli di Herbart» (Carteggio, a cura di S. Miccolis, 3° vol., 2003, p. 26); altrove affermerà di essere cresciuto «sotto l’influsso diretto e genuino dei due grandi sistemi» (Scritti politici 1866-1904, a cura di V. Gerratana, 1970, p. 391), lasciando intendere di scorgere nella loro sintesi (propugnata dallo stesso Spaventa) la cifra della propria posizione. Sta di fatto che nel preparare la dissertazione sul ruolo dell’«Idea» nella storia (1871) – pagine già segnate dall’attenzione per le ricerche «genetiche» herbartiane intorno ai «dati primitivi psicologici» delle idee e delle forme sociali – Labriola afferma l’«esigenza hegelliana del riconoscimento dell’unità storica» e la necessità dell’«esposizione della storia dal punto di vista speculativo del processo ideale» (Dal Pane 1975, pp. 131 e 133).
I saggi del 1873 appaiono rilevanti anche sul piano politico. Dal 1871 Labriola interviene su giornali vicini alla Destra liberale per sostenere le ragioni di un cauto riformismo (le libertà vanno ampliate «a gradi») e la centralità delle esigenze del Mezzogiorno, il cui «malessere» considera «minaccioso per la quiete e la prosperità di tutta la nazione» (Scritti liberali, a cura di N. Siciliani de Cumis, 1981, pp. 236-37). L’ottica è nazionale, l’animus fervidamente risorgimentale (tale resterà anche nel Labriola marxista), ma la visione delle cose non è celebrativa. L’attaccamento al nuovo Stato non suggerisce indulgenza, ma severità e impazienza. È merito della «grande generazione» del Risorgimento aver dato vita a un moderno Stato unitario e laico («principato civile»), ma «opere gravissime» restano da assolvere perché l’Italia «si possa dire nazione matura» (Scritti liberali, cit., p. 52; «Monitore di Bologna», 282, 15, 11 ottobre 1874).
Le Lettere napoletane, pubblicate sulla «Nazione» di Firenze nell’estate 1872, dipingono un quadro impietoso della classe dirigente – perlopiù inadeguata quando non corrotta; miope e per ciò divisa in fazioni capeggiate da «rimestapopoli» e «attaccabrighe» – e degli effetti perversi della stessa unificazione. Napoli, «odiosissima città», appare specchio della «miseria» italiana: povertà ovunque e mala amministrazione; strade impraticabili e cattive scuole; tasse insopportabili e conseguente malcontento generico e plebeo («Cronache meridionali», [1954], 1, 7-8, pp. 579-80). Anche questi temi sottendono gli scritti sulla morale e la storia, a riprova dello stretto nesso – un’endiadi – che salda filosofia e politica nella mente di Labriola e nell’opera sua.
Epicentro dei mali italiani è il divario che tuttora separa la «minoranza dei colti e dei patrioti» (sovente chiusa in un dottrinario sentimento di superiorità) dall’«immensa maggioranza degl’ignoranti e degli inattivi» (Scritti politici 1866-1904, cit., pp. 144-45). Ne è in buona parte responsabile la Chiesa cattolica che, nel presidiare l’osservanza di precetti esteriori (lo «statuale della religione»), diffonde tra le masse «incolte» superstizione e «inerte passività», provocando l’«accasciarsi» del sentimento religioso («forma generale dello spirito, superiore ad ogni vicenda storica di confessioni religiose») e l’eclisse della moralità privata e pubblica. Contro la «prepotenza dell’autorità chiesastica» Labriola evoca la potenza dello Stato laico, forte della consapevolezza «che l’uomo si debba guidarlo», «farlo», «educarlo». E – tuttora persuaso della fondamentale missione «etica» dello Stato (che, «nel suo ideale, è scuola, è diffusione dei lumi, è benevoglienza») – invoca la costruzione di una «coltura popolare» capace di vincere l’«indifferentismo delle masse» e di «sollevare tutta la Nazione» alla coscienza delle necessità del nuovo e ancora fragile Stato unitario (Opere, cit., 3° vol., pp. 125, 124, 8, 105-106; Scritti liberali, cit., p. 54).
Il successo elettorale della Sinistra nelle elezioni del marzo 1876 è per Labriola motivo di profonda delusione. Nei governi guidati da Agostino Depretis egli scorge un evidente segno della progressiva degenerazione dello Stato a strumento di parte; nella pratica del trasformismo, legge il trionfo dei vizi del ceto politico (cinismo, corruzione, spirito di fazione) e la caduta verticale della morale pubblica. Il decennio depretisiano è quindi un periodo assai cupo, complice l’inerzia della Destra, compromessa e sempre più inetta «a reggere la parte dell’opposizione». L’Italia gli appare – confida a Camillo De Meis il 13 luglio del 1879 – un «povero» Paese «malato tutto, tutto», per il quale «non c’è rimedio che tenga» (Carteggio, cit., 1° vol., 2000, p. 657).
In breve lo sconforto ha la meglio. Labriola si ritira dalla scena pubblica e trova nel «salotto» di Silvio Spaventa («quanto di più nero, di più pessimistico si possa immaginare», ricorderà il Croce) un rifugio consono al suo umore. Si dedica a tempo pieno agli studi, all’insegnamento e alla direzione del Museo d’istruzione e di educazione, creato nel 1874 da Ruggiero Bonghi per fornire al ministero della Pubblica istruzione «criterî comparati su la legislazione» relativa alla scuola elementare. Ma la politica resta un chiodo fisso. E la passione civile decide il percorso di una ricerca che nell’arco di un decennio lo vede approdare dapprima a posizioni democratiche radicali, poi al socialismo.
Lo Stato – le sue funzioni, il concreto fondamento della sua legittimità – è il grande tema sul quale Labriola s’interroga nei primi anni Ottanta. Nata dal disincanto, la sua riflessione è frutto anche di nuove esperienze intellettuali. Labriola amplia il raggio delle sue letture, studia il diritto pubblico e la sociologia del diritto, è attratto dalla prospettiva del socialismo giuridico. Ne trae giovamento un pensiero realistico, consapevole del peso degli interessi in conflitto. Tramontata l’utopia dello Stato etico, il ruolo dello Stato (la sua «utilità») gli appare ora dettato dalla necessità di salvaguardare la coesione sociale (di «contemperare l’individualismo col socialismo») regolando gli antagonismi tra le classi. E la cognizione delle gravi condizioni del Paese lo induce a una prima requisitoria contro il capitalismo, che «avvilisce gli uomini», rende l’«uomo macchina» e alimenta ineguaglianze estreme, fonte di «danno al comune e allo stato» (Dal Pane 1975, pp. 180 e 179).
Nel 1886 Labriola torna sulla breccia. Il passaggio su posizioni democratico-radicali è dichiarato dal tentativo, non riuscito, di candidarsi alle elezioni. Gli ultimi anni Ottanta registrano un intenso impegno pubblico. Labriola (che nel frattempo ha ottenuto l’incarico di filosofia della storia e inaugurato il corso del 1887 con un’importante «prelezione» sui Problemi della filosofia della storia, su cui torneremo) non manca occasione per suscitare un fronte democratico unitario che fermi la risorgente minaccia clericale e dia voce agli esclusi. Si batte contro ogni ipotesi di conciliazione tra lo Stato e la Chiesa (che spianerebbe la via a «un clero nemico di ogni moderna forma di pensiero»), invoca una «politica sociale» a tutela del lavoro e chiede che la «voce degli operai» sia rappresentata in Parlamento. Lo strapotere del padronato industriale gli appare ormai incompatibile con la democrazia. Si tratta, scrive, di evitare che «il capitalismo artificialmente favorito» finisca con il «mettere lo Stato in servizio dei pochi contro i molti» (Scritti politici 1866-1904, cit., p. 107).
Si è ormai innescato un moto incalzante nel quale ogni presa di posizione ne prepara altre più estreme, in un rapido avvicinamento al socialismo. Ne sono limpida testimonianza tre interventi, concepiti nello spazio di un triennio (1888-90).
Nella conferenza Della scuola popolare la denuncia dell’analfabetismo di massa si salda alla vibrante polemica antiliberista (è la «libertà industriale», «infelicissima idea dei nostri liberisti», il maggiore ostacolo all’educazione scolastica di massa) e al riconoscimento dell’importanza della cultura nel conflitto di lavoro («il rendere più difficile e più lunga la preparazione del lavoratore, gli dà poi modo e ragione di chiedere un salario maggiore»).
Un’altra conferenza (Del socialismo), che Engels legge «con grande interesse», definisce la democrazia borghese «multiforme menzogna», «arma di sfruttamento raffinato», e pone l’accento sul divario tra «la condizione presuntiva, direi quasi ideale, del cittadino, e la condizione di fatto della vita dei lavoratori», «schiavi di fatto e di tutte l’ore di quelli che son detentori dei mezzi di produzione». Infine, nella lettera aperta in cui annuncia l’uscita dal circolo radicale che aveva contribuito a fondare (Proletariato e radicali) afferma il «fatale decadimento di tutta la borghesia», la cesura profonda («nei fini, nei mezzi e nella tattica») tra «la rivoluzione sociale» e la borghese, il «deciso distacco» tra «politica borghese e socialismo», niente di meno che «due periodi distinti della storia». Sicché la conclusione – «risolutamente» tratta a nome di «noi socialisti» – è che l’unica «speranza di riuscita» per «il proletariato» consiste nella piena autonomia culturale e politica, quindi nella costituzione di un «forte e organizzato» «partito dei lavoratori» (Scritti politici 1866-1904, cit., pp. 125, 131, 175, 172, 222-23). Lui, che dieci anni prima aveva definito il socialismo «impossibile» o, peggio, foriero di «barbarie» (Dal Pane 1975, p. 180), è ormai un fervente socialista, determinato a consacrare l’ultima stagione della propria vita – e la più feconda – allo studio delle fonti teoriche del marxismo e alle battaglie del movimento operaio.
Il tema dell’autonomia teorica e politica della classe operaia ricorre negli interventi dei primissimi anni Novanta, a cominciare dall’indirizzo di saluto al congresso dei socialdemocratici tedeschi, riunitisi nell’ottobre 1890 a Halle all’indomani di un successo elettorale che aveva provocato la caduta di Otto von Bismarck e l’abrogazione delle leggi eccezionali.
Mai più i proletari ‒ scrive Labriola in coppia con Turati ‒ cederanno alle lusinghe di consorterie politiche e di potenti demagoghi. Il proletariato militante procederà sicuro […] fidando solo nei suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze.
E poco dopo puntualizza: la classe operaia deve costruire una «resistenza organizzata» evitando di mescolarsi «ai radicalucci e ai piccoli borghesi» (Scritti politici 1866-1904, cit., pp. 249-50 e 260). Questa riflessione conduce Labriola a porre un problema di prima grandezza: la fragilità delle basi culturali del socialismo italiano, nei gruppi dirigenti non meno che nella massa operaia. Il quadro che emerge dalla corrispondenza con Engels, iniziata nel marzo del 1890, è impietoso. I socialisti italiani sono al momento «una consorteria di politicanti», gli operai «in gran parte dei semplici artigiani, e anzi dei famuli dei loro padroni, o dei prestatori di servizii personali», un «proletariato ignorante, impolitico, e in buona parte reazionario» (Carteggio, cit., 3° vol., pp. 215 e 255). In breve, se «la forza del Partito operaio italiano» è «poca», ciò si deve in primo luogo alla sua «immaturità intellettuale», al fatto che «piccola è la schiera dei socialisti italiani scientificamente colti» (Scritti politici 1866-1904, cit., pp. 243 e 246).
Coinvolgendo i rapporti tra classe e partito e tra teoria e prassi, la battaglia volta a dotare il movimento operaio di salde basi teoriche è dunque, per Labriola, squisitamente politica. Ed è altresì una delle cause dei dissidi che dal 1891 lo contrappongono alla dirigenza socialista (altre ragioni attengono all’internazionalismo e alla scelta di coloro – Leopold Jacoby, Achille Loria ed Enrico Ferri – che informano i socialdemocratici tedeschi sui progressi del socialismo italiano e illustrano la linea del partito nei suoi aspetti teorici). Il gruppo dirigente turatiano non comprende le raccomandazioni di Labriola e comunque le avversa, riducendole a fisime intellettualistiche. Turati dà a Labriola «del tedesco, dell’ideologo, dell’ignaro della vita, dell’amante della linea logica»; Anna Kuliscioff lo irride (il «professorissimo»). Come se non fosse politica la divergenza tra chi (Turati), pur di accelerare la formazione di un vasto movimento, tenta di aggregarvi ogni gruppo esistente (nella speranza di inocularvi poi il «virus socialista») e chi (Labriola) giudica tale impostazione ambigua, considerando prioritario il radicamento della coscienza di classe nella massa operaia.
Anche per quanto riguarda i «rapporti internazionali fra i socialisti» le posizioni di Labriola («comunista internazionale», da sempre «assoggettato» ai «doveri della internazionalità») divergono da quelle di Andrea Costa e di Turati, interessati soprattutto alla scena politica italiana. Non è questione di sentimenti, ma della nuova struttura del conflitto di classe (e del mercato del lavoro) sullo sfondo dello sviluppo internazionale del capitalismo. Al congresso zurighese dell’Internazionale (agosto 1893) Labriola riesce a porre la questione della solidarietà tra operai «indigeni» e immigrati. E subito gli eventi di Aigues-Mortes (il massacro di operai italiani a opera di maestranze francesi esasperate dalla concorrenza salariale) gli danno tragicamente ragione. Ma in patria egli si sente straniero, osteggiato e incompreso. Di ritorno da Zurigo, scrive a Engels di considerarsi «semplicemente un tedesco perduto in Italia»; a Wilhelm Ellenbogen dirà (4 febbraio 1895) di essere «annoiato […] umiliato […] mortificato […] irritato per la coscienza dell’impotenza» (Carteggio, cit., 3° vol., pp. 316 e 509).
Nonostante ciò (e a dispetto di un carattere non facile), Labriola non fa mancare il proprio apporto al Partito socialista, alla cui nascita contribuisce in misura rilevante e del quale è, a suo modo, uno dei massimi dirigenti. La sua prospettiva si impone al congresso fondativo di Genova (agosto 1892), che Labriola diserta ma che sancisce la separazione del socialismo dall’anarchismo e dal radicalismo («Si fece la conversione: si proclamò la lotta di classe: si divenne tutti marxisti in un giorno», scriverà compiaciuto allo stesso Ellenbogen, Carteggio, cit., 3° vol., p. 451). A lui il gruppo parlamentare socialista deve la documentazione che porta alla luce lo scandalo della Banca romana. E la sua influenza spinge Turati – dapprima convinto che fossero una «rivolta della fame» – a cambiare idea sui fasci siciliani, nei quali Labriola ravvisa «il primo grande fatto del socialismo italiano», la prima lotta di popolo nella quale – scrive a Pablo Iglesias – «la massa proletaria italiana» si sia posta «di fronte alla borghesia con la coscienza di classe oppressa» (Carteggio, cit., 3° vol., pp. 390-91). Del tutto incongruo, prima ancora che ingeneroso, appare quindi il ritratto che proprio Turati schizzerà nel suo necrologio, dove Labriola, descritto come un erudito che «si compiaceva dei più sottili rabeschi», è confinato in «una zona esterna agli interessi pratici del movimento».
In questi stessi anni, sulla scorta delle esperienze maturate nella battaglia politica, Labriola viene concependo i primi Saggi sul materialismo storico. Della loro originalità in primo luogo formale egli è pienamente consapevole. «La vera difficoltà», scrive a Engels già nel marzo 1893, «sta nella mancanza di precedenti letterarii nazionali cui riferirsi» (Carteggio, cit., 3° vol., p. 291). In effetti, si tratta di un nuovo genere, a mezzo tra la glossa a margine del testo marx-engelsiano e l’autonomo sviluppo della teoria. L’ambizione, coerente con il progetto di una grande pedagogia politica del movimento operaio (occorre «preparare la educazione democratica del popolo minuto»), è far sì che tutti capiscano veramente. Non si tratta, per questo, di «volgarizzare» le «idee del socialismo scientifico» riducendone la complessità, bensì di «popolarizzarle».
Ma originali i Saggi sono anche per il taglio che impongono alla teoria. Quello affidato alle loro pagine è, per ammissione dell’autore, un marxismo «alquanto aristocratico», ricondotto senza incertezze alla matrice storica hegeliana e lontano dal determinismo economico e positivista. Di qui, forse, la «scarsa fortuna» e l’incomprensione che Piero Gobetti e Gramsci lamenteranno. Ma Labriola si sforza anche di tradurre in italiano il pensiero di Marx e di Engels. Memore del fallimento di quegli hegeliani di Napoli che non avevano lasciato traccia nella cultura italiana in quanto «scrissero, e insegnarono, e disputarono come se stessero, non a Napoli, ma a Berlino» (La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, 1971, p. 213), egli intende restituire il materialismo storico «secondo l’angolo visuale del cervello nazionale» (Carteggio, cit., 4° vol., 2004, pp. 31-32). Ed è incontestabile non soltanto che i Saggi introducono il marxismo in Italia quando nessuno aveva ancora osato aprirgli le aule universitarie, ma anche che per decenni esso sarebbe stato studiato – e assunto o rifiutato – per come viene ora interpretato da Labriola.
«All’Università» – annuncia Labriola a Engels il 21 febbraio 1891 – «svolgo già da quattro mesi la teoria materialistica della storia». Quattro anni dopo vede la luce il primo dei Saggi marxisti, In memoria del Manifesto dei comunisti, e l’argomento è lo stesso di quei corsi: lo «studio genetico del come la dottrina si è prodotta». L’impostazione è coerente con l’ispirazione materialistica della teoria: si tratta anche dei precedenti culturali del socialismo e del comunismo moderno, ma soprattutto della loro genesi reale. Come Labriola chiarirà nel secondo saggio, scopo fondamentale del primo è
mostrare come la concezione materialistica della storia fosse nata precisamente in date condizioni e cioè non come personale e discutibile opinione di due scrittori.
Non si tratta della trovata di due brillanti intellettuali. Prima che nella mente di Marx ed Engels, il materialismo storico è nato dai processi reali che hanno generato la modernità. Per questo il suo «vero nome» è «comunismo critico», antitesi degli antecedenti utopistici ignari delle «cause vere» della loro elaborazione (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 98 e 7).
L’ideale del sapere al quale Labriola si rifà è dunque di schietto sapore hegeliano. Il materialismo storico è scienza («teoria obiettiva delle rivoluzioni sociali», «vittoria della prosa realistica sopra ogni combinazione fantastica ed ideologica») in quanto autoesposizione della realtà: una teoria che si limita a decifrare i dati «ammanniti dalla società stessa» e a rappresentarli in forme adeguate allo spirito del tempo. Ma a Hegel rimanda anche la concezione del reale quale tessuto dinamico di contraddizioni. La scienza sociale sottesa al Manifesto di Marx è l’esposizione oggettiva («in tutta la prosa loro») dei «contrasti reali dei materiali interessi della vita di tutti i giorni»: l’«intelligenza», scrive Labriola nel secondo saggio, «dell’autocritica che la società esercita sopra di se stessa nella immanenza del suo proprio processo» (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 100, 66, 111, 8, 105-106).
Questa certezza circa l’oggettività della teoria gli infonde – per il momento – un’incrollabile fiducia nelle sorti del movimento operaio. «Il risolvente delle presenti antitesi è il proletariato»; la «forma sociale» capitalistica, luogo dell’apparente trionfo della borghesia, è in realtà il suo «presagito cimitero». Certo, la previsione dell’urto rivoluzionario è «morfologica» e non «cronologica»: attiene alla struttura del processo, non al suo ritmo. Nondimeno, la «nuova concezione storica» permette di formulare un «presagio teoreticamente fondato»: la «nuova èra […] sboccia e sorge […] in modo necessario e ineluttabile» da «leggi immanenti» al divenire storico; il «proletariato moderno» è la «forza positiva, dalla cui azione, inevitabilmente rivoluzionaria, il comunismo dovrà necessariamente resultare». La certezza nell’«effettivo trionfo» della «rivoluzione proletaria» è la cifra di questo primo saggio, che non esita a leggere in tale prospettiva lo stesso sviluppo mondiale del «sistema borghese». La «vertiginosa estensione della sua sfera d’azione» genera le «condizioni intrinseche della sua morte inevitabile»: l’«assottigliarsi» dei conflitti sociali all’«unica lotta tra capitalisti e lavoratori proletarizzati» e l’irruzione della «massa operaia» sulla scena della storia «come vero e proprio partito politico». «Più larghi si fanno i confini del mondo borghese», più «il cimitero s’ingrandisce a perdita di vista» e «più precise e sicure divengono le aspettazioni del comunismo» (pp. 105, 55, 27, 9, 11, 5, 10, 98, 35, 21).
Nel 1896, a un anno di distanza dal primo, Labriola pubblica il secondo saggio (Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare), nel quale affronta «problemi generali» del marxismo, incentrati «per un verso su i limiti e su le forme del conoscere, e, per un’altra parte, su le attinenze del mondo umano col resto del conoscibile e del conosciuto». Per ciò che riguarda quest’ultimo terreno, avere colto la portata ontologica dell’attività produttiva permette al materialismo storico di riconoscere nella storicità la «specificazione del vivere umano».
La storia è il fatto dell’uomo, in quanto che l’uomo può creare e perfezionare i suoi istrumenti di lavoro, e con tali istrumenti può crearsi un ambiente artificiale.
Su questa base l’uomo si rivela creatore di se stesso, in quanto l’impiego di «mezzi artificiali» è, circolarmente, «causa ed effetto» delle trasformazioni della sua «vita interiore» e dell’evoluzione delle forme della vita collettiva. Proprio in virtù dell’artificialità della condizione umana (del suo non conseguire immediatamente alla natura) la storia non è storia di «masse informi d’individui», ma di società («consociazioni organate») sempre più complesse, basate sulla divisione sociale del lavoro: «storia del variare della cooperazione umana, dall’orda primitiva allo stato moderno» (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 226, 74, 76, 125).
Quanto all’altro tema (limiti e forme del conoscere), la superiorità della «concezione materialistica» risiede nel suo configurarsi come una «teoria unitaria», fondata su «un principio affatto unitario della interpretazione storica». Il materialismo storico permette di elaborare la «spiegazione più conveniente e congrua del succedersi delle vicende umane» nella misura in cui sottende una «concezione obiettivamente unitaria della storia», in grado di «intenderla tutta integralmente». L’enfasi sull’unitarietà dei quadri interpretativi è un aspetto cruciale, che connota l’accezione labrioliana del tema genetico. L’analisi fenomenologica del terreno empirico è un momento indispensabile ma transitorio nella comprensione della realtà, al di là del quale lo «sforzo massimo del pensiero […] è diretto a vincere il multiforme spettacolo della esperienza immediata, per ridurne gli elementi in una serie genetica» (pp. 88, 94, 63, 70, 96).
È questa, a ben guardare, la posizione espressa già nella «prelezione» del 1887, nella quale, pure, è particolarmente forte l’influenza herbartiana. La teoria dell’epigenesi e delle neoformazioni valorizza le differenze, gli scarti, la molteplicità. Ma l’insistenza sul nuovo e sul multiforme colpisce quella che il secondo saggio chiama «filosofia storica a disegno» (p. 85) ‒ la pretesa aprioristica di fondare l’unità della storia su «preconcetti religiosi, sociali o di metafisica monistica» da cui «dedurre le differenze» ‒ e nulla toglie alla fondamentale necessità di comprendere unitariamente il processo: di individuarne «il fulcro, o il subietto» e il «centro principale dell’attività, per rispetto a cui tutto il resto assume la parte di semplice condizione, o di complemento» (Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, 1973, t. 1, pp. 22, 26, 12, 13).
In questo contesto la Dilucidazione sottopone a critica la teoria dei «fattori storici», agli occhi di Labriola paradigmatica di un approccio astrattizzante. L’«analisi preliminare e laterale dei fatti complessi» a opera della storiografia specialistica è utile, al pari di «ogni altro studio empirico che si attenga al moto apparente delle cose». Sarebbe però erroneo scambiarla per il tutto, come accade quando i «presunti fattori storico-sociali» vengono «artificiosamente distratti dall’insieme». Ciò che essa produce è solo un materiale preparatorio, sul quale deve operare la sintesi razionale. A questa mette capo il materialismo storico, che – comprendendo la logica del processo («gli elementi primissimi della nuova e definitiva filosofia della storia») – restituisce la totalità del quadro (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 93 e 54).
In base a queste premesse, Labriola definisce «genetica, evolutiva, dialettica» la concezione materialistica della storia. Intesa come contraddittorietà e reciprocità delle connessioni, la dialettica (logica costitutiva del reale e sintassi della sua comprensione razionale) è in effetti il cuore del marxismo labrioliano. Al principale sistema di relazioni tematizzato da Marx – il nesso che collega il contesto materiale (economico-sociale) al piano soggettivo (culturale e politico) – la Dilucidazione presta molta attenzione e ne offre una lettura rigorosamente antideterministica. Le «condizioni di ambiente, di terreno, di mezzi disponibili, di circostanzialità dell’esperienza» (il «sostrato economico», il «tellurico») influiscono «per indiretto» e «in ultima istanza» sulle «forme della coscienza», le quali non sono inerti parvenze, ma a loro volta «cagione non piccola del modo come la storia è proceduta». Non può quindi sorprendere che il terzo saggio dichiari il materialismo storico e la critica marxiana dell’economia politica incomprensibili per empiristi e metafisici («padri definitori di entità concepite in aeternum» tra le quali Labriola annovera le astrazioni «antistoriche» del marginalismo, «neo-economica degli edonisti»), cui manca «la nozione esatta del procedimento dialettico» (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 91, 78, 133, 96, 192, 197).
«Critica immanente» della realtà, la dialettica è il motore della «negatività rivoluzionaria» in virtù delle sue «inversioni» e del suo «negare» che «invera ciò che nega» – tutt’altra cosa dalla «contenziosa e avvocatesca contrapposizione di concetto a concetto, di opinione ad opinione» (pp. 210 e 193). Della corruzione terminologica che in Italia (dove non «si sa più nulla della tradizione hegeliana») degrada «la parola dialettica» ad «arte retorica ed avvocatesca» Labriola tiene conto. Per questo suggerisce di parlare di «metodo genetico» invece che «dialettico». Ma è, appunto, solo una «questione di parole»: la traduzione è necessaria «per dire lo stesso» e affermare «la forma del pensiero, che concepisce le cose non in quanto sono (factum – specie fissa – categoria etc.) ma in quanto divengono» (Carteggio, cit., 3° vol., pp. 411-13). Con buona pace del pensiero intellettualistico («ragione astratta»), le cose coincidono con la loro storia, e il nocciolo del marxismo consiste in una concezione dinamica – processuale e conflittuale – della realtà, come nell’ontologia hegeliana: salvo un’ultima, decisiva, «inversione dialettica» che consente di estrarre dall’«hegelismo» un «nuovo e più poderoso criticismo» nella misura in cui «alla semovenza ritmica d’un pensiero per sé stante» sostituisce «la semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto» (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 193, 240, 210, 216).
Dialettica (caratterizzata da «antitesi» e «opposizioni») è naturalmente anche la modernità. A dispetto della metafisica evoluzionistica, lo sviluppo del «complicato ingranaggio della società» procede in modo «sottile e tortuoso», non lineare e asincronico. A differenza del «tempo cronologico», «il tempo storico non è corso uniforme per tutti gli uomini», ragion per cui anche in Europa si registrano accelerazioni e ritardi. In Italia, in particolare, la «situazione sociale» è arretrata, la «grande industria» stenta a radicarsi, l’economia è «per la massima parte agraria» (da qui il fatto che le «sollevazioni dei contadini di Sicilia» siano state «il primo segno di vita, che il proletariato abbia dato di sé»). Labriola valuta il «ritardo» italiano – fondamentale nucleo tematico dei Saggi – nella prospettiva continentale definita dal suo maestro Spaventa. L’«Italia del secolo decimosesto» decadde dopo essere stata la culla dell’«epoca capitalistica», e «uscì per secoli dalla circolazione della storia» nella quale si tratta ora di rientrare, recuperando il tempo perduto (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 94-95, 84, 284, 41, 146, 40). Ma anche a questo riguardo il discorso è segnato dall’impronta materialistica. Laddove Spaventa raccomandava di «ripigliare» dalla Germania le idee, affermando le comuni origini dello spirito europeo, Labriola guarda in primo luogo al terreno sociale. Non si tratta soltanto della «filosofia classica tedesca», ma anche della socialdemocrazia e delle sue lotte: come scrive a Richard Fischer già nell’aprile del 1894, «tutto lo sviluppo» va «ripercorso teoreticamente e praticamente» perché nella «situazione sociale complessiva […] non siamo andati di pari passo con le altre nazioni», tant’è che l’Italia è tuttora «al di sotto del livello sociale considerato come presupposto storico nel Manifesto comunista» (Carteggio, cit., 3° vol., p. 394).
Nell’aprile del 1897 vede la luce Discorrendo di socialismo e di filosofia, rivolto in forma epistolare a Georges Sorel, autore della prefazione all’edizione francese dei primi due saggi. Cinque anni dopo, introducendo la seconda edizione, Labriola farà mostra di intenti modesti. «Queste pagine recano un qualche complemento, e aggiungono una certa chiarezza ai miei due saggi» precedenti (La concezione materialistica della storia, cit., p. 175). In realtà Discorrendo è un testo denso e complesso.
Vi ha uno sviluppo importante il tema della scientificità del marxismo, posto nel primo saggio e declinato ora in connessione con la critica della metafisica. Avversario feroce del positivismo (una ideologia della scienza, come attestano le teorizzazioni di «quel cretino del sig. Spencer», Carteggio, cit., 3° vol., p. 412), Labriola riconosce il valore della conoscenza scientifica (il «positivamente acquisito nella interminabile nuova esperienza sociale e naturale», Scritti politici 1866-1904, cit., pp. 391-92), in relazione alla quale va definito il ruolo della filosofia. Bandita ogni pretesa speculativa propria delle ricerche «su i principi astratti e formali del conoscere» (Scritti filosofici e politici, cit., t. 1, p. 21 nota), la filosofia deve servire «quale istrumento critico», procurando alle analisi che la scienza svolge «sopra un campo circoscritto della realtà» la «chiaroveggenza dei metodi formali e dei procedimenti logici»: deve cioè «immedesimarsi» nella scienza, ciò che appunto fa il materialismo storico, entrando «nei particolari della realtà con la penetrazione che è propria di un metodo genetico inerente alle cose». Se l’obiettivo è «la perfetta immedesimazione» della filosofia «con la materia del saputo», il materialismo storico – «filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia» – è un paradigma di «filosofia scientifica» (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 237, 247, 230-31, 227, 216).
Il concetto di praxis è il luogo nel quale si realizza la sintesi tra filosofia e scienza. Esso designa il punto di convergenza tra la teoria e la pratica, tra il momento soggettivo del pensiero e l’oggettività in cui questo si traduce operativamente. Labriola riprende in proposito testualmente il dettato della prima ‘tesi su Feuerbach’ di Marx:
Il materialismo storico, ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d’idealismo […], così è la fine anche del materialismo naturalistico (p. 216).
Intesa «sotto questo aspetto di totalità», la praxis – sede di una convergenza tra fare e sapere non priva di echi vichiani – è pensiero concreto e azione consapevole, carica di razionalità. Ne è esempio perfetto «l’esperimento volontariamente e tecnicamente condotto», nel quale «il pensiero cessa dall’essere un presupposto» e «diventa concreto, perché cresce con le cose», e la scissione tra soggetto e oggetto è dialetticamente superata in virtù del nostro operare e, operando, divenire «collaboratori della natura» (onde «le cose cessan dall’esser per noi dei meri obietti rigidi della visione perché si vanno, anzi, generando sotto la nostra guida»). Ma se l’esperimento è, per dir così, il caso di scuola, praxis è in generale ogni agire che consapevolmente realizzi il pensiero: in primo luogo il lavoro «integralmente inteso», comprendente in sé lo sviluppo delle «attitudini mentali» e di quelle «operative». Filosofia della praxis, il materialismo storico è scienza in quanto filosofia del lavoro, «teoria dell’uomo che lavora» e «conosce operando» (pp. 220, 204, 233).
Denso di teoria, il Discorrendo è anche un testo politico. Labriola torna sulla questione delle previsioni e la sua fiducia nelle prospettive della rivoluzione operaia sembra per la prima volta vacillare. Sullo sfondo dell’«enorme complicazione del mondo attuale», la lotta contro il capitale sarà di lunga lena (la borghesia «non è tanto prossima a tirar le cuoia»): occorre pertanto spegnere gli avventati entusiasmi dei «facitori di strampalate profezie» e richiamare gli animi alle «resistenze del mondo effettuale». Ma se ora (soprattutto nell’edizione del 1902) prevale la cautela («la nostra previsione non può non correre incerta»), resta tuttavia ferma la convinzione che, «parallelamente» allo sviluppo mondiale del capitalismo, il proletariato «via via diventa atto a concentrarsi in partito di classe» e diverrà «prevalente, e poscia predominante politicamente nello stato» (pp. 287, 182, 285). L’oscillazione del giudizio sulla situazione sociale e politica – di cui anche la corrispondenza fornisce ampia documentazione – informa di sé gli ultimi anni di Labriola, ma non tradisce ripensamenti sulle scelte politiche di fondo. È piuttosto una caratteristica del pensiero militante, costretto a dipanarsi sotto il dettato degli avvenimenti.
Complessità della modernizzazione capitalistica e difficoltà di formulare previsioni campeggiano al centro del frammento Da un secolo all’altro, composto a partire dal giugno 1901 e convenzionalmente definito «quarto saggio». Intento di Labriola è scrivere un’opera di argomento storico («una storia materialisticamente raccontata», La concezione materialistica della storia, cit., p. 309) sul modello delle cosiddette «opere storiche» di Marx. E il frammento a suo modo è tale, malgrado le apparenze.
La questione delle «aspettazioni» presenta due versanti. Coinvolge, in generale, il tema del progresso (ha senso parlarne? come si può «misurarlo»?) e chiama in causa, in relazione alla fase storica presente, le conseguenze dei conflitti in atto: «è egli mai possibile di prevedere l’esito dei presenti contrasti?»; in che misura è fondata la «aspettazione del socialismo»? Sono questioni che implicano la comprensione della realtà contemporanea, e tutto il discorso verte in effetti sulla «spiegazione del presente» (sulla ricerca delle sue «caratteristiche»), mirando a
racchiudere in una certa caratteristica complessiva ciò che più volte ho chiamato società moderna, e che più volentieri dirò società attuale, e ossia che è in atto (p. 327).
Storia in che senso, dunque? In quanto storia del presente. O meglio: riflessione filosofico-storica su di esso, essendo la filosofia della storia ricerca dei «principi direttivi» di un’epoca (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 322, 350, 346; Scritti filosofici e politici, cit., p. 799).
L’analisi – posto il «divario» tra tempo cronologico («le tabelle dei cronologisti») e tempo storico («subiettiva misura dei varii processi») – muove da una precisa periodizzazione. Labriola individua nella presa della Bastiglia la nascita della «società attuale», l’evento simbolico che segna il «vertiginoso erompere dell’era liberale». Di quest’epoca – l’ultima e «dispiegata fase dell’evo borghese» – disegna un quadro estremamente complesso e contrastato: non perché segnato da conflitti (che la società moderna poggi su aspre «antitesi» è chiaro sin dal primo saggio), ma perché di questi non è univoca la risultante. In assenza di una «vera cultura popolare», «la compagine interiore delle società» appare «per se stessa piena di contrasti, e di continua sommossa», attraversata da «pronunziate differenze psicologiche», incapace di dar forma alla «umanitaria opinione pubblica, senza della quale la democrazia non può sussistere» (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 329, 341, 322, 337, 326-27).
Dotato di insospettate capacità di resistenza (gli «indici» della quale Labriola ha già richiamato nella lettera a Karl Kautsky del 5 ottobre 1900: «Il permanere della Russia nello stato quo – il russificarsi della Prussia – l’arresto della rivoluzione in Italia – il risorgere del cattolicismo», Carteggio, cit., 5° vol., 2006, p. 174), il capitalismo oppone formidabili ostacoli al progresso sociale: emergono rallentamenti, pause, persino «deplorati arresti»; resistono ostinate «tracce del passato», insuperate zone di arretratezza e di opacità; risorge il misticismo e torna potente il cattolicesimo. In seno alla società proliferano «le caste, i ceti, le consorterie, le combriccole e le camorre», tra varie «specie e forme del canagliume e della mala vita»; sul piano internazionale dominano ineguaglianza e sopraffazione, poiché l’espansione del «mercato mondiale» procura benefici a una parte del mondo (ai Paesi «attivi» e «direttivi»; ai popoli «neo-germani» e «neo-latini»: a guardar bene, la cesura storica che inaugura il mondo contemporaneo «non ha valore per l’universo mondo terraqueo»), esasperando scarti, contrasti, asincronie (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 344, 330, 326-27, 324-25, 336).
È un panorama in apparenza desolato, e altrettanto cupo – segnato dal correre della «reazione» in tutta Europa e dalla «feroce» riscossa dell’irrazionale («l’antistorico, l’antidivenire etc.») (Carteggio, cit., 5° vol., p. 312) – appare a Labriola l’avvio del nuovo secolo. Ma nemmeno in questo quadro manca ai suoi occhi un motivo di speranza. Cifra del contemporaneo è il protagonismo della soggettività e dell’autocoscienza collettiva, il radicarsi nella massa del sentimento del diritto e del proprio ruolo storico. Ne è indizio già la riforma giacobina del calendario (il «bisogno di trovare alla storia le sue proprie date sociologiche» testimonia la percezione di una netta cesura rispetto al passato). Ne è prova soprattutto la metamorfosi dell’idea di progresso, libera ormai da ogni residuo trascendente. Per noi, oggi, il progresso è la coscienza del percorso compiuto e da compiere, nella consapevolezza che il futuro non arriva da sé, che siamo noi – «gli uomini stessi» – a produrlo. Non è più un mito escatologico, ma la limpida metafora di una ferma volontà di riscatto nella quale la «certezza dell’aver progredito, l’aspettazione del progredire e la necessità del dover progredire» hanno insieme dato vita a una «persuasione che ha sicurtà di fede». La stessa «aspettazione del socialismo» appare dunque storicamente fondata. Nella «certezza» del progresso «s’impernia un nuovo, più profondo e più ampio senso di comunanza umana» che «in molti» radica l’«etica del socialismo», a sua volta incentrata sul «postulato della solidarietà». A dispetto delle apparenze, con l’avanzare della modernità si consolida «la filosofia del socialismo», antitetica all’«assioma della concorrenza» (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 341, 286, 328, 345). L’esperienza degli ultimi due secoli sfida ma non distrugge le speranze nell’avvento di una «nuova società».
È l’immagine di Labriola, in limine vitae: più di prima pensoso, cosciente della difficoltà dell’intrapresa rivoluzionaria, talvolta incerto, mai rinunciatario. Dalla filosofia della storia del marxismo del tempo (gli anni della Seconda Internazionale) Labriola non prende le distanze, come dimostra un atteggiamento verso il colonialismo (fiducia nel suo ruolo civilizzatore e convincimento che l’Italia non possa «sottrarsi» a una «gara conquistatrice, che è sempre legittima là dove non sono nazionalità vitali», Scritti politici 1866-1904, cit., pp. 492 e 433) per noi del tutto irricevibile. Nondimeno, la spregiudicatezza, lo spirito critico, l’insofferenza verso ogni ortodossia compongono la cifra del suo «temperamento intellettuale». Se si rifiuta sdegnosamente di partecipare alla discussione sulla «crisi del marxismo», non è per conformismo (dapprincipio elogia il contributo di Eduard Bernstein), ma per la persuasione – non infondata – che quel dibattito, mosso da ragioni politiche, miri a far arretrare il movimento socialista del quale, sino all’ultimo giorno, si considera un militante. Intellettuale e politico. Nel novembre del 1896, parlando dinanzi ai colleghi dei compiti dell’università, li colpisce ricordando che anche il loro lavoro si fonda, «come tutti gli altri», «sull’esercizio della cooperazione sociale»; e li provoca, li attacca per la tradizionale «incuria» nei confronti dell’«interesse collettivo» (Scritti politici 1866-1904, cit., pp. 404 e 394). Da intellettuale e da politico. Intollerante di un’erudizione fine a se stessa nella quale scorge un viatico per l’irresponsabilità.
Scritti varii, editi ed inediti, di filosofia e politica, a cura di B. Croce, Bari 1906.
Saggi intorno alla concezione materialistica della storia, IV. Da un secolo all’altro. Considerazioni, retrospettive e presagi, ricostruzione di L. Dal Pane, Bologna 1925 (l’ed. critica del testo – che ne modifica radicalmente la lezione – vedrà la luce, a cura di S. Miccolis, A. Savorelli, nell’11° vol. dell’Edizione nazionale di cui si fa cenno poco sotto).
La concezione materialistica della storia, con un’aggiunta di B. Croce sulla critica del marxismo in Italia dal 1895 al 1900, Bari 1938.
Opere, a cura di L. Dal Pane, 3 voll., Milano 1959-1962 (1° vol., Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza (1862-1868), 1959; 2° vol., La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele (1871), 1961; 3° vol., Ricerche sul problema della libertà e altri scritti di filosofia e di pedagogia (1870-1883), 1962).
Scritti di pedagogia e di politica scolastica, a cura di D. Bertoni Jovine, Roma 1961.
Scritti politici 1866-1904, a cura di V. Gerratana, Bari 1970.
La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Bari 1971.
Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, 2 tt., Torino 1973.
Scritti liberali, a cura di N. Siciliani de Cumis, Bari 1981.
Carteggio [1861-1904], a cura di S. Miccolis, 5 voll., Napoli 2000-2006.
Nel 2007 è stata varata l’Edizione nazionale delle opere di Antonio Labriola (12 voll. in 18 tomi). Materiali preparatori per l’edizione sono pubblicati nei «Quaderni» (2009 e segg.).
C. Luporini, Il marxismo e la cultura italiana del Novecento, in Storia d’Italia, diretta da G. Romano, C. Vivanti, 5° vol., I documenti, Torino 1973, pp. 1583-1611.
L. Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino 1975.
E. Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani 1875-1895, Milano 1976, pp. 281-356.
S. Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo italiano, Milano 1978.
V. Gerratana, Antonio Labriola e l’introduzione del marxismo in Italia, in Storia del marxismo, 2° vol., Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Torino 1979, pp. 619-57.
M. Ciliberto, Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari 1982, pp. 33-100.
E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’unità, Bari 1983, pp. 91-175.
B. Centi, Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Bari 1984.
Labriola d’un siècle à l’autre, Actes du colloque international, Paris (28-30 mai 1985), éd. G. Labica, J. Texier, Paris 1988.
Antonio Labriola nella cultura europea dell’Ottocento, Atti del Convegno, Pisa (7-9 novembre 1985), a cura di F. Sbarberi, Roma 1988.
Antonio Labriola filosofo e politico, Atti del Convegno, Cassino-Napoli (6-9 ottobre 1993), a cura di L. Punzo, Milano 1996.
R. Zangheri, Storia del socialismo italiano, 2° vol., Dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani, Torino 1997, pp. 289-368.
S. Miccolis, Labriola Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 62° vol., Roma 2004, ad vocem.
G. Cacciatore, Antonio Labriola in un altro secolo. Saggi, Soveria Mannelli 2005.
Antonio Labriola e la nascita del marxismo in Italia, Atti del Convegno, Milano 2004, Milano 2005.
Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, Atti del Convegno internazionale, Bologna 2004, a cura di A. Burgio, Macerata 2005.
Antonio Labriola. Celebrazioni del centenario della morte, Atti del Convegno, Cassino 2004, a cura di L. Punzo, 3 voll., Cassino 2006.
S. Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica, a cura di S. Miccolis, A. Savorelli, Milano 2010.