MEZZABARBA, Antonio Isidoro
MEZZABARBA, Antonio Isidoro. – Nacque a Venezia tra il 1485 e il 1490, da Lorenzo, orafo, di origini pavesi, e Andriana, come risulta dal testamento redatto il 1° ott. 1514 dal notaio Nicolò Moravio (Corbellini, p. 16).
Non risultano documenti ufficiali da cui sia possibile ricavare con certezza il nome di battesimo del M., ma nella sottoscrizione autografa del codice marciano Mss. it., cl. IX, 191 (=6754), si trova la dicitura «Antonio Isidoro». Per Zeno (in Fontanini) il M. era nato a Venezia, mentre sia Quadrio sia Argelati lo ritenevano milanese ed emigrato nella città lagunare solo in un secondo momento. Ma è lo stesso M., nel sonetto Re de gli Insubri, che il paese loro, a suggerire un’origine veneziana, là dove scrive di esser nato «ne l’onde salse» (v. 14). La famiglia risulta insediata a Pavia con certezza a partire dall’XI secolo. Il ramo veneto è documentato dalla prima metà del secolo XV a Padova e a Venezia, dove aveva consolidato le proprie attività, entrando a far parte della borghesia mercantile. Un documento del 14 maggio 1465 (Arch. di Stato di Venezia, Senato, Terra, Speciales personae, ad annum) ricorda un Taddeo Mezzabarba, o Mazabarba, testimone di un delitto commesso a Padova.
Avviato dal padre agli studi giuridici, a partire dal 1505-06 il M. frequentò l’Università di Perugia e divenne dottore utriusque iuris il 14 genn. 1513, se si considera come data della laurea quella rinvenuta nel ms. 959, c. 69v, della Biblioteca comunale della stessa città, dove «Antonius Media barba Venetus» si trova iscritto tra i citramontani innominati (Corbellini, p. 23). Questi furono anche gli anni in cui il M. compì il proprio apprendistato poetico, alternando agli studi, portati avanti malvolentieri, la composizione di liriche ispirate a un gusto neoplatonico e petrarchesco che aveva a modello gli Asolani di Pietro Bembo, pubblicati nel 1505. Anche il letterato bellunese Giovanni Pietro Dalle Fosse (Pierio Valeriano), indirizzandosi nel 1506 all’amico con il carme intitolato Ant. Meribarbum ad Musas revocat, lo esortava a non trascurare la poesia nonostante il peso dei «damnosa volumina Legum» (Hexametri, odae et epigrammata, Venetiis 1550, c. 129r). L’impegno poetico di questi anni si concretizzò nella compilazione dell’importante silloge di poeti stilnovisti e trecenteschi, conclusa nel 1509 e conservata nell’attuale codice della Biblioteca nazionale Marciana, Mss. it., cl. IX, 191 (=6754).
Il codice, autografo, appartenuto ad A. Zeno, contiene una raccolta divisa in sezioni per autore e reca la seguente sottoscrizione: «Io Antonio Isidoro Mezzabarba Veneto de l’una et de l’altra legge minimo de i scolari ho scritto tutto questo libbro di mia propria mano, nulla mutando overo aggiungendo di quello, che io in antiquissimi libbri trovai scritto. Ad laudem Dei et gloriosae Virginis etc. MDIX del mese di Maggio» (in Barbi, 1912). Gli antichi codici cui fa riferimento il M. non furono in realtà molti, come ha dimostrato Barbi sostenendo che il manoscritto, comprese le postille marginali, venne compilato sulla scorta di una precedente raccolta. In effetti, il codice marciano risulta essere strettamente imparentato con il capostipite della cosiddetta «tradizione veneziana», il codice e.III.23 della Real Biblioteca di San Lorenzo de El Escorial (Leonardi, pp. 46 s.). Oltre a componimenti di poeti stilnovisti, il M. trascrisse anche liriche di Dante, tra cui la ballata In abito di saggia messaggiera, qui correttamente attribuita, e frammenti di Petrarca. Di particolare interesse a questo proposito sono i riferimenti a c. 134v, «Gli 7 seguenti sonetti, come di sotto si vedono, sono sta[ti] essemplati dal exemplare del Petrarcha», e a c. 136v, dove il M. dichiara di aver trascritto la lettera a Leonardo Beccanugi (l’unica epistola in volgare di Petrarca, tramandata dalla sola tradizione veneta) «dallo scritto di mano medesima» del poeta. Non è improbabile che il M. potesse vedere a Venezia, oltre al codice degli abbozzi (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 3196) posseduto da Bembo, altri frammenti autografi petrarcheschi contenenti rime estravaganti e la succitata epistola in volgare, di proprietà di Trifone Gabriele (Gori, p. 142), oggi perduti ma ancora in circolazione agli inizi del Cinquecento.
A Perugia il M. conobbe personaggi di rilievo nell’ambiente culturale dell’epoca, quali l’architetto Giovan Battista Caporali e Lelio Torelli, ma soprattutto strinse una duratura amicizia con il giovane Pietro Aretino, che si sarebbe rinsaldata con l’arrivo a Venezia di quest’ultimo nel 1527. Dopo il conseguimento del dottorato trascorse un breve periodo in Istria, ospite di Girolamo Muzio. In una lettera scritta nel 1518 ad Aurelio Vergerio, Muzio ricorda come in quella circostanza il M. gli avesse parlato dei lavori di Pietro Bembo e di Giovanni Aurelio Augurelli, «i quali […] facevano gran studio intorno alle regole di questa lingua» (Borsetto): da questi studi sarebbero derivate le Prose della volgar lingua di Bembo. Già prima del 1513, pertanto, il M. risulta essere perfettamente inserito all’interno del cenacolo petrarchista che ruotava a Venezia intorno alla figura autorevole di Bembo e che annoverava tra i suoi frequentatori umanisti come Trifone Gabriele, Nicolò Dolfin e Domenico Venier.
La rete di relazioni che è possibile ricostruire attraverso le dediche di alcuni componimenti poetici e i carteggi con altri umanisti è di alto livello e ci consente di stabilire come il M. fosse in contatto con gli ingegni più in vista del suo tempo, nonché con figure di spicco del patriziato non solo veneziano. A Girolamo Verità dedicò il sonetto Non verità del Verità lo affetto; nel 1526 si rivolgeva ad Agostino Beaziano con Tosto si struggerà la neve e ’l gelo; in occasione della scomparsa dell’amato Nicolò Dolfin scrisse infine Debbi tu, Morte, in fior stender a terra. Ma molti altri nomi figurano nel corpus poetico del M.: Alvise e Federico Foscari, papa Leone X, Cesare Fregoso, il pittore Paris Bordone.
Fin dagli esordi la vocazione poetica del M. fu ostacolata dalla necessità di dedicarsi all’attività di giurisperito, svolta in varie città del Veneto. In più occasioni il M. si lamentò della sua condizione: in una lettera datata 14 febbr. 1535 scriveva ad Aretino di non provare interesse per il proprio lavoro e che sperava di potersi «sollevare ad impresa che lodevole sia» (in Lettere scritte a Pietro Aretino, p. 236). A sua volta, Aretino ricordava nella commedia Il Marescalco «il buon Antonio Mezzabarba, le cui leggi hanno fatto gran torto a le muse» (p. 76), e in un’epistola del settembre 1548 scriveva: «So che ogni vostro essercitarvi più in le leggi che ne le poesie è causato da quella povertà che noi consuma nel modo che altri conforta la ricchezza» (Lettere, V, p. 69).
In qualità di rappresentante della Repubblica di Venezia, il M. si trovò a svolgere l’ufficio di assessore, con il compito di seguire i procedimenti giudiziari, in alcuni dei principali centri del dominio in Terraferma. Nei bienni 1526-27 e 1535-36 fu a Padova, membro della corte pretoria, prima sotto il podestà Pandolfo Morosini e poi sotto Pietro Zeno; nel 1530-31 si trasferì, con la stessa carica, a Verona, dal podestà suo amico Alvise Foscari; nel 1540, infine, ricoprì l’ufficio di vicario del podestà a Belluno (cfr. Piloni). Nonostante la vicinanza agli ambienti nobili e legati alla gestione del potere, il M. non godette mai di una particolare protezione e la sua vita non fu affatto agiata né priva di problemi. Forse solo l’amicizia con Bembo gli procurò qualche vantaggio, anche se sappiamo che quest’ultimo nel 1546, dopo averlo ospitato nell’abitazione di Padova, gli comunicò senza alcun preavviso lo sfratto dalla stanza che gli aveva riservato, benché vedesse «il poverino in bisogno» (Bembo, Lettere, IV, p. 591).
Quando nel 1534 Aretino divenne collaboratore stabile dello stampatore F. Marcolini, anche il M. fu attirato nel mondo dell’editoria. Conobbe e frequentò il circolo di letterati trasgressivi sorto intorno all’editore, avvicinandosi a un modo di fare poesia opposto a quello algido ed elevato fino ad allora frequentato per il tramite del petrarchismo veneziano. Nel 1536 Marcolini pubblicò il volume in 4° delle Rime, primo vero momento di sintesi dell’opera poetica del Mezzabarba.
Complessivamente, il corpus poetico del M. consta di 173 componimenti, molti dei quali presenti nei testimoni in duplice e talvolta triplice redazione. Oltre alla raccolta marcoliniana, poesie del M. risultano pubblicate a stampa in altre due antologie: le Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti, in Venetia, appresso G. Giolito de’ Ferrarii, 1547, cc. 67r-71r, e Delle rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti, ibid. 1548. Altre liriche si trovano manoscritte nei seguenti codici (Gori, pp. 139 s.): Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. IX, 174 (=6283), c. 172r; 203 (=6757), cc. 75r-79v; 300 (=6649), cc. 82r-83r; cl. XI, 66 (=6730), cc. 235r, 274r, 305r, 328r; Biblioteca apost. Vaticana, Chig., M.IV.78, cc. 100r-117r; Vat. lat., 9292, c. 74r. Le Rime del M. vennero pubblicate da Marcolini senza il pieno consenso dell’autore – «certo contro il suo volere, perché più che poteva, come ogn’uno sa, le andava nascondendo», si legge nella prefazione (cfr. Casali, p. 14) –, che si rifiutava di farle conoscere al di fuori della ristretta cerchia degli amici, forse per il carattere lascivo di alcuni versi giovanili. La struttura dell’opera non è infatti articolata in forma di canzoniere tradizionale, né tantomeno segue una cronologia: se si eccettua la macrodivisione in versi d’amore ed encomiastici da un lato, e poesie religiose e pentimento dall’altro, l’unico criterio seguito dall’editore fu quello di raggruppare i componimenti sulla base di affinità stilistiche e contenutistiche intorno ad alcuni nuclei tematici (le prime otto poesie convergono sul tema del canto e del suono, altre ruotano intorno a quello dello sguardo, dell’orgoglio e così via). Tre figure femminili dominano la produzione poetica del M.: la Morula, destinataria dei suoi versi giovanili, tipica donna petrarchesca, ritrosa e crudele, cantata sotto il senhal del Moro (cioè del gelso); Laura, una passione di passaggio schiacciata in ultimo dal ricordo della Morula; e infine Lietta, in cui trova sbocco un amore passionale e ricambiato, carico di sensualità, come nella canzone Quel che mi avenne Amor vol pur ch’io dica, in cui il poeta si spinge fino a toccare «il delicato et saldo fianco / e il petto giovenile, / che duo sodetti pomi spingea fuori» (vv. 30-32). Un’analisi attenta delle fonti e dei modelli che stanno dietro al corpus del M. ha fatto parlare a proposito delle sue poesie di un «bembismo imperfetto» (Gori, p. 153), in cui il magistero di Petrarca si fonde con quello dei classici latini e greci (a volte tradotti quasi alla lettera), richiamando al contempo i poeti quattrocenteschi e, per gli accenti di vivo realismo presenti soprattutto nelle canzoni narrative e nei capitoli ternari, lo stesso Dante. La collaborazione con lo stampatore forlivese terminò con la raccolta del 1536, mentre proseguirono i rapporti con Aretino. Le ultime poesie, pubblicate nelle due sillogi di Giolito, sono di tono più dimesso, forse per l’influenza esercitata da Trifone Gabriele. Nel 1548, ospite nel castello dei Venier a Sanguineto, il M. scriveva all’editore, ringraziandolo per la cura e l’attenzione usata nei confronti del suo lavoro letterario.
Le ultime notizie relative al M. risalgono al 1564, anno in cui venne proposto come possibile arbitro in una vertenza giudiziaria che vedeva opposti il Comune di Badia Polesine, in provincia di Rovigo, e i conti Contrarii di Ferrara (Corbellini, p. 98 n. 3). Si ignorano il luogo e la data di morte.
Fonti e Bibl.: B. Pino, Della nuova scielta di lettere di diversi nobilissimi huomini, et eccell.mi ingegni, scritte in diverse materie, fatta da tutti i libri fin’hora stampati, II, Venetia 1574, pp. 341, 537; F. Sansovino, Venetia nobilissima et singolare, descritta in XIII libri, Venetia 1581, c. 270v; P. Aretino, Il Marescalco, in Id., Teatro, a cura di G. Petrocchi, Milano 1971, p. 76; P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, III, Bologna 1992, pp. 184 s., 603; IV, ibid. 1993, pp. 586, 591; P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, IV, Roma 2000, p. 406; V, ibid. 2001, pp. 41, 64, 69, 105 s.; VI, ibid. 2002, p. 50; Lettere scritte a Pietro Aretino, a cura di P. Procaccioli, I, Roma 2003, p. 236; G. Piloni, Historia di Belluno, Venezia 1607, p. 60; F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia volumi quattro, II, 1, Milano 1741, p. 230; F. Argelati, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium…, Mediolani 1745, II, col. 1881 n. 2197; G. Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza italiana… con le annotazioni del signor Apostolo Zeno, II, Venezia 1753, p. 3; G. Robolini, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, IV, 2, Pavia 1832, p. 185; S. Casali, Annali della tipografia veneziana di Francesco Marcolini da Forlì, Forlì 1861, pp. 13-17; L. Pizzo, La Vita Nuova di Dante Alighieri, Venezia 1865, pp. XIII, 137 s.; R. Fulin, Petrarca a Venezia, Venezia 1874, pp. 62-64; A. Medin, Il culto del Petrarca nel Veneto fino alla dittatura del Bembo, in Nuovo Archivio veneto, n.s., VIII (1904), pp. 421-465; M. Barbi, Per una ballata da restituirsi a Dante, 2, Il cod. Marc. it. IX, 191, in Bullettino della Società dantesca, XIX (1912), pp. 6 s.; C. Frati, A.I. M. e il cod. Marciano ital. IX, 203, in Nuovo Archivio veneto, n.s., XXIII (1912), pp. 189-199; A. Corbellini, Di un rimatore pavese-veneziano del secolo XVI (A.I. M.): contributo allo studio del petrarchismo e del sensualismo nel Cinquecento, Pavia 1913; M. Barbi, Studi sul canzoniere di Dante, con nuove indagini sulle raccolte manoscritte e a stampa di antiche rime italiane, Firenze 1915, p. 10; L. Borsetto, Lettere inedite di Girolamo Muzio tratte dal codice Riccardiano 2115, in La Rassegna della letteratura italiana, XCIV (1990), pp. 119 s.; M. Gori, Profilo di A.I. M., in Studi italiani, XII (2000), pp. 139-170; L. Leonardi, La poesia delle origini e del Duecento, in Storia della letteratura italiana, X, La tradizione dei testi, Roma 2001, p. 47.
D. Pattini