GUADAGNOLI, Antonio
Nacque ad Arezzo il 15 dic. 1798 da Pietro e da Agnese Albergotti.
Il padre, appartenente a una famiglia impoverita della piccola nobiltà e noto per aver scritto poesie in italiano e latino, aveva insegnato eloquenza nelle scuole di S. Ignazio ad Arezzo, poi nella scuola del seminario vescovile della stessa città e si era cimentato in quasi tutti i generi della letteratura arcadica, dal pastorale al bernesco, quest'ultimo da lui tanto coltivato da fargli progettare nel 1814 la pubblicazione di una trentina di volumi di poemi burleschi italiani, rari o inediti.
Questo gusto bernesco, che aveva ispirato al padre un capitolo In lode dei pidocchi, non fu senza influenza sul giovane G., che, intanto, per poter studiare, date le condizioni economiche della famiglia, dovette frequentare dal 1810 al 1816 lo stesso seminario vescovile in cui insegnava il padre. In quegli anni cominciò a scrivere componimenti d'occasione o indovinelli in versi senza pretese, svolti "a penna corrente".
Nel 1816 declamò, presso l'Accademia aretina di scienze, lettere e arti, un sonetto in onore del valdarnese L. Pignotti, storiografo nonché autore di poemetti eroicomici e di favole, ricchi di arguzie e di spirito satirico. Seguì, nel 1817, una canzone dedicata Ad Arezzo. Grazie a un posto gratuito nel collegio della Sapienza, a Pisa, il G. poté poi iscriversi ai corsi di giurisprudenza e ottenervi nel 1822 la laurea dottorale in utroque iure. Il soggiorno pisano, sia da studente, sia poi come maestro di umanità nelle scuole comunali di S. Michele in Borgo, lo mise in condizione di vivere a contatto con ambienti intellettuali più aperti e di conoscere uomini come G. Giusti, V. Salvagnoli, F.D. Guerrazzi e il professore aretino C. Pigli, docente all'Università pisana, allora centro di diffusione di idee liberali, patriottiche e sociali.
Per la verità il G. frequentava sia le vecchie accademie, come quella arcadica degli Alfei, sia i salotti alla moda: appunto nel salotto di madama Mason (nome assunto da lady Margaret King contessa di Mountcashell) lo incontrò G. Leopardi, lasciandocene il ritratto aspro e ingeneroso di un giovane "recitante in mia presenza all'Accademia de' Lunatici in Pisa, presso madama Mason, le sue Sestine burlesche sopra la propria vita, accompagnando il ridicolo dello stile e del soggetto con quello dei gesti della recitazione"; anche Leopardi, tuttavia, non poté fare a meno di riconoscere nell'aretino dal lungo naso e dal volto arguto "un riso sincero e […] una perfetta gaieté de coeur" (Zibaldone, 3 dic. 1828, ed. a cura di F. Flora, II, Milano 1961, pp. 1234 s.).
Alla morte del padre (1823), il G. scoprì che il patrimonio familiare era in pieno dissesto. Non gli restò altro da fare che trovare subito una professione retribuita, quella, appunto, di insegnante nelle scuole pubbliche, divertendosi "nelle ore di ozio a scrivere per passatempo e a stampare per necessità" (Diamilla Muller, p. 180).
Nel 1822, "con un esordio che ci ricorda l'uso di molti novellatori e poeti narrativi" (Baldacci, p. 866 n.), aveva conseguito un grande successo pubblicando un poemetto, Il naso, in cui, rivolgendosi alle donne, il "poeta nobile spiantato", sulle orme della più consumata tradizione burlesca, si sbizzarriva in un crescendo di invenzioni maliziose sul naso-fallo (cfr. Zago, p. 49).
La Toscana, legata alla tradizione classica, ricca di umori satirici, aveva in F. Berni il suo modello canonico: nel rifarsi a lui il G. sollecitava il riso con "versi che parranno prosa" e la cui spontaneità non era, però, frutto di un improvvisazione estemporanea. Sebbene dichiarasse di concepire la poesia come attività marginale, "passatempo", diletto e intrattenimento, il G. attingeva ai modelli antichi attraverso un'attenta elaborazione formale e una ricerca dei giochi di parole à double entendre, a volte sorprendenti per estro, quanto altre volte per superficialità e prolissità. I momenti più felici sono quelli in cui la critica del costume si carica di "una causticità aggressiva quasi epigrammatica" (ibid., p. 44).
Il favore con cui Il naso fu accolto dal pubblico convinse il G. a proseguire sulla strada intrapresa. Compose, infatti, sempre in sestine di endecasillabi, La visione, ossia La coda del naso, che ebbe pure fortuna, e poi nel 1823 La ciarla; nel 1824 Il color di moda, ossia L'aria sentimentale, in cui raccontava la storiella del marchese dal viso rosso-peperone sconfitto in amore dai visi pallidi, indizio nella moda romantica di "persona galante e cor sensibile". La critica alla società e alla moda del tempo continuò con I baffi (1826) e, soprattutto, con Le origini della Befana e con La rottura del cristallo, per l'abilità con cui il G. maneggiava il doppio senso e sapeva tratteggiare felici bozzetti, situazioni e personaggi. Come asserì G. Giusti a proposito di questa sua facilità di scrivere e di inventare, il G. aveva "nella testa la lanterna magica delle bizzarrie" (G. Giusti, Epistolario, I, Firenze 1931, p. 218).
Con la novella in versi La lingua di una donna alla prova (1832) nella poesia del G. comparvero la vena popolare e l'apertura sincera verso le classi umili, e ciò senza gli intenti pedagogici tipici della cultura paternalistica e filomezzadrile dei moderati toscani, ma con affondi realistici nella situazione sociale del tempo. Iniziò, del resto, proprio nel 1832 la composizione delle prefazioni in sesta rima per il più popolare e diffuso fra gli almanacchi e i lunari toscani, il lunario popolare Sesto Caio Baccelli, edito a Firenze da G. Formigli (che nel 1853 prese il nome di Settimo Caio Baccelli). Da allora fino al 1857 il G. non smise mai di collaborare al periodico, guadagnandosi una grande popolarità, che giovò forse non poco alla diffusione del lunario rispetto al concorrente Nipote del Sesto Caio Baccelli, che il gruppo degli amici di G.P. Vieusseux pubblicò nel 1833 in opposizione al poco educativo Sesto Caio Baccelli. In realtà, nelle prefazioni in sesta rima del G., dedicate ora al Colera morbus, ora al Progresso, ora al Moralismo, ora alla Cecità, ora all'Età dell'oro, ora all'Infreddatura, si realizza la maturazione del poeta nell'accostarsi al popolo e alla realtà sociale, con il suo carico di ingiustizie e di miserie.
Naturalmente, nel suo modo di guardare al progresso anche il G. risente di una certa ottica convenzionale e moralistica, oppure di una sorta di richiamo permanente alla saggezza atavica dei contadini e della "terza classe", artigianato, piccoli commercianti, sarti, osti, bottegai, ai quali si sente vicino anche per le sue non felici condizioni economiche.
L'insegnamento, "le stampe, le lezioni private ai forestieri", uniti alla commenda dell'Ordine dei cavalieri di S. Stefano, conferitagli nel 1827 da Leopoldo II, gli davano quel tanto di cui vivere con la sola madre. Al granduca, così, era legato sia per l'assegno annuo di 60 scudi della commenda, sia per la privativa delle sue pubblicazioni ottenuta fin dal 1825, tanto da dedicare proprio al "toscano Morfeo" l'epistola A Leopoldo II auguri di felicitazioni per l'anno 1826. Nel 1843, morta la madre, il G. ritornò ad Arezzo, per insegnare retorica ed eloquenza nel liceo S. Ignazio. Finalmente nel 1847 ricevette in eredità una consistente fattoria presso Cortona (dieci anni dopo incrementò la sua ricchezza con un'altra eredità). Questa inaspettata fortuna gli consentì di abbandonare l'insegnamento e di mettersi in casa una donna di servizio, Carolina Bartoli, attempata e autoritaria, ma con la quale stabilì un rapporto affettivo, che durò fino alla sua morte. In quegli anni il G. aveva progressivamente abbandonato la produzione giocosa per dedicarsi prevalentemente alle sestine per il Sesto Caio Baccelli.
Ormai era famoso non solo nei salotti e fra le persone colte, ma fra "vetturini e bottegai, facchini e campagnoli", che conoscevano a memoria i suoi versi. Muovendosi tra chiacchiera divertente e ironia, passava dalla critica del costume a quella delle istituzioni e dell'amministrazione, dai birri ai giudici, dai preti in generale ai gesuiti, fino a toccare temi sociali e patriottici (Il tabacco, 1834). Nel 1836, subì un processo e una multa per non aver tenuto conto delle modifiche preventive richieste dalla censura nel pubblicare La luna. Tre anni dopo, le allusioni patriottiche gli crearono difficoltà nella pubblicazione de Il campanile di Pisa. Sempre per il timore della censura pubblicò soltanto nel 1850 L'assiderata giovane di Svezia, che pure, come ha chiarito A. De Rubertis, aveva scritto nel 1843 (cfr. A. G., Poesie, con introduz. e note di A. De Rubertis, Firenze 1929, p. 407).
Nel 1842 i censori, allarmati dal grande successo de La cecità, disposero l'immediato sequestro del lunario, destando l'ironia di Giusti (Epistolario, cit., I, p. 481). Come scriveva il commissario preposto, non si poteva tollerare, specialmente in una pubblicazione destinata alla "classe più infima del popolo", il "dileggio delle regie amministrazioni, delle costituite autorità e di una pubblica forza di polizia" (De Rubertis, 1923, pp. 67 s.).
Naturalmente anche il G. fu contagiato dall'ondata patriottica del 1847-49: nel luglio 1847 si impegnò nell'organizzare la guardia civica e nella militanza nel circolo politico di Arezzo, presieduto dal suo amico L. Romanelli. Divenne "deputato aggiunto" alle scuole aretine nel 1848 e poi "effettivo" nel 1850 in sostituzione di Pigli. Nel gennaio 1849 assunse su richiesta del prefetto di Arezzo, G. Alberti, la carica di gonfaloniere e, sebbene avesse accettato di mala voglia, ricoprì l'incarico con dignità e con il patriottismo che aveva ispirato le sue poesie civili (Al pianto d'Italia e Il nome di patria. Canzon in metro libero imitata da un canto greco moderno) e alcune prefazioni per il Sesto Caio Baccelli, come Il falegname, del 1849.
Quando, il 12 apr. 1849, il dittatore Guerrazzi fu rovesciato e il Municipio di Firenze assunse il potere in nome di Leopoldo II e dello statuto, il G. ne imitò l'esempio associando al Municipio aretino una commissione di notabili della città. La preoccupazione di contenere le intemperanze dei democratici e di evitare che i disordini aprissero la strada alla reazione più illiberale, ma forse anche le pressioni del prefetto G. Fineschi, "un gran forcaiolo", lo spinsero a chiudere le porte della città in faccia a G. Garibaldi, reduce dalla difesa della Repubblica Romana (Zago, p. 181 e n. 85).
Il G. mantenne l'incarico di gonfaloniere anche durante la successiva restaurazione, stigmatizzando il vizio del trasformismo e del salto sul carro dei vincitori, con un'ironia amara e un virtuosismo metrico che distinguono la sua produzione poetica da quella del suo precursore F. Pananti, accostandola piuttosto alla poesia satirica di Giusti. Essendo diventato un ricco redditiere non mancò di promuovere o di appoggiare iniziative benefiche ed educative. Nel 1855 diresse e aiutò la Confraternita della Misericordia di Cortona, mentre imperversava l'epidemia di colera. Sempre a Cortona istituì la scuola serale per gli artigiani e una società per fabbricare tessuti, ma anche ad Arezzo incoraggiò iniziative scolastiche. Restava sempre un acuto critico dei costumi e un sincero liberale, come dimostrano le sestine del 1850 e del 1851 nel Sesto Caio Baccelli: Una spia e Il Baccelli zoppo. Fino alle ultime prefazioni al Sesto Caio Baccelli - I grulli (1856), Il baco celebrale (1857) e l'ultima del 1858, senza titolo -, continuò a colpire con il suo sarcasmo la decadenza dei costumi e le coscienze assopite degli Italiani: "Quando un popolo si diverte, in questi tempi […] - scrisse nei Grulli - o è fanciullo, o ha gran filosofia".
Il G. morì a Cortona il 14 febbr. 1858.
Opere: Tra le principali edizioni, oltre a quella già citata delle Poesie a cura di A. De Rubertis, si ricordano le seguenti raccolte: Poesie giocose con aggiunte e correzioni fattevi dall'autore, Pisa 1830; Poesie inedite, Milano 1861; Raccolta completa delle poesie giocose edite ed inedite, Firenze 1865, 1872, 1880; Poesie giocose, con biografia e note di P. Gori, ibid. 1885.
Fonti e Bibl.: I. Cantù, A. G. e A.M. Ricci. Biografie, Milano 1845; D. Diamilla Muller, Biografie autografe ed inedite di illustri italiani di questo secolo, Torino 1853, pp. 180 s.; M. Ricci, Il G., ovvero Dei volgari epitaffi, Firenze 1864; P. Gori, Bibl. delle opere poetiche del dott. A. G., Firenze 1885; G. Sforza, Il poeta A. G. uomo politico, in Riv. stor. del Risorgimento italiano, II (1897), pp. 963-969; G. Stiavelli, A. G. e la Toscana dei suoi tempi, Torino-Roma 1907 (recens. di L. Fassò, in Giornale stor. della letteratura italiana, LII [1908], pp. 401-414); G. Brunacci, Il liberalismo di A. G. ed alcune lettere inedite, Cortona 1909; U. Viviani, I Guadagnoli poeti aretini, Arezzo 1921; A. De Rubertis, Nuove ricerche sui poeti aretini Baldassarre, Pietro e Antonio Guadagnoli, con lettere e poesie ined. raccolte da U. Viviani, Arezzo 1923; Id., Documenti pisani sulla vita e sulle opere di A. G., in La Rassegna, LXVIII (1940), pp. 89-110; G. Bucci, A. G. nel centenario della morte, in Atti e memorie dell'Accademia Petrarca di Arezzo, III (1958-64), pp. 1-21; E. Allodoli, A. G. nel centenario della morte, in Nuova Antologia, maggio 1958, n. 473, pp. 118-125; L. Baldacci, A. G., in Poeti minori dell'Ottocento, a cura di L. Baldacci - G. Innamorati, II, Milano-Napoli 1963, pp. 681-750; L. Felici, La satira e il Giusti, in Storia della letteratura italiana (Garzanti), VII, L'Ottocento, Milano 1969, pp. 1046, 1074-1078, 1084, 1086, 1096, 1104; S. Camerani, Il Granducato di Toscana, in Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, II, Firenze 1972, p. 160; O. Vito, A. G., Arezzo 1972; N. Mineo, A. G., o della contraddizione piccolo borghese, in Id., Letterati e politica tra rivoluzione e Risorgimento, Catania 1974, pp. 151-170; Id., A. G., in Letteratura italiana. Storia e testi (Laterza), Bari 1975, VII, 2, Il primo Ottocento, pp. 168-174; N. Zago, Un poeta della "Toscanina": A. G., Palermo 1981; F. Portinari, G. Giusti e la poesia comico-realistica, in Storia della civiltà letteraria italiana (UTET), IV, Il Settecento e il primo Ottocento, Torino 1992, pp. 434 s.; M. Curreli, Una certa signora Mason. Romantici inglesi a Pisa ai tempi di Leopardi, Pisa 1997, ad ind.; G. Nuvoli, G. Giusti e la poesia satirica del primo Ottocento, in Storia generale della letteratura italiana (Motta), VIII, L'Italia romantica. Il primo Ottocento, Milano 1999, pp. 612-616.