GRIMALDI, Antonio
Impossibile indicare la sua data di nascita, comunque collocabile verso la fine del XIII secolo, forse a Nizza (luogo di rifugio per molti della sua famiglia), o piuttosto a Stella, castello dell'Appennino savonese che i Grimaldi (e più in particolare il bisavolo Luca) avevano acquistato intorno alla metà del secolo. Le fonti sembrano comunque concordi nell'indicarlo quale figlio di Gaspare, capitano del Popolo di Genova nel 1317-18, anche se alcuni gli danno come padre il fratello di questo, Raffaele. Come per altri Grimaldi del tempo le notizie su di lui sono avare e confuse. La sua identificazione presenta infatti non poche difficoltà, data la presenza contemporanea di alcuni suoi omonimi.
Nulla si sa dei suoi anni giovanili, ma come molti nobili genovesi egli alternò la pratica della mercatura con l'esercizio delle armi, guadagnandosi ben presto la fama di esperto capitano nel corso delle lotte intestine che sconvolgevano cronicamente la vita pubblica genovese.
Esse si erano intensificate dopo che, nel 1318, la signoria della città era stata data, con il determinante contributo dei Grimaldi, al re di Napoli, Roberto d'Angiò. I ghibellini espulsi dalla città si erano rifugiati a Savona da dove, grazie all'aiuto dei signori feudali della Riviera di Ponente, avevano mosso una guerra senza quartiere ai guelfi, impadronendosi di molte località costiere e avvicinandosi più volte a Genova. Nel 1322, grazie all'invio da parte del re Federico d'Aragona di una flotta di 17 galee siciliane, i ghibellini posero l'assedio a Portovenere la cui posizione, sulla rotta tra Genova e Napoli, era di vitale importanza.
Per liberare dall'accerchiamento nemico il borgo, re Roberto, accorso a Genova dalla Provenza, armò a proprie spese 20 galee e le assegnò al comando del G., il quale riuscì a costringere i Siciliani a ritirarsi. Dopo questo successo egli, come altri "patroni" guelfi, si trattenne al soldo del sovrano e, nel 1325 e 1328, partecipò a due successive spedizioni navali angioine contro la Sicilia, alle quali i Genovesi vennero chiamati in forze. Le benemerenze ottenute al servizio del re ne rafforzarono la posizione a Genova, facendone uno dei principali esponenti della fazione guelfa, anche se il comportamento del G. e della sua famiglia, giudicato troppo disponibile ad aperture nei confronti dei popolari, creò notevole malcontento in seno alla nobiltà.
Nonostante tutto, quando nel 1331 vennero aperte trattative di pace tra i due partiti rivali per costituire un fronte comune davanti alla minaccia rappresentata dalla Corona d'Aragona, il G. fu chiamato a far parte della delegazione guelfa che, il 1° marzo, firmava la tregua con i ghibellini; tale ruolo fu da lui ricoperto anche in settembre allorché fu tra gli ambasciatori genovesi che sottoscrissero a Napoli, davanti al re, la pace generale tra le fazioni cittadine. Fu probabilmente in questa occasione che il G., insieme con il fratello Gabriele e con altri della famiglia, fu investito del feudo calabrese di Policastro che, da poco ripopolato da coloni liguri, era stato confiscato ai Ruffo, rei di fellonia.
Tornato a Genova, trovò una situazione molto difficile perché i Catalani, resi animosi dalle divisioni esistenti fra i Genovesi, erano comparsi in forze nel golfo ligure, saccheggiando brutalmente Chiavari. Per rispondere all'insulto, nella primavera del 1332, guelfi e ghibellini si accordarono per armare una grossa flotta di 45 galee. Al suo comando fu destinato, il 19 luglio, il G. con il titolo di ammiraglio.
La spedizione salpò da Genova il 10 agosto, dirigendosi verso le coste della Catalogna, dove furono attaccati diversi villaggi. Il G. si indirizzò quindi verso le Baleari e, il 16, andò a gettare le ancore presso l'isola di Cabrera, da dove scrisse lettere di sfida al capitano della flotta aragonese, invitandolo a battaglia. Questi uscì da Maiorca con 46 galee che si presentarono davanti a Cabrera, nel tentativo di stringere il G. contro la vicina Minorca, ma una certa esitazione e, soprattutto, il vento sfavorevole ben presto mutatosi in burrasca, scompaginarono la flotta catalana che fu costretta a riparare nel porto di Otilla, presso Valencia. Il G., staccatosi con 11 galee sottili dal grosso della sua squadra, andò a sfidarli ancora al combattimento, ma i Catalani, provati dalla tempesta, rifiutarono la battaglia. Pago di questa dimostrazione di forza egli si ricongiunse al resto della flotta e, alla fine di agosto, fece ritorno a Genova, dopo avere distaccato una parte della squadra sulla rotta verso la Sicilia.
Le sue vicende negli anni seguenti sono assai confuse, anche perché appare assai difficile riuscire a distinguere le sue imprese da quelle di altri omonimi. Sembrerebbe però che, quando nel febbraio 1335 i ghibellini ripresero il potere, decretando la fine della signoria angioina, egli abbia scelto la via dell'esilio, nonostante i due nuovi capitani del Popolo (Raffaele Doria e Galeotto Spinola) seguissero, nei confronti dei guelfi, una politica di moderazione, badando piuttosto a rafforzare il predominio della nobiltà nel suo complesso. Il G. si stabilì a Nizza, dove si trovava nel 1338 e, con il fratello Gabriele e il nipote Luchino, si impegnò nell'acquisto di terre e case a Monaco, parallelamente a quanto faceva il cugino Carlo Grimaldi, tanto da essere citato, nel 1342, quale condomino della rocca.
Molti tra i suoi parenti (in primo luogo lo zio Rabella) restarono però a Genova e qui si trovarono coinvolti, nel settembre 1339, nei tumulti che condussero all'instaurazione del regime popolare e alla nomina del primo doge, Simone Boccanegra. Seppure esclusi da tutte le cariche pubbliche in quanto nobili, i Grimaldi poterono tuttavia beneficiare di una certa tolleranza da parte del nuovo governo, compensando l'esclusione dalla vita politica con una maggiore intraprendenza nelle attività commerciali e finanziarie. Si giunse così, sul finire del 1340, all'apertura di trattative di pace tra il doge e i fuorusciti guelfi che portarono, il 2 febbr. 1341, a un accordo con cui questi ultimi ottenevano il permesso di rientrare in patria e la restituzione di tutti i loro possessi: nell'atto figurava anche il G., con il titolo di miles. Come in altre occasioni si trattò di una pacificazione solo temporanea perché sia i Grimaldi, sia le altre grandi famiglie dell'aristocrazia (Spinola, Doria, Fieschi) ripresero a complottare per abbattere il governo del Boccanegra, costringendolo alla fine, nel dicembre 1344, a rinunciare al dogato.
Dopo molte discussioni fu scelto per succedergli Giovanni da Murta, il quale venne eletto anche con il consenso della nobiltà, nella speranza di ottenere da lui la riammissione al governo. I disordini causati dal popolino costrinsero però il nuovo doge a chiudere ogni apertura nei confronti dei nobili, nuovamente costretti a lasciare la città.
Nel giugno 1345, per iniziativa del papa Clemente VI, si giunse a una tregua, rimettendo all'arbitrato del signore di Milano, Luchino Visconti, la definizione dei termini di pace. Questi, il 6 luglio, decise la riammissione di tutti i fuorusciti e la restituzione dei loro beni; fra di essi fu probabilmente anche il G. che nel 1346-47, con altri tre "patroni" genovesi, fu preso ai servizi di papa Clemente VI che lo inviò con quattro galee a Cipro.
Le sue vicende negli anni seguenti non ci sono note, ma è probabile che egli si sia trattenuto a Genova, beneficiando del clima di tolleranza e di collaborazione con i nobili, instaurato dal successore del Murta, Giovanni di Valente, doge dal 1350. Sotto il suo governo esponenti della nobiltà vennero spesso impiegati nei comandi militari, nel corso della guerra contro Venezia e la Corona d'Aragona. Fu così che il G., capitano "valente e sagace", nell'estate del 1353 fu nominato ammiraglio di una flotta di 60 galee, allestite per opporsi a un'armata navale veneto-catalana, numericamente più potente, sotto il comando congiunto di Nicolò Pisani e Bernardo de Cabrera.
La flotta genovese si diresse verso la Sardegna, per recare soccorso ad Alghero dove, pochi mesi prima, la fazione locale facente capo ai Doria aveva fatto dedizione della città al Comune di Genova. Il 28 agosto le due flotte si incrociarono nella rada prospiciente; i Genovesi erano in netta inferiorità numerica, ma il G., essendo uomo "che si lasciava trasportare più del convenevole dal troppo considerare in se stesso" (Foglietta, p. 295), accettò ugualmente il combattimento, tanto più in quanto non voleva apparire meno abile di Pagano Doria che, l'anno precedente e in una situazione non molto diversa, aveva ottenuto una grande vittoria sugli stessi avversari a Negroponte, nell'Egeo.
La battaglia, vista anche la disparità delle forze, si tramutò per i Genovesi nella più terribile sconfitta mai patita prima di allora; ben 41 galee colarono a picco o furono catturate e alcune migliaia di uomini, tra soldati e rematori, restarono uccisi o fatti prigionieri. Il comportamento del G. si prestò a non poche critiche, non tanto per l'avventata decisione di avere impegnato il combattimento in condizioni di inferiorità, ma per avere abbandonato la battaglia, con una decina di galee, mentre ancora i suoi si battevano. Giunto a Genova egli fu infatti accusato, sull'onda dell'emozione generale provocata dalla sconfitta, di viltà davanti al nemico e i popolari chiesero a gran voce la sua messa in stato d'accusa. I nobili però fecero quadrato in sua difesa; ne nacquero disordini, e ciò mise in seria crisi il doge che, fino ad allora, era riuscito abilmente a comporre le rivalità tra le fazioni. Alla fine, sotto la minaccia di una nuova guerra civile, Giovanni di Valente fu costretto a dimettersi e i nobili riuscirono a imporre alla cittadinanza di porre la città sotto la protezione del signore di Milano, l'arcivescovo Giovanni Visconti (ottobre 1353).
Il G., sfuggito alla prigione e a un processo, non ricevette alcuna molestia dal nuovo governo, anche se non sembra abbia ricoperto, negli anni successivi, particolari incarichi pubblici o militari, come invece spettò ad altri membri della sua famiglia. Quando poi, nel novembre 1356, Genova si ribellò ai Visconti, restituendo il dogato a Simone Boccanegra, il G. fu espulso nuovamente dalla città, come capo della fazione aristocratica, insieme con altri esponenti della nobiltà. Con loro si rifugiò a Savona, rimasta fedele ai signori di Milano, contro la quale il doge inviò una squadra navale e un esercito, sotto il comando del fratello Lodisio. Tra questi, i Savonesi e i fuorusciti genovesi si giunse però, il 13 febbr. 1357, a un accordo, in base al quale, tra le altre cose, il G. ottenne il permesso di rientrare a Genova con i figli.
Non vi si trattenne per molto, perché poco dopo si portò nel Regno di Napoli, chiamato dalla regina Giovanna I d'Angiò, che lo volle fra i partecipanti della disastrosa spedizione organizzata dal marito, Luigi di Taranto, per la conquista della Sicilia.
Qui, nel corso della battaglia navale di Acireale, trovò la morte, il 27 maggio 1357, per mano, a quanto sembra, di Artale Alagona, gran giustiziere di Sicilia e tutore di re Federico IV.
Della sua vita privata sappiamo molto poco. Sembra però che la moglie sia stata Argenta Malaspina, figlia di Corrado, signore di Cremolino, dalla quale ebbe numerosa prole.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Archivio segreto, b. 2727, nn. 25, 64, 68; G. Stella, Annales Genuenses, a cura di G. Petti Balbi, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVII, 2, pp. 122 s., 144; Le pergamene dell'Archivio comunale di Savona, a cura di F. Noberasco, in Atti della Società savonese di storia patria, I (1919), 2, p. 90; Annali genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, X, 1, a cura di G. Monleone, Genova 1941, pp. 54, 56 s., 166, 223 s.; Clément VI. Lettres closes, patentes et curiales…, a cura di E. Deprez - J. Glénisson - G. Mollat, in Bibliothèque des Écoles françaises d'Athènes et de Rome, s. 3, III, Paris 1959, n. 1366; M. Villani, Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1996, p. 420; A. Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1537, c. CXXXVv; O. Foglietta, Dell'istorie di Genova, Genova 1597, pp. 295 s.; Ch. de Venasque-Farriol, Genealogica et historica Grimaldae gentis arbor…, Parisiis 1647, p. 121; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, II, Genova 1826, FamigliaGrimaldi, p. 12; R. Caggese, Roberto d'Angiò, Firenze 1930, II, p. 299; G. Petti Balbi, Simon Boccanegra e la Genova del '300, Genova 1991, pp. 147, 159.