GIUSTINIAN, Antonio
Primogenito di Polo di Antonio e di Alba Querini di Nicolò di Francesco da Candia, nacque a Venezia nella parrocchia di S. Pantalon presumibilmente nel 1466 (il 30 nov. 1484 estrasse la balla d'oro per certificare i diciotto anni compiuti).
Più tardi la famiglia si chiamerà "dei vescovi", per i molti prelati che la illustreranno. Polo Giustinian, che nel 1457 era stato bandito in perpetuo a Creta e aveva sposato la madre del G. nel 1461, nel 1481 si risposò con una figlia di Andrea di Pietro Barbarigo.
Conseguita nel 1493 la laurea in artibus all'Università di Padova, il G. coltivò gli studi filosofici e teologici e poi intraprese l'insegnamento. Come membro della classe dirigente e sulla scia degli umanisti delle generazioni precedenti, contemperò cultura e politica aprendo il suo cursus honorum politico, il 2 luglio 1494, con il magistrato degli auditori vecchi cui seguì, il 24 ott. 1497, l'elezione a provveditore sopra camere. Nel 1498 il G. fu scelto per scortare gli ambasciatori fiorentini e quello imperiale, in visita a Venezia; incarichi di questo tipo gli saranno affidati anche negli anni seguenti, segno della reputazione di cui già godeva. Nello stesso anno ebbe la cattedra di lettore di filosofia presso la celebre scuola di Rialto. Nel novembre 1499, quando era ancora provveditore sopra camere, il G. fu nominato lettore di "loycha et philosophia" e il 13 ott. 1501, mentre era nella zonta del Senato, fu eletto ambasciatore in Spagna con la garanzia che il posto di lettore gli fosse riservato fino al ritorno, ma non partì, perché il 9 febbr. 1502 fu designato ambasciatore ordinario a Roma. Rassegnò dunque le dimissioni dalla scuola di Rialto e fu sostituito da Lorenzo di Francesco Bragadin, da lui stesso indicato.
Si concludeva dopo un triennio la carriera di docente del G.; al ritorno da Roma, infatti, avrebbe dato definitivamente le dimissioni dal Gymnasium Rivoaltinum. Partito da Venezia e ricevuta la commissione il 21 maggio, il giorno 27 datò da Carpi il primo dispaccio e il 2 giugno raggiunse Roma.
I rapporti tra Venezia e il Papato erano improntati a un sostanziale accordo, che prevedeva l'appoggio della Chiesa alla lotta antiturca della Serenissima purché questa non ostacolasse le imprese di Cesare Borgia, duca del Valentino: la prudenza del G. era appunto indirizzata a mantenere tale difficile equilibrio. Nell'agosto 1502 le voci di trattative tra Venezia e la Porta incrinarono quel tacito accordo perché il papa preferiva che la Repubblica fosse occupata dalla questione turca per non vederla occuparsi delle cose di Romagna, ma le nuove conquiste di Cesare Borgia determinarono un graduale ripensamento della politica veneziana. Tra la primavera e l'estate 1503 sorsero altre ragioni di crisi nelle relazioni veneto-pontificie, a causa della pace con i Turchi, stabilita in quell'anno, e in seguito al provvedimento del Consiglio dei dieci che limitava l'acquisto di benefici ecclesiastici da parte dei nobili veneziani. La morte di Alessandro VI, il 18 ag. 1503, non mutò la situazione: anche il nuovo papa, Pio III, non indugiò a lamentarsi delle azioni veneziane in Romagna e non credeva all'argomento del G. secondo il quale Venezia occupava quei territori solo per darli alla Chiesa. In realtà si trattava di una vera e propria campagna di conquista che il G., da consumato diplomatico, cercava di mascherare. Il 18 ottobre Pio III morì e gli successe, con il nome di Giulio II, Giuliano Della Rovere, gradito alla Serenissima, il quale però, pur dichiarandosi "venetian", chiese di riavere le terre della Chiesa: il G. ammonì il suo governo che il nuovo papa avrebbe dato filo da torcere.
Già dal novembre 1503 si delineò un irrigidimento del pontefice, fino al monito pronunciato durante il concistoro del 29 dicembre, quando sostenne che per conservare le terre della Chiesa era necessario l'accordo con la Francia e la Spagna. Il G. prese a suggerire una politica di maggiori concessioni a una Signoria riluttante, finché i rapporti tra il minaccioso Giulio II e Venezia divennero più tesi e dall'inizio dell'estate il papa non volle più ricevere l'ambasciatore: praticamente una rottura diplomatica. La Signoria, tuttavia, non sostituì il G. per non dare l'impressione di cedere, ma nell'aprile 1505 inviò a Roma una delegazione di ben otto patrizi per ricucire i rapporti con la S. Sede. Il 5 maggio il G. ripartì per Venezia e il 23 lesse in Senato per ben due ore la sua relazione, che fu "comentata assai", scrive Sanuto, andando poi a occupare i posti di savio di Terraferma e di avogador di Comun che gli erano stati riservati. Il 23 apr. 1507 il G. fu mandato podestà a Bergamo, dove restò fino agli inizi del 1509 svolgendo numerose missioni diplomatiche oltre confine. Dopo la battaglia di Agnadello (14 maggio 1509) Venezia cercava di uscire dall'isolamento e il G., entrato in Collegio come savio di Terraferma, si schierò a favore di una lega con la Spagna e di un riavvicinamento all'imperatore. La considerazione in cui il G. era tenuto dopo il ritorno da Roma si concretizzò in maggio nell'elezione a provveditore a Crema, avamposto del dominio veneto in terraferma, preceduta da una missione riservata presso il pretendente di Milano, vescovo di Lodi, giunto a Venezia per avere l'appoggio della Serenissima.
Il 13 maggio il G. partì per la sua sede, ma a Padova fu raggiunto dall'ordine di recarsi a Rovereto come oratore straordinario presso l'imperatore, che Venezia riconosceva come signore e al quale faceva sapere di voler restituire le sue terre. La sofferta decisione non ebbe seguito poiché il sovrano non volle accogliere il G., che dopo inutili attese tornò a Venezia il 6 giugno.
Su questa missione del G. scoppiò una polemica destinata a durare secoli, innescata dalla attribuzione al G., nella Storia d'Italia di F. Guicciardini (VIII) e nei Discorsi di N. Machiavelli (III), di una "orazione" a Massimiliano nella quale egli "parlò miserabilmente e con grandissima sommissione" per ottenere una qualunque condizione di pace. Il testo fu sempre respinto dai Veneziani e dal G. come un falso.
Fatto savio di Terraferma, il G. avanzò la proposta, allora minoritaria, di accordarsi con Francesco I, manifestando quell'orientamento filofrancese che negli anni successivi sarà più evidente. L'11 luglio 1509 fu nominato viceluogotenente nella Patria del Friuli e si adoperò per fronteggiare la guerra in condizioni assai difficili; quando, nel maggio 1510, si temette per le sorti di Udine, il G., che aveva offerto 1800 ducati per armare 6 galee a Candia, dichiarò fieramente che sarebbe rimasto "fin averà l'anima nel corpo". Il 14 sett. 1510 fu nominato savio di Terraferma e il 1° ottobre per la prima volta fu consigliere dei Dieci, ottenendo il privilegio di farsi sostituire in Friuli dal fratello Orsato. Il 30 ottobre, tornato a Venezia, prendeva posto tra i Dieci, di cui fu per due volte capo, nel marzo e nel luglio del 1511.
Il 24 giugno 1511 partì in segreto per la Germania in una delle più delicate e urgenti missioni della sua carriera: raggiungere l'imperatore Massimiliano per intavolare trattative di pace. Le istruzioni che aveva erano il risultato di febbrili riunioni e dibattiti in seno al gruppo dirigente della Serenissima e proponevano un'intesa che salvasse almeno i territori ancora in mano alla Repubblica. In questo clima convulso il G. iniziò lunghe trattative a Dolbach con gli emissari imperiali, mentre a Venezia le notizie del nuovo orientamento politico di Giulio II e il profilarsi di una lega antifrancese fecero sperare che non sarebbe stato necessario sacrificare troppo a Massimiliano, il quale tuttavia, alzando la posta, interruppe di fatto i colloqui; il 19 agosto fu quindi ordinato il rimpatrio del G., che da capo del Consiglio dei dieci e poi da savio di Terraferma, proseguì a Venezia i contatti con gli emissari dell'imperatore. Raggiunta, il 4 ottobre, l'alleanza tra Venezia, il papa e la Spagna, si avviarono a una positiva conclusione anche le trattative con l'imperatore, perfezionate dal G. e da Andrea Trevisan con l'accordo del 6 apr. 1512.
Il 5 febbraio il G. fu nominato provveditore a Brescia, tornata in possesso di Venezia ma sotto minaccia francese. Partito tre giorni dopo, durante il viaggio fece leva di truppe e il giorno 12 entrò nella città insieme con il provveditore generale Andrea Gritti per organizzarne la difesa. Il giorno 21 Brescia cadde e i due provveditori, entrambi catturati, furono portati in Francia in attesa di riscatto. Il G., liberato dopo sette mesi con l'esborso di 2500 ducati, prima di tornare in patria fu incaricato da Francesco I di farsi latore di proposte di accordo tra la Francia e la Serenissima. Il G. giunse a Venezia il 13 ott. 1512 e due giorni dopo, presentatosi in Senato "con barba vestito di paonazzo", scrive il Sanuto, lesse la relazione "molto compassionevole" e molto lodata: concesso il dovuto spazio alle sue peripezie e alla sfortunata difesa di Brescia, si soffermò soprattutto sulle proposte di Francesco I che prevedevano di assegnare Verona e Vicenza a Venezia, Brescia e la Lombardia alla Francia, nonché trattative segrete per la costituzione di una lega tripartita con il pontefice. Nel dibattito che ne seguì, il G., neoeletto savio del Consiglio, ebbe un ruolo di primo piano nell'orientare in senso filofrancese le scelte del Senato per meglio salvaguardare la terraferma veneta. Il 19 ottobre fu eletto, a larghissimo suffragio, oratore straordinario presso il nuovo sultano Selim I per concludere un difficile trattato. Mentre il G. rinviava la partenza a causa di difficoltà finanziarie, il 28 nov. 1512 gli giunse la nomina a capitano e consigliere a Candia, che fu naturalmente sospesa. Intanto - nel febbraio 1513 era entrato nella zonta dei Dieci - il G. proseguiva i contatti segreti per perfezionare gli accordi con la Francia, sostenendo la necessità della rinuncia a Cremona e alla Ghiara d'Adda in cambio delle province venete e, pur contrario a prolungare la tregua con l'Impero perché in contrasto con l'alleanza francese, fu pronto a cambiare parere quando l'ambasciatore spagnolo lo informò che non si poteva ancora concludere la pace. Il 7 giugno 1513 il G. partì finalmente per Costantinopoli, che raggiunse a metà agosto, da dove ripartì l'11 novembre per giungere a Venezia il 7 febbr. 1514.
La relazione letta dal G. al Senato, dopo il consueto excursus geopolitico sull'Impero ottomano, si sofferma sui capitoli del trattato, tra cui quello aggiunto sul rifornimento delle truppe ottomane di passaggio in territorio veneto, che tante critiche suscitò all'estero. Ottenuta la dispensa dalla candidatura a provveditore a Padova, il G. dovette partire, alla fine dell'estate del 1514, per Candia, dove restò fino al marzo 1517. Il 7 maggio fu scelto con Giorgio Pisani e Marino Zorzi per designare "excellenti" lettori per l'Università di Padova. Si trattava di un'importante e contrastata decisione del governo per far rinascere quello Studio dopo la bufera bellica, attraverso una speciale commissione - diverrà la magistratura dei Riformatori dello Studio di Padova solo nel 1528 - affidata ad autorevoli esponenti della politica e della cultura. In essa il G. sarà riconfermato nel 1521 e ancora nel 1523, svolgendovi un proficuo lavoro.
Nel maggio 1517 giunse al G. la nomina ad ambasciatore ordinario in Francia, al momento rifiutata presumibilmente per le alte spese che comportava, ma il doge, suo parente, lo convinse ad accettare. Trascorso qualche mese ad aggiornarsi sulle questioni d'Oltralpe, partì il 20 sett. 1517 e dopo una sosta a Milano e a Pavia, dove lo raggiunsero le istruzioni del Senato, arrivò il 30 ottobre a Lione e da lì raggiunse Malines, dove presentò le credenziali al re. Dopo la firma, in novembre, per la nuova Lega, primo obiettivo della sua missione, il G. si impegnò per ottenere, con la mediazione di Francesco I, il prolungamento della tregua tra Venezia e l'imperatore, per favorire l'unione dei principi cristiani in funzione antiturca e per portare anche il papa all'alleanza con la Francia. Delineatasi nel marzo 1518 la possibilità di intesa con l'imperatore, il G., che aveva ricevuto un ampio mandato, riuscì a convincere il governo veneziano che una vera pace non era ancora possibile e che conveniva accettare un armistizio profittando dell'aiuto francese. Il 26 ag. 1518 fu firmato l'accordo che prevedeva una tregua di cinque anni e l'esborso a Massimiliano di 100.000 ducati. L'attività del G. continuò fino a quando la morte dell'imperatore, il 12 genn. 1519, e le manovre per la successione non richiesero la sua opera al livello più alto, per respingere abilmente le pressanti richieste di aiuto finanziario di Francesco I e le appassionate perorazioni di Luisa di Savoia, animatrice della campagna per l'elezione del figlio.
I dispacci del G. offrono un quadro vivido e preciso di tutti gli aspetti della vicenda e dei suoi protagonisti, e trasmettono anche la tensione dell'autore, stretto tra le direttive talora oscillanti del proprio governo e l'impazienza francese. Nella primavera del 1519 il G., provato dalla fatica e dalla gotta, chiese l'avvicendamento, che però il Senato non concesse perché in un frangente così delicato una parte del patriziato non voleva sostituire un uomo sperimentato. Il 28 giugno Carlo V fu eletto imperatore e sul G. si scaricò il disappunto dello sconfitto re di Francia, al quale egli rinnovò con forza l'amicizia del suo governo, anche se a Venezia in molti avrebbero voluto allearsi subito con il nuovo imperatore.
Pur afflitto dal male e dalla mancata sostituzione, il G. inviò nuovi dettagli sulle elezioni imperiali e sulla politica francese; entrando nel dibattito sulle scelte politiche veneziane, ribadita la personale fedeltà all'alleanza con la Francia, non mancò di avvertire il Senato che Carlo V era "povero e impotente" e per il momento tranquillo con tutti, ma che quanto prima avrebbe fatto le sue scelte. Il 26 sett. 1519 Giovanni Badoer fu eletto successore del G., che continuava a prodigarsi per facilitare l'adesione pontificia alla Lega con la Francia, fugando malevoli voci di segrete intese tra Venezia e l'imperatore, e seguendo con speciale attenzione il riavvicinamento tra Inghilterra e Francia, che giudicava vantaggioso per gli interessi della Serenissima, tanto da restare ancora, nonostante l'arrivo del successore, il 20 maggio 1520, per assistere all'incontro tra Enrico VIII e Francesco I.
Congedatosi dal re il 16 agosto, insignito del cavalierato, il G. lasciò la Francia due giorni dopo. Il 7 settembre leggeva in Senato la relazione, "sapientissima et copiosa", che durò qualche ora e fu assai lodata, come nota il Sanuto che ne offre un ampio sommario.
Esordisce con il consueto profilo del re, sovrano brillante ma sempre afflitto da difficoltà economiche; prosegue con quello della madre del sovrano, decisiva nelle questioni di governo, e della sorella del re, Margherita, duchessa d'Alençon, "che sapeva tutti li secreti ma parlava poco", e continua con quelli dei grandi del Regno, un grande Regno - sottolinea il G. con simpatia - con un ragguardevole apparato militare e una nobiltà avvezza alle armi. Incisive le osservazioni sui rapporti di Francesco I con gli altri protagonisti della scena europea: il re d'Inghilterra, con il quale "sta in tanto amor che di lui si promete ogni cosa"; Carlo V, con cui "non è in alcuna amicitia" sicché tra loro "non è paxe" e "vanno temporizando ma in sé si portano grande odio". Del papa afferma che ha offerto tante buone parole ma non fatti, come dimostrava la Lega antiasburgica, fatta solo verbalmente ma non sottoscritta in forma rituale. Su Venezia scrive che il re la vuole alleata "per istinto natural" e per interesse.
La carriera del G. continuò senza soluzione di continuità tra prestigiosi incarichi domestici e delicate missioni diplomatiche. Fu nel Consiglio dei dieci nel 1520, 1521, 1522 e 1524; consigliere ducale nel 1520 e nel 1523; savio del Consiglio nel 1519, 1522, 1523 e 1524; nel 1521 fu provveditore generale in Terraferma e dei Venti savi a la regolation de la Terra.
Con il suo prestigio spesso orientò le scelte di politica estera del governo; fece sentire la sua voce, tendenzialmente conservatrice, nelle questioni istituzionali, di amministrazione della Terraferma e finanziarie, come quando nel febbraio 1522, era allora capo del Consiglio dei dieci, propose di abbassare il valore del ducato per contrastare la massiccia presenza di moneta straniera. Il 15 apr. 1523 si recò a Roma con altri cinque colleghi per rendere omaggio al papa Adriano VI. Dall'ottobre 1523 si accentuarono gli attacchi di gotta, ma gli impegni del G. continuarono e il 15 apr. 1524 fece parte di una commissione che accompagnò l'inviato arciducale a ispezionare i confini di Terraferma per controllare l'osservanza delle clausole armistiziali.
Il 1° ott. 1524 sarebbe dovuto entrare in Collegio come savio del Consiglio ma, secondo Sanuto, morì il 25 settembre, nella sua casa di s. Barnaba.
Aveva sposato nel 1506 Elisabetta di Alvise Da Mula, che gli diede tre figli, fra cui Francesco (1507-54), nel 1537 e nel 1545 ambasciatore in Francia, e Marco, detto Ferrandina (1522-96), oltre a un numero imprecisato di figlie.
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