GARAGNO, Antonio
, Nacque, probabilmente a Torino, intorno al 1630. Il padre, Lorenzo, apparteneva a una famiglia di mercanti di Chieri, alcuni dei quali attivi come fustagneri sin dal secondo Quattrocento.
L'ascesa dei Garagno rappresenta bene la capacità che una parte del ceto mercantile chierese ebbe, a fronte della crisi tardocinquecentesca dell'economia cittadina, nel ridefinire le proprie funzioni, trasferendosi a Torino e, attraverso l'attività bancaria e i prestiti ai principi, inserendosi nell'amministrazione dello Stato e giungendo infine all'acquisizione della nobiltà. Sulla base delle recenti ricerche di P. Crivellaro, è ora noto che alla metà del Cinquecento i Garagno s'erano divisi in due linee: la prima, imparentatasi con i ricchi fustagneri Cisa (Cisero), ne avrebbe poi assunto nome ed eredità, giungendo alla nobiltà con l'acquisizione del feudo di Gresy; la seconda, all'inizio del Seicento, era rappresentata da Lorenzo, trasferitosi a Torino intorno al 1625 per intraprendervi l'attività di banchiere. Qui egli aveva legato le sue fortune a quelle dei fratelli Turinetti (che gli erano nipoti, in quanto figli di sua sorella Maria) e del cugino Giovan Battista Gabaleone (figlio di sua zia Lucia), divenendo in breve uno dei banchieri più influenti a corte.
Nel 1648 il G. sposò Cleopatra Margherita (del) Ponte, figlia del patrimoniale generale ducale Bartolomeo, il quale concesse alla figlia una dote di 11.330 lire. L'atto dotale fu stipulato il 3 febbr. 1652: pochi mesi dopo, il 14 settembre, Lorenzo vendeva ai padri agostiniani di Chieri numerosi terreni e, in particolare, la "cascina Garagna", residenza chierese della famiglia, per 11.605 lire. Con tale atto, il G. e suo padre sancivano il loro distacco dalla realtà chierese (nella quale mantenevano, comunque, alcuni interessi) a favore della capitale, ormai scenario principale della loro attività. Anche il G., seguendo le orme del padre (morto presumibilmente intorno al 1660), svolse inizialmente l'attività di banchiere.
In quegli anni operava a Torino anche suo cugino, Giovan Ludovico, il quale - insieme con il cognato Carlo Antonio Marchisio, anch'egli figlio di un ricco mercante chierese - fu tra i principali finanziatori della reggente, la madama reale Cristina di Francia. Un ruolo analogo finì col rivestire anche il G., che il 1° luglio 1659 ottenne la carica di consigliere e tesoriere della casa di madama reale. Con tale nomina quest'ultima intendeva ricompensare il G. per i numerosi prestiti ricevuti: solo una settimana più tardi infatti, l'8 luglio, veniva ordinato in suo favore un rimborso di 41.250 lire d'argento da pagarsi nel triennio successivo. In quest'ottica va vista anche la nobilitazione del G. (12 maggio 1660), che negli anni successivi continuò l'attività di finanziatore della reggente. Una svolta nella sua carriera si ebbe il 24 marzo 1667, quando fu nominato mastro uditore della Camera dei conti (la "piazza" che gli fu allora assegnata era stata in precedenza occupata dal tesoriere Ghiron Palliero, che aveva sposato la sorella maggiore del G., Violante).
In virtù della sua nuova carica il G. fu incaricato di "visitare" le province piemontesi nelle estati del 1667 e del 1668, per verificare l'applicazione della riforma dei procedimenti di trattura. Esperto dei meccanismi che regolavano il commercio della seta, sugli aspetti tecnici della produzione il G. era sicuramente meno preparato. Nelle due visite si appoggiò pertanto all'esperienza di due comaschi, Antonio Caldara e Carlo Ferrari, dai quali si fece accompagnare. La prima visita durò nove giorni e interessò le province di Torino, Chieri e Pinerolo. Il G. rivestì il ruolo di ufficiale del governo, del quale doveva far rispettare le disposizioni; Caldara si attenne, invece, al ruolo di esperto, istruendo in loco i produttori su come far essiccare i bozzoli e costruire le attrezzature. Il G. convocò le filatrici, illustrando le nuove regole e ricordando le sanzioni previste per chi non le avesse rispettate.
Il procedimento di trasformazione del sistema economico verso l'attività manifatturiera avrebbe richiesto un periodo di transizione non breve, mentre in quegli anni non rientrava ancora nei piani della burocrazia piemontese attuare una sistematica politica di controllo. Il Giornale… per il viaggio nelle province di Torino, Chieri e Pinerolo, intorno alle regole di fillar le sette consente di verificare l'effetto prodotto dalle nuove disposizioni ducali. In effetti, i termini della regolamentazione del sistema di fabbrica erano ancora troppo generici, inducendo i lavoranti a opporre una sorta di resistenza passiva, che andava al di là della semplice riluttanza a modificare il proprio metodo di lavoro. Non era raro che, appena il controllo dei tecnici di Stato si allentava, i filatori riprendessero a lavorare secondo i ritmi e gli usi antichi. E il risultato era che le sete erano spesso tutt'altro che "tonde e nette", con i "doppioni segregati" come invece prevedevano i decreti ducali. La ricaduta di tali disposizioni avrebbe, pertanto, dovuto attendere qualche anno. Sin dal 1668 una commissione di esperti toscani giudicò un campione di organzino prodotto in Piemonte degno di essere considerato della migliore qualità ("organzino bolognese"). Con il passare degli anni i giudizi positivi si sarebbero moltiplicati, a fronte di una diminuzione dei rischi connessi all'avvio delle nuove imprese.
I legami del G. con l'area lombarda trovano conferma nella sua scelta di reclutare un "mastro" originario di Milano quando decise di costruire a Chieri un filatoio con mulini da seta "alla bolognese". Ma nel 1673 egli sospese l'attività dopo aver perso circa 1600 doppie, "oltre le spese della fabricha et ordegni". La scelta del mastro proveniente dal capoluogo lombardo, infatti, non lo aveva ripagato con il necessario apporto di esperienza tecnica. Il Milanese non era infatti una zona a grande diffusione di filatoi idraulici, e ciò porterebbe a comprendere l'opinione del G., secondo cui il mastro non risultò all'altezza della situazione. Per compensare almeno parzialmente le perdite, il G. decise quindi di mettere in vendita i macchinari acquistati, proponendo in alternativa che la città di Chieri gli offrisse "almeno livre mille" per rimetterli in uso. In cambio, si dichiarava pronto ad affrontare una nuova impresa reclutando un altro mastro. La proposta ottenne risposta favorevole da parte della città, che esentò il mastro (in qualità di "direttore delli mollini") e "servitori, operari, voltadori, garzoni" dal pagamento di ogni tipo di imposta. Nel 1671 un'altra iniziativa del genere, ricalcata piuttosto sullo schema produttivo "alla bolognese" (nel senso che il filatoio era localizzato entro il perimetro urbano e la ruota utilizzava le acque di un canale cittadino), era stata avviata a Torino da due importanti mercanti e finanzieri, Giacomo Antonio e Francesco Maria Carelli, nipoti del Garagno. Più fortunato il G. fu invece nei numerosi investimenti edilizi (vere e proprie speculazioni) dopo il secondo ingrandimento di Torino (1673).
Il 2 nov. 1677 il G. fu promosso alla carica di presidente e generale delle Finanze di Piemonte (sostituendo il conte Giovanni Andrea Ferraris). In tale veste nel 1678 fu, insieme con Giovan Battista Truchi, fra coloro che si opposero alla sostituzione della gabella del sale - la cui crescente impopolarità avrebbe di lì a poco portato allo scoppio della rivolta nel Monregalese - con un "cotizzo" (imposta sulla persona), come era stato proposto, fra gli altri, dal presidente Giambattista Novarina. Nel 1680 il G. sancì la sua ascesa sociale con l'acquisto del feudo comitale di Roccabigliera, di cui fu investito l'8 novembre. Sempre nel 1680 fu inoltre coinvolto nel progetto per la realizzazione di una compagnia commerciale di Portogallo la cui creazione era prevista contestualmente alle nozze del giovane Vittorio Amedeo II con l'infanta portoghese. Era previsto che la società durasse dal 1681 al 1686, attingendo quote da azionisti diversi, tra i quali si inserirono subito, accanto a esponenti dell'aristocrazia subalpina, i più intraprendenti finanzieri cresciuti sotto il ducato di Carlo Emanuele II. Il G. vi figurò come azionista per una quota di 2000 doppie. Tuttavia la somma necessaria per avviare l'impresa non sarebbe mai stata raggiunta, pur prevedendo un discreto contributo ducale, mentre le operazioni della compagnia sarebbero state troncate all'improvviso in seguito al fallimento del progetto matrimoniale per il deciso rifiuto di Vittorio Amedeo II.
Un ultimo, meno importante, campo d'azione del G. fu il Consiglio municipale torinese, che nel 1687 fu riformato dal duca Vittorio Amedeo II.
Il Consiglio era stato diviso in due classi composte di un egual numero di consiglieri ("la prima per le persone più notabili sia per qualità di nascita o per dignità o per vassallaggio; la seconda per gli altri vassalli, i maggiori cittadini, i più accreditati negozianti"). Lo stesso anno il Consiglio fu costretto ad approvare l'ingresso di 25 nuovi consiglieri nominati dal duca, fra i quali era anche il Garagno. Fra i suoi colleghi il G. trovò il cugino Giovan Ludovico, decurione sin dal 1676, ma la loro attività consiliare fu assai diversa: come è stato rilevato infatti da F. Rocci, mentre Giovan Ludovico (dal 1699 barone di San Marzanotto), ascritto alla seconda classe, fu tra i sostenitori dell'indipendenza del Municipio contro la volontà accentratrice di Vittorio Amedeo II, il G. fu, invece, fra i sostenitori della linea di quest'ultimo. In ogni caso non risulta che il G. abbia avuto in Consiglio un ruolo particolarmente attivo.
Sempre nel 1687 il G. fu chiamato a ricoprire l'incarico di sovrintendente generale del commercio, incarico più vicino ai suoi interessi. Morì a Torino il 13 sett. 1695 (aveva testato il 5 febbr. 1688).
Secondo Manno, il G. avrebbe avuto ben 19 figli: è probabile che il numero sia inferiore, tuttavia essi furono comunque almeno dodici, avendo il G. ottenuto, il 24 marzo 1668, l'immunità fiscale per dodicesima prole. Dei suoi figli, il primogenito Lorenzo fu prima gabelliere generale di Savoia (carica ricoperta già nel 1678) e poi, dal 27 febbr. 1680, consigliere mastro auditore nella Camera dei conti. Inviato a Parigi e a Lione nell'aprile del 1682 per recuperare parte della dote di Cristina di Francia sino allora non pagata, egli era però morto fra la fine del 1683 e l'inizio del 1684. A raccogliere l'eredità del G. fu, allora, Giovan Battista. Questi fu avvocato patrimoniale generale camerale (5 sett. 1683), quarto (21 luglio 1697) e poi terzo (28 febbr. 1699) presidente della Camera dei conti; nel 1698 fu inviato nel Monregalese quale "delegato per accertare ed applicare proportionatamente le debiture ducali e militari alle città di Mondovì e terre del suo mandamento". Anche un altro figlio del G., Francesco Domenico, divenne, il 24 ott. 1690, mastro auditore nella Camera dei conti, mentre due figli, Giuseppe Antonio e Pietro Maria, abbracciarono la carriera ecclesiastica, divenendo il primo canonico della metropolitana di Torino e il secondo abate di Bergamasco. I Garagno di Roccabigliera si estinsero con Carlo Andrea (1715-1810), figlio secondogenito di Giovan Battista.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Corte, Materie economiche, Gabella del sale di Piemonte e Nizza, mz. 3, c. 6; Ibid., Materie politiche per rapporto all'interno, Lettere di particolari, "G", mz. 8; Ibid., Camera dei conti, Patenti Controllo Finanze, regg. 1658 in 59, cc. 206 s.; 1659 in 60, cc. 42, 58, 188; 1666 in 67, cc. 2, 88, 133; 1669 in 70, c. 88; 1670 in 71, cc. 64, 225; 1671 in 72, c. 68; 1675 in 76, c. 199; 1677 (2), c. 186; 1677 in 78, c. 41; 1678 in 79, c. 36; Ibid., Patenti Piemonte, regg. 98, cc. 46, 175; 105, c. 202 (2); 110, c. 144 (2); 111, c. 207; 126, c. 146; 130, c. 104; Ibid., Art. 539, n. 8, Giornale del signor auditor G. per il viaggio nelle provincie di Torino, Chieri e Pinerolo, intorno alle regole di fillar le sette; Regi Biglietti, regg. 1650 in 58, cc. 10, 66; 1680 in 84, cc. 12, 76 s.; Ibid., Senato di Piemonte, Testamenti pubblicati, XVI, p. 364; C. Contessa, Progetti economici della seconda Madama Reale di Savoia sopra un contratto nuziale (1678-82), in Misc. di storia italiana, XVI (1914), p. 29; E. Stumpo, Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma 1979, pp. 289, 319; G. Levi, L'eredità immateriale. Carriera d'un esorcista nel Piemonte del Seicento, Torino 1985, p. 95; R. Davico, Lo Stato, la Faida, la "Viva Maria", in La guerra del sale (1680-99). Rivolte e frontiere nel Piemonte barocco, III, a cura di G. Lombardi, Milano 1986, p. 97; S. Cerutti, Mestieri e privilegi. Nascita delle corporazioni a Torino, secoli XVII-XVIII, Torino 1992, pp. 162, 165; F. Rocci, Da municipio a capitale. Torino negli anni dell'affermazione dello Stato assoluto (1675-1773), tesi di dottorato, I, Torino 1995, pp. 358, 370 s.; E. Chicco, La seta in Piemonte. 1650-1800. Un sistema industriale d'ancien régime, Milano 1995, pp. 35-37, 44-47; Roma, Biblioteca dell'Istituto dell'Enc. Italiana: A. Manno, Il patriziato subalpino (datt.), vol. Gab-Gau, p. 163.