GANDOLFI, Antonio
Nacque a Carpi, nel Modenese, il 20 febbr. 1835 da Giovanni Battista e da Elisabetta Ferrari. Di famiglia patrizia, entrò giovanissimo nella prestigiosa Accademia militare Estense conseguendo, nel novembre del 1853, il grado di cadetto.
Sei anni dopo, quando il duca di Modena Francesco V, appena avuto sentore che i Franco-Piemontesi avevano sbaragliato gli Austriaci a Magenta, abbandonò precipitosamente la città, il G. non lo seguì, come fece la quasi totalità degli ufficiali del piccolo esercito modenese. Di idee liberali, aderì subito al governo provvisorio proclamato, il 19 giugno 1859, da L.C. Farini. La sua scelta di campo fu premiata: entrato nell'esercito sardo, e poi nazionale, sul finire del 1859, fu promosso sottotenente nell'arma del genio.
La sua carriera fu rapida e brillante: tenente a 27 anni, capitano a 29, maggiore a 36, tenente colonnello a 42, colonnello a 45, nel 1888 veniva promosso maggiore generale. In questi primi trent'anni al servizio del Paese, il G. aveva partecipato alle campagne risorgimentali del 1860-61, del 1866 e del 1870; aveva comandato il 3° reggimento di fanteria e la brigata "Parma"; si era inoltre distinto per capacità e devozione ai Savoia, tanto da meritarsi la qualifica di aiutante di campo onorario di Vittorio Emanuele II.
Politico, oltre che militare, il G. fu deputato della Sinistra prima di Carpi e poi di Modena dalla XII alla XVII legislatura. Uomo colto e fra i maggiori esperti di questioni militari, fu per molti anni relatore del bilancio del ministero della Guerra in Parlamento. Non destò quindi alcuna meraviglia quando, nel giugno del 1890, fu nominato governatore militare e civile dell'Eritrea, una colonia fondata da appena sei mesi e dalle frontiere ancora incerte e contestate.
Il presidente del Consiglio, F. Crispi, che aveva caldeggiato la sua nomina, era persuaso che il G. riassumesse in sé tutte le qualità necessarie per fronteggiare una situazione che, in realtà, si presentava più che difficile, drammatica. A ciò si era giunti per inesperienza, per i dissensi esplosi fra i vari protagonisti della politica coloniale e, infine, per l'insana ambizione di voler rivaleggiare con le altre grandi potenze coloniali. In appena cinque anni, infatti, si era passati dall'occupazione del porto di Massaua alla presa di possesso di Asmara e dell'altopiano eritreo sino alla linea dei fiumi Mareb-Belesa-Muna, suscitando tanto le proteste dell'imperatore d'Etiopia, Menelik - succeduto a Giovanni IV, caduto in battaglia l'8 marzo 1889 -, quanto l'opposizione dei dervisci, i quali consideravano i bassopiani dell'Eritrea come un proficuo territorio per le loro scorrerie.
Si aggiunga che la politica coloniale italiana nei confronti dell'Etiopia si era dimostrata particolarmente volubile: a volte veniva praticata la "politica scioana", di pieno sostegno a Menelik; a volte la "politica tigrina", di appoggio a ras Mangascià, grande vassallo dell'imperatore ma anche suo rivale: con il risultato di creare sospetti, timori e rancori. Per finire, Menelik aveva scoperto che il trattato di Uccialli, da lui firmato il 2 maggio 1889 con il diplomatico italiano P. Antonelli, conteneva una clausola di controversa interpretazione (il famoso articolo 17) che faceva dell'Etiopia un protettorato dell'Italia, e che l'imperatore respingeva sdegnato.
Il G. giunse in Eritrea alla fine di giugno del 1890 con il preciso incarico, affidatogli da Crispi, di praticare una politica leale nei confronti di Menelik per cercare di ammansirlo. Ma era ormai troppo tardi per correre ai ripari. Non soltanto Menelik respingeva l'interpretazione italiana dell'articolo 17 del trattato di Uccialli, ma intimava agli Italiani di retrocedere dal confine del Mareb. Un ulteriore tentativo, compiuto dall'Antonelli e caldeggiato dal G., di arrivare a una soluzione di compromesso con il sovrano etiopico, falliva miseramente. A complicare la situazione, il 31 genn. 1891 il Crispi fu costretto a dimettersi e il suo successore, A. Starabba di Rudinì, impartiva al G. nuove istruzioni, destinate ad aumentare i timori e i sospetti dell'imperatore d'Etiopia. Con il Rudinì, infatti, si ritornò a praticare la "politica tigrina", che già in passato aveva dato frutti avvelenati. Una politica che il G. condivise subito e che, anzi, auspicò in forma ancora più radicale, come si desume da un dispaccio del 9 apr. 1891, da lui inviato al nuovo presidente del Consiglio: "Gioverebbe stringerci più intimamente ai capi del Tigrè, favorire le loro aspirazioni di emancipazione dalla Corte Scioana e, se non incitarli, non impedire che, al momento opportuno, si levino contro l'Imperatore" (L'Italia in Africa, I, Etiopia - Mar Rosso, IX, Documenti (1891-1893), a cura di D. Giglio, Roma 1981, doc. 84, p. 99).
Persuaso che questa strategia si sarebbe rivelata vincente, il G. cominciò a preparare il terreno per realizzare con i capi tigrini, ras Mangascià in testa, un solenne incontro al fiume Mareb. Ma questo convegno, tenuto dal 6 all'8 dic. 1891, si concluse non con un trattato di alleanza, come si sperava a Roma, bensì con un semplice scambio di lettere e un generico impegno a contrastare i nemici comuni. Si aggiunga che l'incontro tra il G. e ras Mangascià venne interpretato da Menelik come un indubbio atto di ribellione da parte del suo vassallo e come un'ulteriore prova della malafede degli Italiani.
L'incontro del Mareb, quindi, giudicato dal G. un autentico capolavoro di diplomazia, costituì, invece, un grossolano errore. Non era la prima volta, del resto, che il G. commetteva sbagli di enorme portata: nel marzo del 1891 aveva posto a capo delle province di confine con l'Etiopia, occupate abusivamente dall'Italia, Bahta Hagos che, tre anni dopo, avrebbe organizzato un'insurrezione in nome di Menelik, mettendo in pericolo l'esistenza stessa della colonia.
Anche nell'amministrazione dell'Eritrea il G. non diede una buona prova, soprattutto a causa del suo spiccato autoritarismo, che gli impediva di collaborare con colleghi e sottoposti. A farne le spese furono soprattutto il colonnello O. Baratieri, che aveva le funzioni di vicegovernatore e di comandante delle truppe, e il barone L. Franchetti, commissario per la colonizzazione, incaricato di effettuare alcuni esperimenti agrari in Eritrea.
Ravvisando nel primo un possibile e pericoloso rivale, il G. cercò subito di metterlo in ombra alleggerendolo degli incarichi più importanti e relegandolo a Cheren come comandante della zona. L'attrito fra i due si fece ancora più acuto quando, durante una licenza del G. in Italia, Baratieri, al quale era stato affidato il governo della colonia, si precipitò a riformare quanto aveva fatto il suo superiore, convinto che questi non avrebbe più fatto ritorno. Il contrasto con Franchetti, che spingerà i due persino a battersi in duello, fu invece motivato da questioni di competenza: il G. non tollerava che un civile potesse dettare legge, anche se in un campo ristretto come quello degli esperimenti di colonizzazione.
Il 28 febbr. 1892 il G., per sua richiesta, fu esonerato dalla carica di governatore dell'Eritrea e collocato a disposizione del ministero della Guerra. Egli abbandonò la colonia senza neppure passare le consegne al successore, Baratieri; il suo sconsiderato comportamento fu aspramente criticato alla Camera anche perché, proprio in quel momento, la colonia si trovava in stato di allarme in seguito alla diserzione di alcuni capi abissini al soldo dell'Italia.
Tali critiche, unitamente alle accuse di aver ordinato fucilazioni e incendi di villaggi durante i due anni di governatorato, non arrecarono tuttavia alcun danno alla sua carriera. Nel dicembre del 1892 il G. fu nominato comandante della brigata "Friuli"; sette mesi dopo assumeva il comando della divisione militare di Bari e poco dopo veniva promosso tenente generale. Nel corso del 1895 fu a capo della divisione militare di Genova e successivamente di quella di Bologna. Tre anni dopo saliva ancora un gradino nella gerarchia militare assumendo il comando del XII corpo d'armata. Il 21 nov. 1901 Vittorio Emanuele III, che lo aveva in simpatia, lo nominò senatore.
Il G. si spense a Bologna il 20 marzo 1902, quando era al comando già da tre anni del VI corpo d'armata.
Aveva pubblicato: Per l'Eritrea (Roma 1894); La nostra politica africana. Timori e speranze di un ex funzionario eritreo (Imola 1895).
Fonti e Bibl.: A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. Dall'Unità alla marcia su Roma, Roma-Bari 1976, ad ind.; N. Labanca, La politica della memoria. Le carte inedite di A. G., governatore civile e militare della Colonia Eritrea, in Ricerche storiche, XIX (1989), 2, pp. 375-402; Id., In marcia verso Adua, Torino 1993, ad ind.; G. Puglisi, Chi è? dell'Eritrea, Asmara 1952, sub voce.