FOSCARINI, Antonio
Nacque a Venezia il 27 ag. 1570, terzogenito di Nicolò di Alvise del ramo di S. Polo, e di Maria Barbarigo di Antonio, sposatisi nel 1556. Dall'unione nacquero altri due maschi e tre femmine: Alvise (1560-1617), il primogenito, continuatore del casato, che sposò Lucrezia Gradenigo; Girolamo (1561-1580); Caterina, che sposò nel 1583 Lorenzo Priuli; Agnesina, che si maritò tre volte, con Marco Priuli, Leonardo Molin e Luca Contarini; Lucia, che si fece monaca. La guerra per Cipro ridimensionò sensibilmente le fortune della famiglia e il padre del F. fu costretto a cambiare il testamento salvaguardando con i resti del patrimonio unicamente i figli maschi. Orfano del padre a cinque anni, il F. subì poco dopo la perdita di un fratello e quella tragica e dolorosa della madre, per probabile suicidio, nel 1582. Soggiornò per alcuni anni a Padova ove era andato per curare più adeguatamente la sua istruzione. Risalgono a quel tempo alcune solide amicizie e la frequentazione del vivace ambiente intellettuale e politico della città, che ebbe decisiva influenza sulla sua formazione politica. A ventun anni assunse con il fratello la gestione del casato fino alla divisione consensuale, l'anno dopo, del patrimonio di circa 70.000 ducati: al F. toccò la metà, costituita da proprietà nel Padovano, nel Mestrino, nel Veronese e da alcuni immobili a Venezia, tra cui la dimora di famiglia a S. Polo, i cui proventi impiegò quasi esclusivamente al servizio dello Stato. Nel 1590 tentò senza successo l'estrazione della Balla d'oro, per anticipare l'entrata in Maggior Consiglio, che avvenne nell'agosto 1595, alla scadenza prevista. Nel settembre 1597 fu nominato savio agli Ordini entrando, seppure al livello più basso, nel Collegio, l'organo da dove passavano i principali affari pubblici e nel quale finivano i membri più autorevoli del gruppo dirigente della Serenissima. Da quella posizione il F. approfondì la conoscenza dei meccanismi istituzionali e partecipò al confronto tra conservatori e innovatori. Di particolare rilievo fu per il F. la personalità di Paolo Sarpi, di cui fu seguace. Rieletto savio agli Ordini nel 1598, il F. si segnalò in più occasioni come risoluto assertore della politica giurisdizionalista di Venezia. Le sue posizioni non erano sostanzialmente dissimili da quelle di patrizi moderati come Paolo Paruta o Giacomo Foscarini; lo erano però nella forma, nella determinazione ideologica che sottendevano e che fecero conoscere il F. come esponente radicale. Sempre nel 1598 il F., colpito da una grave malattia che gli fece temere la morte, redasse un testamento nel quale beneficiava, lui scapolo, i figli del fratello Alvise, e ricordava con sincera amicizia alcuni gentiluomini conosciuti a Padova e a Roma, oltre al cognato L. Priuli, cui affiderà la gestione degli affari quando sarà lontano da Venezia. Ristabilitosi, il F. tornò alla politica cercando soprattutto incarichi diplomatici (presso l'arciduca Ferdinando d'Asburgo e in Savoia), ma senza disdegnare altre opportunità. Nel 1601, come molti giovani patrizi agli inizi della carriera, accompagnò Antonio Priuli e Giovanni Dolfin, inviati a Parigi in occasione delle nozze di Enrico IV con Maria de' Medici. Il fascino che l'ex re di Navarra esercitava sui "giovani" aveva influito sulla decisione del F., che - dice un anonimo - si era aggregato alla missione "per desiderio di conoscere quella corte e formare pratica e cognitione degli affari politici" (Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P.D. 679). Nel 1603 ritentò l'elezione ad ambasciatore in Savoia. Fu nominato invece, nell'aprile 1605, podestà a Chioggia dove entrò il 14 agosto, rivelando, oltre allo scrupolo e allo zelo del servitore dello Stato, anche la spregiudicatezza e il patriottismo propri dei "giovani" più radicali.
Chioggia non era una sede particolarmente importante, ma, trovandosi al confine con lo Stato della Chiesa, alla vigilia dell'interdetto costituiva un avamposto della difesa della giurisdizione veneziana e della sua supremazia in Adriatico. L'azione di governo del F., che interpretava in modo vigoroso i compiti del rettore veneziano, fu guidata dal convincimento - mai abbandonato - che il suo ruolo non fosse solo quello di amministratore, ma di suggeritore politico. Nei suoi dispacci il F. dava accurate informazioni sugli aspetti quotidiani del suo governo, ma finiva per occuparsi sempre più estesamente di politica estera. Scoppiata nell'aprile 1606 la contesa dell'interdetto, la corrispondenza del F. tralasciò quasi del tutto Chioggia per offrire notizie sulla Curia romana di cui si mostrava sempre ampiamente edotto. Diversi anni dopo ricorderà così quest'esperienza: "Mentre mancavano da tutte le parti gli avvisi, trovai modo d'averne distinti e sicuri, con quella soddisfazione e servigio pubblico che si legge in tante e tante lettere dell'Ecc. Consiglio dei dieci e d'altro Magistrato. Non passò mai alcun Cardinale, Principe, Ambasciatore od altro personaggio, pure ne sono passati moltissimi, che non sia stato ricevuto nella mia casa e finalmente senza alcun risparmio della vita e delle sostanze, ho continuato due anni in quel travagliosissimo carico che chiamerò felicissimo fin ch'io viva per esser stato sotto gli occhi di V.a S.tà" (Rel. d. amb. ven., VI, Francia, p. 384). Apparivano già allora rivelatori il risentimento del F. verso la Spagna e la S. Sede, di cui biasimava il temporalismo con accenti talora aspri, e la sua fierezza per la potenza e il ruolo della Serenissima. L'alacre attività informativa del F., le orgogliose assicurazioni sulla fedeltà delle popolazioni sotto il suo governo e sulla simpatia che la causa di Venezia suscitava anche oltre Po, non derivavano solo dal senso del dovere, ma dalla passione. Sentimento che alimentò anche certe sue intransigenze nei confronti dell'azione mediatrice del cardinale F. de Joyeuse e dell'ambasciatore di Enrico IV a Venezia Ph. Canaye de Fresnes, che sperava in un rapido superamento dell'interdetto. Il F., come Sarpi, riteneva che la contesa sarebbe dovuta finire solo con una netta vittoria della Serenissima e una umiliazione del papa, e non risparmiò ironiche critiche ai negoziatori francesi. Nel giugno 1607 il F. lasciò Chioggia per tornare a Venezia, ricco di esperienza e di un accresciuto prestigio. Annota il Priuli nei Pretiosi frutti che il F. "usò tanta diligenza nell'indagare gli più intimi secreti di Papa Paolo V in tempo che, per la deferenza che all'hora vertevano fra la Santità Sua e la republica, non vi era ambasciator a quella Corte che non haveva il Senato da alcun'altra parte più sicuri né più importanti avisi che da lui, onde, grandemente avanzatosi di merito e di concetto, fu, ancor absente et in quel Reggimento, eletto… ambasciator ordinario in Francia". Era il 26 mag. 1607: il F. lasciò Venezia solo nel febbraio 1608 e giunse a Parigi, dopo una sosta a Lione, il 29. Lo accompagnava il viatico del Sarpi e di Nicola Contarini, con i quali sarà sempre in strettissimo contatto epistolare e dai quali verrà anche informato del graduale mutamento dell'equilibrio interno del patriziato veneziano a favore dei moderati. Molti infatti tornavano a riconsiderare i vantaggi della consueta prudenza della Serenissima e anche alcuni innovatori si interrogavano sui limiti di una politica che conduceva a una rottura completa con la Chiesa. Il F. aveva il compito di mantenere gli ottimi rapporti con Enrico IV e soprattutto di seguire le mosse del re sulla questione dei Grigioni, con i quali la Repubblica stava trattando il passaggio delle truppe arruolate Oltralpe; doveva altresì difendere con fermezza la religione cattolica presso quella corte perché su Venezia non cadessero ombre di ambiguità. Egli aveva preso il posto di Pietro Priuli, innovatore come lui, sarpiano e sostenitore dell'amicizia con la Francia. La sua designazione rappresentava dunque una continuità, ma con l'obiettivo più complesso di inserire la Serenissima nel gioco della politica internazionale con la dignità della grande potenza. Con delusione dei sarpiani, Enrico IV tendeva però a escludere confronti diretti con Roma, per non turbare la pacificazione religiosa nel suo Regno. Il F. credeva che fosse il momento per Venezia di perseguire una politica più dinamica entrando in una vasta alleanza antiasburgica e antiromana che sola ne avrebbe potuto preservare l'indipendenza: indispensabili per il F. le relazioni diplomatiche con le Province Unite in lotta per l'affrancamento dalla Spagna, con l'Unione protestante, e gli accordi con i Grigioni e i Cantoni svizzeri riformati. Il suo attivismo non sfuggì agli stretti controlli della Spagna e della S. Sede, i cui diplomatici - era nunzio il card. R. Ubaldini - presero a contrastarlo con ogni mezzo. Effettivamente, pur messo sull'avviso, il F. si esponeva molto, adoperandosi con convinzione e coraggio per attuare la politica caldeggiata dai suoi amici, non senza difficoltà personali, stretto tra i doveri del suo ufficio e una attività parallela segnata da sempre più assidui contatti con gallicani e ugonotti come J. Leschassier, lo storico Auguste de Thou, il rappresentante olandese a Parigi F. d'Aerssen, George Carew, ambasciatore di Giacomo I, Christoph von Dohna e il principe Cristiano d'Anhalt, esponenti dell'Unione protestante, spingendosi a fare da intermediario tra questi e il gruppo sarpiano. A Venezia le insistenti profferte di lega incontravano cautela perché si riteneva che la Spagna fosse troppo forte e si sospettava che Enrico IV, senza adeguate risorse e con una situazione interna incerta, finisse, una volta spinte le cose all'estremo, per fare marcia indietro.
I densi dispacci che il F. inviava al Senato, impreziositi dai suoi penetranti giudizi, in pari tempo illustravano bene gli avvenimenti e rivelano la evidente difficoltà di giustificare presso il re la linea di neutralità di Venezia e le sue ragioni storiche, di nascondergli i contrasti esistenti in seno al gruppo dirigente della Repubblica, e di spingere il proprio governo a operare scelte sostenute solo da una minoranza. Intanto il F. si sforzava di apparire il rappresentante di una grande potenza, attento allo sfarzo, all'immagine, all'etichetta; fino allo scontro fisico con l'ambasciatore di Spagna don Pedro de Toledo che aveva osato contestargli un diritto di precedenza. Le manovre per screditare il F. crebbero di intensità nell'ultimo periodo della sua missione, alimentando anche quella fama di "bizzarria" che sempre lo avrebbe accompagnato. Ostentava infatti anticonformismo, esibiva amicizie compromettenti, frequentava personaggi ambigui e pericolosi, senza demordere dai suoi propositi, nonostante difficoltà e delusioni. Sul finire del 1608 si accese la controversia tra Venezia e la S. Sede per l'abbazia di Vangadizza, che il papa aveva assegnato al card. Scipione Borghese Caffarelli. Il F. informò il Senato che la Francia era disposta a dare il suo appoggio, suggerendo di ricorrere alla sua mediazione come ai tempi dell'interdetto, cosa che non fu necessaria perché si addivenne al compromesso di assegnare l'abbazia al card. Agostino Priuli, con disappunto del F., solo in virtù di una concessione papale.
Imbarazzante fu anche il "caso" della divulgazione nell'agosto 1609 di una lettera di Jean Diodati a Ph. Duplessis Mornay, nella quale si parlava delle possibilità di successo di una riforma protestante a Venezia. La lettera suscitò sorpresa, scalpore e ira a Parigi, Venezia e a Roma, ove ne era giunta copia. Si parlò di una provocazione per favorire il disegno di Enrico IV di normalizzazione dei rapporti tra Francia e S. Sede e forse per indurre Venezia ad accettare le offerte di alleanza del sovrano. Ma Venezia respinse proprio nel 1609 l'ipotesi di unirsi alla Unione evangelica e nel 1610 manifestò ulteriore cautela, bocciando le proposte di intese commerciali con Fiamminghi e Inglesi. Nel 1609 si avvicinava la fine del conflitto tra Spagna e Province Unite con la mediazione di Enrico IV, desideroso di affrettare una pace che avrebbe rafforzato il fronte protestante. Evento che il F. invece cercava di rallentare perché il conseguente disimpegno spagnolo avrebbe accresciuto la pressione asburgica su Venezia. Egli poteva solo sperare in un altro conflitto, che sembrò infatti profilarsi agli inizi del 1610, a seguito della disputa accesasi l'anno prima tra l'imperatore Rodolfo II e la Lega evangelica per la successione del Ducato di Clèves e Juliers. Il re di Francia si inserì nella contesa e mobilitò le sue truppe. Il F., vista l'occasione per Venezia di giocare ancora il ruolo di grande potenza, ne informò il Senato, suggerendo di accettare le richieste di lega da parte del re. Ma il 14 maggio Enrico IV fu assassinato. Nei mesi seguenti un F. consapevole che il suo compito veniva ridimensionato a una linea diplomatica di sopravvivenza e che a Venezia si rafforzava la linea neutralista, delineava i mutamenti che la scomparsa del sovrano aveva determinato in Francia. Sperò addirittura che il duca di Savoia fosse attaccato dalla Spagna per costringere la Repubblica a mutare politica e intensificò i contatti con i protestanti tedeschi e l'Inghilterra, pur essendo scettico sulle intenzioni di Giacomo I e pensoso sui rischi di una politica che sospingesse Venezia nel campo dei nemici del cattolicesimo, con grave suo nocumento.
Il 5 luglio 1610 giunse al F. la nomina ad ambasciatore ordinario in Inghilterra, nata dal sostegno degli innovatori che non demordevano dal tentativo di stringere forti legami con il mondo riformato, non meno che dal riconoscimento del servizio prestato, lodato dalle stesse autorità francesi dalle quali fu fatto cavaliere con il privilegio di inserire i gigli di Francia nel suo blasone. Alle lodi si erano aggiunte tuttavia, insidiose, anche le critiche e le insinuazioni sul suo stile diplomatico, sulla sua vita privata, su un presunto libertinismo. A causa del ritardo del successore, il conservatore Giorgio Giustinian, il F. fu trattenuto ancora a lungo a Parigi e se ne lamentò, invocando la stanchezza, l'assenza da casa, le spese sostenute, nonché la perdita dolorosa del cognato L. Priuli e di suo figlio, ma non smise di attendere ai propri doveri portando avanti, in particolare, le trattative con i Grigioni fino alla partenza, che avvenne il 23 apr. 1611. Il F. giunse a Londra il 4 maggio con la magnificenza che lo connotava e animato dal consueto alacre spirito di servizio. Si inserì agevolmente nel sistema politico-diplomatico inglese, instaurò ottimi rapporti personali con la corte e avviò una diligentissima raccolta di informazioni che, unitamente alla prodigiosa capacità di tessere contatti con tutta Europa, resero proficua la sua missione, ben illustrata dalle utilissime sintesi dei dispacci che anche tre volte al giorno inviava a Venezia. Una messe di informazioni che però il governo della Serenissima non collocava in quel piano operativo di politica estera cui il F. mirava. Allora, come a Parigi, accentuò il suo ruolo "indipendente", adoperandosi, con l'appoggio del Sarpi e dell'ambasciatore inglese a Venezia Dudley Carleton, per spingere la Repubblica a un'alleanza con il Ducato di Savoia, le Province Unite, l'Unione evangelica e l'Inghilterra. E per dare impulso a questa strategia, il F. intensificò la propaganda antipapista che ebbe un importante momento nella pubblicazione, da lui favorita, della Istoria del concilio tridentino di Sarpi. I timori di uno scontro frontale con la Spagna e la riluttanza di Giacomo I alla guerra - Carleton, sconfessato, fu trasferito all'Aja - resero vani gli sforzi del Foscarini. Su di lui si appuntarono anche dei sospetti per le lodi che aveva manifestato alle spregiudicate mosse del duca di Savoia nella crisi monferrina, sgradite a Venezia ma nelle quali il F. vedeva il segno della vitalità che mancava al proprio Stato. A partire dal 1614 ripresero le accuse e le insinuazioni che avevano già oscurato il suo soggiorno parigino. Artefice e manovratore rancoroso fu questa volta il segretario del F., Giulio Muscorno, il quale, tornato a Venezia, lo denunciò agli inquisitori di Stato. Deluso e amareggiato, egli chiese di rientrare in patria, ma solo dopo l'arrivo del successore Gregorio Barbarigo nell'autunno del 1615 poté lasciare l'incarico e il 22 dicembre partire da Londra. Dopo un lungo e tortuoso viaggio, nel corso del quale toccò Parigi, Lione, Torino e Mantova partecipando a incontri politico-diplomatici, giunse a Venezia nel marzo 1616, dove fu subito imprigionato con l'accusa di propalazione di segreti di Stato. Iniziava una lunga istruttoria con le testimonianze di colleghi, amici, servitori e collaboratori del F., molti dei quali utilizzarono l'occasione per sfogare malanimo, rancore politico o semplice invidia. Dieci anni di vita pubblica e privata furono setacciati senza trascurare nulla degli atti, del carattere e degli aspetti più intimi della personalità dell'imputato. La puntigliosa inchiesta si concluse il 30 lug. 1618 con l'assoluzione piena del F., che con la libertà poté riprendere anche l'attività politica. Anzitutto presentò al Senato le relazioni sulle due ambascerie, per l'occasione riunite, che avrebbe dovuto produrre già da due anni - dichiarava nella premessa - se non avesse trovato, appena giunto in patria, la stessa persecuzione che in Inghilterra "difficultò e sconcertò notabilmente il pubblico servizio". Non nascose l'amarezza per i patimenti causati da "mille invenzioni e da infinite calunnie", si scusò per il ritardo e ammise che, "avendo in così lungo tempo tutti gli affari del mondo più volte mutato e rimutato faccia, convengono quelle cose che dette allora sarebbono state fruttuose, ora, portate fuori di tempo, esser già in gran parte fatte inutili". Non inutile era tuttavia il quadro che riuscì sinteticamente ma acutamente a dare degli aspetti più rilevanti dei due paesi, senza tralasciare nulla che potesse illuminare i governanti veneziani sul carattere di quei popoli e dei loro capi. Un resoconto di ampio respiro, che non trascurò l'incipiente colonialismo inglese né i pericoli dell'aggressiva potenza navale dei due paesi per il futuro della Serenissima, cui - considerandone con pessimismo le istituzioni - rimproverava l'incapacità di reagire. Nel settembre 1618 il F. fu eletto savio di Terraferma e si reinserì così a pieno titolo nel cursus honorum.
Uomini come lui tornavano utili in momenti difficili e drammatici per l'Europa, come la guerra dei Trent'anni, e per Venezia (è di quell'anno la scoperta della "congiura" del legato spagnolo Alonso Bedmar contro Venezia), ora che anche i conservatori ammettevano la necessità dell'appoggio francese e di un'alleanza tra i principi italiani per la difesa della libertà di Venezia.
Il F., rieletto savio di Terraferma nel 1620, ricevette l'ambasciatore olandese d'Aerssen, giunto a perfezionare i rapporti diplomatici con la Repubblica, e quello francese R. Courtin de Villiers, con il quale discusse le richieste di Venezia per allentare l'accerchiamento asburgico e di intesa per la Valtellina, sulla quale la Francia e la Repubblica esprimevano differenti posizioni. Il F. svolse un ruolo prezioso grazie all'esperienza e alla personale conoscenza degli interlocutori, ma non nascose, riferendone in Collegio, l'esiguità dei margini di manovra ormai a disposizione di Venezia. Fu l'ultimo atto di rilievo del F., che nel dicembre 1621 fu ancora eletto nella zonta del Senato e nel marzo del 1622 giudice sopra gli Atti. L'8 apr. 1622, tra lo sconcerto generale, dentro e fuori Venezia, alimentato dalla rapidità e dalla segretezza con le quali si svolse la vicenda, fu arrestato per ordine del Consiglio dei dieci con l'accusa di illeciti contatti con stranieri e propalazione di segreti di Stato. Il 13 aprile vennero intimate le difese all'imputato che ebbe poche possibilità di opporsi alle pesanti accuse, al clima di sospetto che gravava su Venezia in quegli anni e, in fondo, alle accresciute ostilità di cui da tempo soffriva. Il verdetto di colpevolezza fu unanime: tredici giudici si pronunciarono per la pena capitale e solo quattro per l'ergastolo. Nella notte del 20 apr. 1622, dopo aver dettato ai carcerieri un succinto testamento in favore dei nipoti, il F. fu strangolato in carcere e il mattino seguente il suo corpo fu appeso per i piedi tra le due colonne della piazzetta S. Marco. Pochi mesi dopo si scoprì la falsità delle accuse, i colpevoli furono giustiziati e il F. solennemente riabilitato dal Consiglio dei dieci il 16 genn. 1623.
Una scelta obbligata - spiega lo Scarabello -quella del governo veneziano: "Non coprire, non nascondere l'infortunio giudiziario, ma anzi, anche su di esso impiantare un'operazione la quale ridesse, per nuovo verso, rassicurazione in generale sulla giustizia, nonché rassicurazione specifica alle regole di solidarietà di gruppo che presiedevano il rapporto collettivo di potere fra patrizi". Venezia alimentava anche così il suo mito: un clamoroso errore giudiziario diventava strumento di affermazione della sua mitica giustizia, come ancora un secolo dopo riconoscerà un illustre discendente del F., il doge Marco. Ma il "caso" del F. acquisterà valore emblematico nel dibattito tra chi era favorevole a mutare ruolo e prerogative del Consiglio dei dieci e chi, al contrario, pensava che la sventurata fine del F. fosse lo scotto da pagare alla libertà e all'indipendenza; rimarrà comunque nella memoria collettiva del patriziato e della società veneziana fino alla fine della Repubblica di S. Marco.
Il corpo del F. fu preso in consegna dai nipoti Nicolò e Girolamo e trasferito dal cimitero dei Ss. Giovanni e Paolo ai Frari, dove con solenni esequie fu deposto nell'arca di famiglia, mentre un busto con iscrizione fu collocato qualche tempo dopo nella chiesa di S. Stae. Il ricordo del F. sopravvisse anche dopo la caduta della Serenissima e nel clima romantico la tragicità della vicenda che lo vide protagonista alimentò la creatività di poeti e tragediografi, nonché postume diatribe storiche tra i detrattori e gli estimatori della Repubblica di Venezia e dei suoi ordinamenti.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd. I, Storia veneta 19: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, III, cc. 541 s.; Ibid., Provveditori e sopraprovveditori alla Sanità. Necrologi, reg. 814; Ibid., Avogaria di Comun, regg. 51, cc. 103v-104v; 56, c. 115; XII, c. 104t; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci. Giuramenti rettori, reg. 5, c. 4; ibid. Lettere rettori (Chioggia), b. 74; Ibid. Lettere ambasciatori. Francia, bb. 11, 14; Ibid., Consiglio dei dieci. Misc. codd., reg. 61, c. 11; Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni Pregadi, regg. 6, cc. 19, 20, 188; 8, cc. 13v, 19v, 130v; 9, cc. 14v, 130v; 10, cc. 11v-12v; Ibid., Dieci savi alle decime in Rialto, b. 165 n. 242; Ibid., Ospedali e luoghi pii, b. 304/4; Ibid., Collegio. Lettere principi. Savoia, filza. 43; Ibid., Senato. Dispacci rettori. Chioggia e Dogado, filza. 1; Ibid. Dispacci ambasciatori. Francia, filze 38-43; ibid. Inghilterra, filze 10-15; ibid. Savoia, filza 29; Ibid., Senato. Deliberazioni. Secreta, reg. 100, cc. 179 s.; Ibid., Inquisitori di Stato, bb. 155, 173, 471, 953; Ibid. Raccolta Gregolin, bb. 4, 35; Ibid., Notai di Venezia. Testamenti, bb. 373 n. 15; 402 n. 48; 977 n. 58; 1191 n. 231; 1241 n. 25; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. it. cl. VII 832 (=8911), 833 (=8912), 836 (=8915), 837 (=8916): Consegi; ibid. 2390 (=11722); ibid. 1059 (=8653), cc. 200-209; ibid. 296 (=5846), cc. 149-166: relazione di Francia attr. al F.; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, cc. 29-30v; ibid. 2014/12, cc. 1, 5-7; 3001, fs. 7; 3184; 2995/XII, XV; Mss. Gradenigo Dolfin, b. 200/vl. XX, cc. 37-44; Lettere di fra' Paolo Sarpi, a cura di F.L. Polidori, Firenze 1863; Relazioni degli amb. veneti al Senato, a cura di L. Firpo, I, Inghilterra, Torino 1965, pp. 637-662; VI, Francia, ibid. 1967, pp. 189, 289-301, 382-430. Va ricordato, sebbene non ve ne sia traccia e la sua effettiva pubblicazione sia sempre stata dubbia, il libello intitolato Detti e fatti di A. F. ambasciatore di Venezia, attribuito a G.F. Biondi. E. Rott, Henri IV, les Suisses et la Haute Italie. La lutte pour les Alpes (1598-1610), Paris 1882, ad Ind.; V. Malamani, Un episodio letterario del 1827, in Archivio veneto, s. 2, XXIX (1885), 1, pp. 317-330; G.S. Gargano, Scapigliatura italiana a Londra sotto Elisabetta I e Giacomo I, Firenze 1923, pp. 105-132, 150 s., 159 s.; [L. Zacchia Rondinini Zorzi], L'ambasciatore A. F., Roma 1941; S. Tramontin, S. Stae. La chiesa e la parrocchia, Venezia 1961, passim; S. Secchi, Antonio Foscarini un patrizio veneziano del '600, Firenze 1969; J.W. Bouwsma, Venezia e la difesa della libertà repubblicana, Bologna 1977, ad Ind.; G. Benzoni, Castrino, Francesco, in Diz. biogr. degli Italiani, XXII, Roma 1979, pp. 216-219; G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, ad Ind.; Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni - T. Zanato, Milano-Napoli 1982, ad Ind.; F. Ambrosini, Paesi e mari ignoti. America e colonialismo europeo nella cultura veneziana (secc. XVI-XVII), Venezia 1982, ad Ind.; G. Scarabello, Paure, superstizioni, infamie, in Storia della cultura veneta, 4, Il Seicento, II, Vicenza 1984, pp. 353 ss.; G. Cozzi, Venezia barocca. Conflitti di uomini e di idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, ad Ind. Sul F. nella letteratura: I. Pindemonte, A. F. e Teresa Contarini, Venezia 1797; G.B. Niccolini, A. F. tragedia, Firenze 1827; G.B. Gaspari, La tragedia A. F. di G.B. Niccolini presa in esame da G.B. Gaspari giuntavi un'aringa inedita di M. Foscarini, Venezia 1827; F. Cicognani di Modigliana, A. F. Tragedia, Firenze 1830; A. F. Racconto storico del secolo XVII, I-IV, Milano 1851; N. Barozzi, Diploma di cavaliere ad A. F. da parte del re Luigi XIII, Venezia 1855. E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane…, Venezia 1824-53, III, pp. 507 ss.; V, p. 620; VI, pp. 746 s., 845; Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun: A. Giomo, Indice dei matrimoni patrizi per nome di donna, I, p. 63.