FREGOSO (Campofregoso, Fulgoso), Antonio (Antognotto, Antonietto) Fileremo (Filareno)
Antonio (che più tardi assunse l'appellativo di Fileremo) nacque probabilmente a Carrara, intorno al 1460, figlio illegittimo di una non meglio identificata Giovanna e di Spinetta, della nobile famiglia genovese dei Fregoso, signore della città. Privo di eredi maschi, Spinetta legittimò il figlio con atto irregolare poi sanato dall'imperatore Federico III.
Spinetta, legato alla politica di Francesco Sforza, fu anche "dominus de Consilio secreto"; nel suo testamento aveva nominato Cicco Simonetta amministratore dei suoi beni e tutore del figlio. Dopo la morte di Spinetta, nel 1467, il F. visse presso di lui a Milano. Nel 1472 Galeazzo Maria Sforza concesse ufficialmente la cittadinanza milanese al F., ma l'anno seguente il Simonetta, in qualità di ministro ducale, lo privò di Carrara e della Lunigiana, passate a Federico Malaspina, ricompensandolo col miraggio del feudo di Sannazzaro in Lomellina. In occasione del passaggio delle insegne ducali a Gian Galeazzo il F. fu fatto cavaliere (1478). È da credere che l'eliminazione del suo protettore Simonetta, giustiziato due anni dopo, non fosse senza ripercussioni su di lui, che lasciò la corte milanese per un breve periodo spostandosi a Genova. La sua posizione defilata gli consentì comunque di ritornare; sposò pure una Visconti, Fiorbellina di Lodrisio, da cui ebbe Spinetta e Tiberio. Continuando a mostrare un atteggiamento remissivo e accomodante nel 1499 giurò fedeltà a Luigi XII quando questi conquistò il Ducato di Milano; mantenne così il titolo di cavaliere, ma perse anche formalmente il feudo di Sannazzaro.
Si appartò dunque nella villa di Colturano, sulla strada di Lodi, da cui prudentemente inviò le sue prime opere a Iafredo Carlo, presidente del Senato milanese per conto dei Francesi. Il suo ritiro non gli impedì comunque di frequentare i circoli milanesi di Cecilia Gallerani e Ippolita Sforza Bentivoglio (come risulta dalle novelle, I, 21 e III, 9 di M. Bandello). L'avvicendarsi di Sforza, Francesi e Spagnoli dopo il 1512 non si sa quali cambiamenti comportò nella vita del F., che vari indizi inducono a credere morto intorno al 1530. Il fatto che venga ricordato fra i poeti menzionati da L. Ariosto nell'Orlando furioso (XLVI, 16, vv. 3 s.) nell'edizione del 1532 non serve a spostare il terminus post quem dal momento che molti fra coloro citati erano a quella data già defunti.
Del 1505 e del 1507 sono due poemetti-visione: il Riso di Democrito e il Pianto di Heraclito, ciascuno in quindici capitoli di terzine. Il primo, attraverso un impianto e un lessico di intonazione dantesca, ma con qualche locuzione comune ai poeti realisti toscani, introduce l'autore alle bellezze di un giardino e dopo l'incontro, in verità sbiadito, con Diogene e Platone, il protagonista si abbevera agli zampilli che sgorgano dal seno di una statua nutrice di quei "divi", la Filosofia. Nel Pianto di Heraclito il F., condotto da Dianeo, novello Gerione, giunge dal filosofo che alimenta una fonte di lacrime. Egli descrive la vita come un progredire di affanni da cui il piacere di amore e il timore della morte non ci fa separare. L'unico rimedio che lascia intravedere riposa nelle poche vere amicizie. Il problema della fortuna viene esposto in forma di dialogo dall'autore, da Lancino Curti e da Bartolomeo Simonetta, che ricorda le sventure dello zio Cicco, nel Dialogo de Fortuna. I discorsi dei tre animano Verità che esce nuda da una fonte per rivelare che Fortuna è figlia del giudizio umano e dell'umana opinione.
Non più in terzine, ma in ottave, è l'operetta minore Contenzione di Pluto e Iro. Sempre in ottave è l'opera più famosa: la Cerva bianca (1510); il titolo allude a una caccia d'amore subito interrotta dal F. che, dopo essere stato ospitato dall'anziano Eubulo, personificazione della ragione e del "natural iudizio", incontra nel bosco, dove aveva perduto i cani da caccia, Apuano, nipote del vecchio che ha potuto salvare lui dalle ire di Diana ma non la ninfa amata, Mirina, ora tramutata in cerva. I due si uniscono a Filarete per discutere di amore. Tre giorni dopo, lasciato il palazzo di Apuano con un servo di scorta, il protagonista si avventura nel luogo degli amanti infelici, dove viene catturato dai soldati di Amore. Liberato per intercessione di una matrona, Ragione, supera l'amaro fiume che divide il regno di Antero (l'amore carnale), da quello di Amore; significativamente il servo non lo segue più e si ferma a una festa di contadini. Giunge poi nella splendida città di Erotopoli, inaccessibile a Mala-lingua e Mal-pensiero. Qui la bella Ippolita gli mostra l'ospedale degli innamorati, il cui unico medico è il Tempo. Quindi incontra l'autore del Roman de la Rose e Adone che gli restituisce i cani perduti nel bosco.
Nel 1521 il F. volgarizzò le Silvae di Lancino Curti e nel 1525 pubblicò le sue Silve, dette anche Opera nova, che raccolgono un Lamento d'Amore mendicante, il Dialogo de musica, la Pergoletta de le laudi de Amore, i Discorsi cottidiani non vulgari, De lo istinto naturale, De la probità e infine De i tre peregrini, in cui Eutimia accompagna Apuano, Filarete e il Carrarese attraverso una fiera, che è l'emporio di Fortuna, distogliendoli dal comperare quel che offrono Fortuna e Voluttà tramite Epicuro.
Le traduzioni indicate dal Dobelli, una in francese di Michele d'Amboise (1547), l'altra in spagnolo di Alonso Lobera (1554), testimoniano la fama internazionale del Riso di Democrito e del Pianto di Heraclito (noti anche come I doi filosofi), che in una cornice dantesca sviluppano un mito rintracciabile nel De ira di Seneca. Anche le miserie umane elencate da Eraclito, che si rifugia in un aristocratico disimpegno, si riconnettono al libro VII della Naturalis historia di Plinio prima ancora che alle lamentazioni medievali. Le convinzioni di Democrito si sostanziano di un biografismo, sia pure esemplare, nel Dialogo de Fortuna: fondamentalmente la propria virtù può sempre essere travolta dalla fortuna che non ha niente a che vedere con la volontà divina: in questo dramma tra caso e libertà morale si registra la sconfitta, in linea col pensiero di Erasmo, della ragione. Non è strano, perciò, che le costruzioni allegoriche del Dialogo siano vicine a quelle del Furioso e che quelle De i tre peregrini siano in bilico fra queste e quelle più dichiaratamente altomedievali, e consuete nella cultura lombarda, della Cerva bianca. È indicativo che il F. prendesse l'appellativo di Fileremo, cioè amante della solitudine, e che il Crescimbeni lo considerasse più filosofo che poeta.
Le opere del F. sono ora edite da G. Dilemmi (A.F. Fregoso, Opere, Bologna 1976), che ne segnala le edizioni prima di lui raccolte dal Mazzuchelli e dal Renier.
Il F. oltre da Ariosto fu ricordato da Cassio da Narni (Mazzuchelli) in La morte del Danese, Galeotto del Carretto nel Tempio d'Amore (Mediolani 1518, cc. F ii e F iii), Filippo Oriolo da Bassano (Cian) in Il monte Parnaso (XVII, 22-24). Pietro Capretto sacerdote di Pordenone lo fece interlocutore dei suoi tre dialoghi De amoris generibus (Trevisii 1498), Antonio Pelotto gli consegnò l'arte e l'ingegno in un suo testamento spirituale (Raccolta milanese, Milano 1756, f. 22). Fra le sue relazioni si contano l'amico Lancino Curti che gli dedicò un epigramma latino (a c. 145r del suo Epigrammaton libri decem, Mediolani, Foyot, 1521), il cugino Battista Fregoso, il poeta Guidotto Prestinari, Serafino Aquilano (per il quale il F. partecipò con i suoi versi all'omaggio delle Collettanee), lo storico Bernardino Corio e Gaspare Visconti. Quest'ultimo insieme con Niccolò da Correggio e con il F. stesso raggiunse, secondo la testimonianza del contemporaneo Vincenzo Calmeta, il vertice della produzione poetica in area lombarda, ambito in cui rientrarono anche gli emigrati toscani Bernardo Bellincioni e Antonio Cammelli, rimatori comici che pure ebbero contatti col Fregoso. Il primo lo cita in due sonetti (Le Rime di B. Bellincioni, a cura di P. Fanfani, Bologna 1876-78, I, CXXXI e II, XX), il secondo lo sfida sul proprio terreno con uno scambio di sonetti burchielleschi (I sonetti faceti di A. C., a cura di E. Percopo, Napoli 1908, son. CLXXIX) e lo ricorda fra i suoi amici (CCCVII).
Fonti e Bibl.: V. Calmeta, Prose e lettere edite e inedite, a cura di C. Grayson, Bologna 1959, pp. XVII, LVI, 11, 15, 25, 49, 71; G.M. Crescimbeni, Dell'istoria della volgar poesia, Venezia 1730-31, I, pp. 61, 345 s.; III, pp. 318-320; G.M. Mazzuchelli, Notizie intorno alla vita ed alle opere di A.F. F. nobile genovese, in Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, XLVIII, Venezia 1753, pp. 3-17; E. Repetti, Di Antonietto Campofregoso signore di Carrara poeta volgare, in Antologia, V (1822), pp. 177-196; V. Cian, Un decennio della vita di P. Bembo (1521-1531), Torino 1885, pp. 228, 233; R. Renier, G. Visconti, in Arch. stor. lombardo, XIII (1886), pp. 793-802; C. Lochis, G. Prestinari e di un codice delle sue poesie, in Bergamo o sia Notizie patrie. Almanacco scientifico-artistico-letterario, LXXIII (1887), pp. 10-18; R. Renier, Poeti sforzeschi in un codice di Roma recentemente segnalato, in Rass. emiliana di storia, lett. ed arte, I (1888), pp. 18 s., 23 s.; F. Flamini, Viaggi fantastici e "trionfi di poeti", in Scritti storici, letterari efilologici (nozze Cian - Sappa Flandinet), Bergamo 1894, pp. 284-287; Id., Lo Zodiacus vitae del Palingenio, in Spigolature di erudizione e di critica, Pisa 1898, pp. 193 ss.; A. Dobelli, L'opera letteraria di A.F. F., Modena 1898; L.F. Benedetto, Altre fonti dell'Adonedi G.B. Marino, in Giorn. stor. della lett. italiana, LVI (1910), p. 142; Id., Il "Roman de la Rose" e la letteratura italiana, in Beihefte zur Zeitschrift für romanische Philologie, XXI (1910), pp. 219-238; G.G. Musso, La cultura genovese fra il Quattro e il Cinquecento, in Miscellanea di storia ligure, Genova 1958, pp. 131, 134, 176; D. Isella, La cultura lombarda e la letteratura italiana, in Atti del VII Congresso dell'Associaz. int. per gli studi di lingua e lett. ital., Bari 1970, pp. 59 s.; G. Dilemmi, Di un poeta "milanese" fra Quattrocento e Cinquecento: A.F. F., in Studi di filologia e di letteratura italiana offerti a C. Dionisotti, Milano-Napoli 1973, pp. 117 ss. (confluito nell'introduzione alle Opere del F.); Id., Le rime di G. Prestinari, in Studi di filologia italiana, XXXIV (1976), pp. 187, 199, 229, 240; M. Santoro, Fortuna, ragione e prudenza nella civiltà letteraria del Cinquecento, Napoli 1978, pp. 187-233; P. Vecchi Galli, La poesia cortigiana tra XV e XVI secolo. Rassegna di testi e studi (1969-1981), in Lettere italiane, XXXIV (1982), pp. 105, 108-112, 128; P. Bongrani, Lingua e letteratura a Milano nell'età sforzesca. Una raccolta di studi, Parma 1986, ad Indicem e, per gli usi linguistici, particolarmente a pp. 121, 135 n.