DUGNANI, Antonio
Nacque a Milano l'8 giugno 1748 da Carlo e da Giuseppa dei conti Dati della Somaglia, in una delle più ragguardevoli famiglie patrizie milanesi. Venne battezzato il 24 sett. 1748.
Dopo aver compiuto i primi studi a Milano e aver conseguito la laurea in utroque iure all'università di Pavia. fu avviato dai genitori alla carriera ecclesiastica. Trasferitosi a Roma, entrò in prelatura: nel 1770 era già cameriere segreto di Clemente XIV, primicerio della nazione degli Armeni e dal 1° settembre di quell'anno avvocato concistoriale. Il 21 sett. 1771 ricevette l'ordinazione sacerdotale nella cattedrale di Frascati. Nel 1772 divenne prelato domestico del pontefice.
Sotto il pontificato di Pio VI la sua carriera proseguì sia in Curia sia nell'ambito pastorale: dal 1778 divenne uditore del camerlengo, cardinale Carlo Rezzonico, in sostituzione di Alessandro Mattei, quindi vicario della basilica di S. Giovanni in Laterano e consultore della congregazione dei Riti.
Ricopriva queste cariche quando, l'11 apr. 1785, Pio VI lo elevò all'arcivescovado di Rodi. Il 12 giugno ricevette la consacrazione episcopale dalle mani del cardinale C. Rezzonico e due giorni dopo ebbe l'incarico di nunzio apostolico in Francia, alla cui corte presentò le lettere credenziali soltanto nell'aprile del 1787.
Quando egli vi giunse, la sede di Parigi tra le nunziature delle grandi potenze cattoliche era quella che accoppiava a un grande prestigio una relativa facilità nei rapporti con la corte, nonostante il tradizionale spirito di autonomia della Chiesa gallicana. Ciò forse contribuì a rendere il nunzio sostanzialmente impreparato ad affrontare gli avvenimenti rivoluzionari, benché siano forse esagerate le critiche mosse al suo comportamento particolarmente dalla storiografia francese di parte cattolica (Pisani, Gendry, Masson). Il D., in effetti, ebbe il merito di fornire alla segreteria di Stato una puntuale messe di informazioni e anche alcuni giudizi critici atti a far comprendere la gravità della situazione. Fin dai primi giorni dopo l'apertura degli Stati generali (Segr. di Stato, Francia 573, f. 225: dispaccio dell'11 maggio 1789) egli avvertiva: "Tutta la Nazione è imbevuta delle massime le più sediziose e detestabili: il di lei carattere pieghevole e mutabile potrebbe dar delle speranze, ma il vigore e l'energia necessaria manca totalmente dalla parte che dovrebbe regolar tutto. Che se alla fine gli animi si riuniranno, la Corte, il Clero e la religione si troveranno in un pericolo tanto maggiore che niuno si vede in grado di rimediarvi" (cit. in Brezzi, p. 284).
Soprattutto al D. viene mosso l'addebito di non aver compreso le cause della rivoluzione, che all'inizio - per quel che riguardava gli affari ecclesiastici - reclamava soltanto la soppressione degli eccessivi privilegi del clero. Accusa fondata, ma non conclusiva, dal momento che l'insufficiente comprensione del fenomeno rivoluzionario fu un male molto comune tra gli osservatori di quegli avvenimenti; e inoltre il legame organico tra Chiesa cattolica e ancienrégime, che era il bersaglio globale della rivoluzione, non poteva certamente essere rescisso grazie all'azione del Dugnani. Del resto, proprio le informazioni distorte del D. - tese a far credere a Roma che sia i provvedimenti per la confisca dei beni del clero, sia le intenzioni di annessione di Avignone e del Contado Venassino alla Francia potessero essere parati o attenuati senza che Roma facesse alcun passo diretto presso il governo francese, in quanto riteneva ancora che il perno di ogni decisione definitiva fosse il re su cui aveva grande influenza l'abate Maury (Segr. di Stato, Francia 574, dispacci del novembre e dicembre 1789) - erano semmai utili a non esasperare le relazioni tra la S. Sede e l'Assemblea nazionale.Più complessa è la valutazione che si può dare sull'operato del D. intorno a quel problema che provocò la rottura aperta tra Roma e la Rivoluzione, cioè la costituzione civile del clero. Quando nel luglio 1790 il D. ottenne da Luigi XVI il testo di progetto relativo ad essa, con l'invito a fare rapidamente le osservazioni critiche che avesse ritenuto opportune, egli declinò tale incombenza limitandosi ad inviarlo a Roma: lo stesso àtteggiamento attendista egli mantenne nei confronti dei vescovi che chiedevano a lui consiglio sul da farsi. La sua opinione era che una decisione su un argomento di tale importanza, quale era l'organizzazione del sistema ecclesiastico in Francia e i suoi rapporti con il potere civile, potesse essere presa soltanto dalla S. Sede, alla quale egli - confermato in ciò dai vescovi fedeli a Roma, ma più attivi all'interno dell'Assemblea nazionale - trasmetteva la convinzione che una completa ripulsa della Costituzione civile avrebbe potuto provocare tra il clero francese, imbevuto di idee gallicane, uno scisma di vaste proporzioni.
Sulla base delle informazioni ricevute soprattutto da J.-R. Boisgelin e da F. de Bonal, egli informava che almeno un terzo dell'episcopato francese si sarebbe piegato comunque alle norme della costituzione civile. È difficile, comunque, addebitare al D. la responsabilità di non aver preso iniziative per avviare in proposito trattative dirette tra la S. Sede e l'Assemblea nazionale, tra due parti cioè - come è stato osservato - "di cui una non voleva cedere in nulla, mentre l'altra non poteva abbandonare norme fissate dommaticamente" (Pastor, p. 486).
E mentre il papa - dopo aver fatto comprendere in alcuni brevi inviati singolarmente ad alcuni vescovi quale potesse essere il suo giudizio - affidava ogni decisione definitiva a una congregazione cardinalizia speciale, sperando che il tempo potesse far migliorare la situazione, il D. si trovava a fronteggiare la crescente animosità contro Roma: già nell'agosto 1790 egli avvertiva la segreteria di Stato che nell'opinione pubblica francese si stava spandendo la voce che il papa si faceva promotore presso le altre potenze di un intervento militare per soffocare la Rivoluzione. Nei mesi seguenti l'episcopato francese. quasi unammemente, dava autonomamente prova di fedeltà a Roma e di critica alla costituzione civile del clero in un documento, l'Exposition des principessur la constitution civile du clergé (pubblicato il 30 ott. 1790) e resisteva alle intimidazioni e alle pressioni rivolte ad ottenere una forzata adesione ad essa. Solo allora Pio VI si decise a rendere ufficiale la condanna della costituzione civile (breve del 10 marzo 1791 ai vescovi firmatari dell'Exposition e breve del 13 aprile al clero e popolo francesi): il testo, radicalmente contrario ad ogni apertura e critico anche nei confronti delle idee di tolleranza e libertà, non lasciava più alcuno spazio al compromesso.
La prima reazione contro la presa di posizione pontificia fu della piazza: il 2 maggio 1791 un gruppo di manifestanti bruciò a Parigi, presso il Palais-Royal, un fantoccio raffigurante Pio VI con il testo della costituzione civile in una mano e un pugnale nell'altra, un nastro con la scritta "fanatisme" sulla fronte e un altro con la scritta "guerre civile" sul petto.
Invano il D. protestò chiedendo più volte al ministro degli Esteri A.-M. di Montmorin una riparazione. Il 24 maggio egli chiese il passaporto per recarsi alle cure termali di Aix-les-Bains; il 29 maggio il Montmorin tentò in extremis di evitare una rottura scusandosi per non aver potuto dare soddisfazione alle richieste del nunzio. L'ultimo dispaccio di questo da Parigi è datato 30 maggio 1791; il giorno dopo egli lasciò la capitale francese, lasciando per il disbrigo degli affari correnti l'uditore della nunziatura Giulio Quarantotti.
Rientrato in Italia, il D. si recò a Milano, ove rimase in attesa di istruzioni con la speranza di potere al più presto riprendere la sua missione nella capitale francese, soprattutto dopo lo scoppio della guerra nella primavera del 1792. Ma svanite ben presto le illusioni per una rapida sconfitta della Rivoluzione, il D. ritornò a Roma. Qui, nel concistoro segreto del 21 febbr. 1794, fu elevato alla porpora insieme con altri sette soggetti, tra cui vi era il prelato francese J.-S. Maury, acerrimo nemico della Rivoluzione. Il 12 sett. 1794 ottenne il titolo presbiteriale di S. Giovanni a Porta Latina ed entrò a far parte delle congregazioni cardinalizie Concistoriale, Vescovi e regolari, Propaganda Fide e Buon Governo.
L'anno successivo, il 1° giugno, fu nominato contemporaneamente camerlengo del S. Collegio e legato di Romagna. Giunse a Ravenna, per esercitare questo ufficio, soltanto il 30 ottobre 1795.
Alla fine del Settecento la Romagna, pur rimanendo la provincia più ricca dello Stato della Chiesa, non mostrava segni di rinnovamento sul piano produttivo e sociale. La ricchezza rimaneva tutta concentrata nelle attività agricole, mancavano iniziative nell'industria manifatturiera, il commercio si riduceva all'attività di piccoli mercanti o di bottegai; anche i borghesi dediti alle professioni erano in numero esiguo rispetto a quello delle altre legazioni pontificie. Di conseguenza non si era formato un ceto intermedio tra la plebe e i proprietari terrieri, né questi si erano avventurati sulla strada di uno sfruttamento della terra più vicino al modello capitalistico. Anch'essi reclamavano una maggiore autonomia da Roma, soprattutto da quando il governo centrale, sfruttando le rivalità tra i magistrati delle varie Comunità era riuscito a concentrare tutti i poteri nelle mani del legato. Al "magistrato" rimanevano attribuzioni di carattere finanziario, ma le spese superiori a 5 scudi richiedevano l'approvazione del legato. Le critiche mosse a Roma riguardavano l'inefficienza sia nell'amministrazione sia nel mantenimento dell'ordine pubblico: soprattutto si sarebbe voluto che la polizia, alle dipendenze di un governatore nominato dal Buon Governo, fosse diretta dalla magistratura cittadina.
In questa situazione nel giugno del 1796, dopo l'armistizio di Bologna, la provincia fu investita dalle armate napoleoniche. L'ingresso nella Legazione delle truppe comandate dal generale P-F.-Ch. Augereau era stata voluta dal Bonaparte allo scopo di esercitare forti pressioni su Roma, per ottenere il sollecito e totale pagamento delle contribuzioni imposte dal Direttorio. Giunto a Faenza il 25 giugno, l'Augereau spogliò il Monte di pietà, requisì molti beni e oggetti preziosi privati e convocò il "magistrato" locale, pretendendo il giuramento di fedeltà e una forte contribuzione. Davanti a lui si presentò il D. con molti deputati delle province vicine: egli lamentò la pesantezza delle contribuzioni e rifiutò il giuramento, pronunciando anche dure parole contro i Francesi. L'Augereau perciò gli ingiunse di lasciare la Legazione ed egli, insieme con il vicelegato G. Giustiniani, partì lo stesso giorno da Ravenna fermandosi però a Rimini. Ritornò nel capoluogo il 20 luglio, dopo la partenza delle truppe francesi, ma preferì poi risiedere ancora a Rimini dal 2 agosto all'11 nov. 1796. Fu ancora a Ravenna dal 12 novembre al 31 genn. 1797, quando con il trattato di Tolentino la Romagna venne unita alla Repubblica Cispadana.
Ancora una volta il D. si ritirò a Milano, ove rimase fino alla convocazione del conclave di Venezia.
Seguace del partito favorevole all'elevazione del cardinale A. Mattei, egli fu considerato un vero e proprio luogotenente del cardinale L. Antonelli: secondo il Boulay de la Meurthe, egli sarebbe stato l'artefice della svolta decisiva dell'11 marzo 1800, che permise poi l'elezione del Chiaramonti (tale tesi fu ripresa dal Leflon); e, se rimane più probabile la veridicità della testimonianza del Consalvi, secondo cui il protagonista dell'episodio decisivo di quel conclave sarebbe stato F. Ruffò, certo è che il D. appoggiò con tempestività la soluzione di compromesso che si andava delineando.
Ritornato a Roma, il 23 dic. 1801 egli optò per il titolo di S. Prassede.
Negli anni successivi. tra il 1806 e il 1808, quando le relazioni tra lo Stato pontificio e l'Impero francese si incrinarono, il D. fu, insieme con i cardinali Giuseppe Doria Pamphili, F. Ruffò e A. Roverella, uno dei più influenti tra coloro che cercavano di indurre Pio VII ad assumere un atteggiamento conciliante nei confronti di Napoleone. Il 3 ag. 1807 Ottenne il titolo vescovile di Albano.
Anche dopo l'occupazione di Roma e la deportazione del papa e del Collegio cardinalizio in Francia, egli continuò a mostrare una moderazione, che da molti venne giudicata eccessiva. In occasione del matrimonio tra l'imperatore e Maria Luisa ` ad esempio, quando alla cerimonia civile e religiosa (1° e 2 apr. 1811) vennero perentoriamefite invitati tutti i membri del S. Collegio presenti in Francia e ciò provocò una ulteriore frattura fra la maggioranza intransigente e il gruppo dei collaborazionisti, il D. evitò di partecipare allegando come scusa una malattia. Questo comportamento fu giudicato dal Consalvi un atto pilatesco, inteso a "salvare la capra e il cavolo" ma tale tuttavia da permettere alla corte imperiale di considerare il D. come "aderente" alla decisione di Napoleone (Memorie del card. Consalvi, p. 115).
Conclusa la parabola napoleonica, comunque, egli non soffrì alcuna conseguenza per la sua debolezza, addebitata unicamente a un naturale spirito conciliante. L'8 marzo 1816 fu traslato alla sede suburbicaria di Porto e S. Rufina e il 16 marzo 1817 fu nominato prefetto della segnatura di Giustizia.
Ormai sottodecano del S. Collegio, morì a Roma il 17 ott. 1818 e venne sepolto nella chiesa di S. Maria in Vallicella.
Fonti e Bibl.: Arch. segr. Vaticano, Proc. Dat., 160, ff. 484 ss.; Ibid., Segreteria di Stato, Francia, buste 458 B, 463, 558, 558 A, 539, 570 A, 571, 572, 573, 574, 575, 581, 585, 640; Ibid., Legazione di Romagna, buste 113-115; Notizie per l'anno 1772, Roma 1772, p. 316; Notizie per l'anno 1778, ibid. 1778, p. 64; Notizie per l'anno 1795, ibid. 1795, p. 19; Notizie per l'anno 1823, ibid. 1823, p. 55; B. Pacca, Memorie storiche del ministero, de' due viaggi in Francia e della prigionia nel forte di S. Carlo in Fenestrelle, Roma 1830, pp. 304-307, 316, 321, 382; Correspondance diplomatique et mémoires inédits du cardinal Maury, a cura di A. Ricard, Lille 1891, I, pp. 17, 228, 247, 348, 353; II, p. 537; A. Boulay de la Meurthe, Mémoire d'Artaud sur le conclave de Venise, in Revue d'histoire diplomatique, VIII (1894), pp. 426-448; Correspondance secrète de l'abbé de Salamon, chargé des affaires du Saint-Siège pendant la Révolution, avec le cardinal de Zelada (1791-1792), a cura di [E.-D. Ponon Desbassayns] visconte di Richemont, Paris 1898, pp. IX ss., 10, 19, 74, 186; Memorie del cardinale Ercole Consalvi, a cura di M. Nasalli Rocca di Corneliano, Roma 1950, pp. 115, 352 s., 356, 361 s., 383; J. Leflon, Pie VII, Paris 1958, pp. 580-590; F. Masson, Le cardinal de Bernis depuis son ministère, Paris 1884, passim; S. Bernicoli, Governi di Ravenna e di Romagna dalla fine del secolo XII alla fine del secolo XIX, Ravenna 1898, pp. 94 s ., 148; J. Gendry, Pie VI. Sa vie. Son pontificat (1717-1799), II, Paris s.a. [ma 1907], pp. 108 ss., 121-131, 156, 160 s.; P. Pisani, L'Eglise de Paris et la Révolution, I, 1789-1792, Paris 1908, pp. 162, 167 s.; A. Mathiez, Rome et le clergé français sous la Constituante, Paris 1911, passim; L. von Pastor, Storia dei papi..., XVI, 3, Roma 1934, ad Indicem; P. Savio, Devozione di mgr. A. Turchi alla S. Sede, Roma 1938, p. 1018; P. Brezzi, La diplomazia pontificia, Milano 1942, pp. 276-284; L. Pasztor, Ercole Consalvi prosegretario del conclave di Venezia. Momenti di storia pontificia tra il 1799 e il 1800, in Arch. della Soc. romana di storia patria, LXXXIII (1960), pp. 137 s., 147, 169 s.; A. Mathiez-G. Lefebvre, La Rivoluzione francese, Torino 1960, pp. 142-150; G. Filippone, Le relazioni tra lo Stato Pontificio e la Francia rivoluzionaria. Storia diplomatica del trattato di Tolentino, Milano, 1961, I, p. VII; II, pp. 153 s., 173, 206, 224, 300, 494, 543; A. Latreille, L'Eglise catholique et la Révolution française, I, 1775-1799, s.l. 1970, pp. 112-115; G. Moroni, Diz. di erud. storico-ecclesiastica..., XX, pp. 293 s. e ad Indicem; Enc. cattolica, IV, col. 1975; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, VI, Patavii 1958, pp. 37, 357.