DORIA, Antonio
Nacque a Genova da Battista e Isottina Doria intorno al 1495. Scarse sono le notizie sul padre (risulta tra gli Anziani nel 1491e membro dell'ufficio di Vettovaglie nel 1501), così come sui primi anni di vita del Doria.
Se si presta fede ad una testimonianza relativamente tarda e polemica (si tratta infatti di un dialogo redatto durante il conflitto nobiliare del 1573-1575: Genova, Bibl. civica Berio, m. r. XIV.3.24, C. 137v), il D. avrebbe seguito il padre in Spagna, prima a Toledo e poi a Siviglia, dove "è stato a serviggi di uno Spinola mercadante di coijrami, e ogni giorno andava alla marina rivolgendo con sue delicate mani li coijrami al sole".
Dovette lasciare ben presto questo apprendistato mercantile, tipico peraltro di tutta la gioventù patrizia genovese, per seguire invece le fortune del più famoso Andrea Doria, a bordo delle galere al servizio della Corona francese; così, "pene adulescens apud gallorum regem cum imperio" lo ricorderà Paolo Partenopeo, dedicandogli nel 1539, il De obedientia.
Nel 1526, comunque, era già tra i collaboratori di Andrea, che lo impiegò in trattative con il re di Francia. Sempre a questa data il D. risulta già al comando di due galere. Per il momento il legame con Andrea rimaneva molto stretto, tanto che il D. lo seguì quando passò temporaneamente al servizio di Clemente VII, e così pure l'anno successivo, quando Andrea ritornò a battere bandiera francese; quindi il D. partecipò all'assedio di Savona e Genova, allora schierata nel campo imperiale. Le relazioni con l'amministrazione francese non erano prive di asperità, visti i cronici ritardi nei pagamenti che segneranno il rapporto del D. con i Francesi fino al 1530.
Tra la primavera e l'estate del 1528 intervenne una rottura tra il D. e Andrea: questi lo ricordava ancora in una famosa lettera della fine di marzo indirizzata al Montmorency (cfr. M. Spinola, Considerazioni, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, IV [1867], 4, p. 424): il D. partecipò con Filippo (Filippino) Doria alla battaglia navale nel golfo di Salerno; ma quando Andrea decise di passare al servizio di Carlo V il D. non lo seguì. Non sono stati trovati documenti che spieghino questa divaricazione nel comportamento dei due, ma è certo che la frattura lasciò un segno nei decenni a venire (nonostante il successivo passaggio del D. in campo spagnolo). Intanto il D. veleggiava all'interno della flotta comandata da Antoine de La Rochefoucauld, partecipando ad inutili tentativi francesi di riconquistare Genova, subendo quindi anche rappresaglie spagnole "non como genovese, ma como servitor de Franza" (Sanuto).
Il D. faceva base a Marsiglia (mantenendo peraltro stretti rapporti con il fratello Melchiorre allora a Genova) ed in questa città chiese una sistemazione al Montmorency, "acciò ancora mi habbi una caza dove possermi retirare qualche volta" (Molini, II, p. 240). Ma evidentemente si rendeva conto che la scelta di continuare a servire il re di Francia non era così fruttifera come aveva sperato, tanto che nel maggio del 1531 consistenti erano ormai le voci di un suo passaggio alla flotta pontificia.
La partenza dal campo francese dovette essere piuttosto burrascosa: come ricorda Giovanni Andrea Doria "arrivò ad aver carrico di due galere del Re Francesco le quali condusse fuori di Marsiglia con molti uomini suoi, dicendo di dover haver molti stipendi e che non potendoli havere si riteneva le galere". E con la qualifica di capitano delle galere pontificie partecipò nel 1532 alla spedizione di Corone. La ripresa dei contatti con Andrea Doria (che comandava l'intera flotta) permise così al D. di completare il percorso che lo avrebbe di lì a poco portato nel campo spagnolo. Ottenuta licenza dal papa, il 1º giugno 1533 "alzò la vandera de S.M." portando con sé "tre galere forzate et bonissime". Ricorda il Sanuto che suo primo incarico sotto Carlo V fu di "guardia per Napoli".
Primo risultato tangibile dell'inserimento nell'orbita spagnola, e quindi del riacquisito prestigio cittadino, fu l'acquisto del famoso palazzo di S. Tommaso (appartenuto un tempo ai Fregoso); dopo vari passaggi di proprietà, doveva essere allora in cattive condizioni: "nunc combustum" è definito nel contratto notarile e due anni dopo il Giustiniani parlava del "palazzo qual al presente fabrica il capitano Antonio D'Oria". Evidente è il piano di seguire (forse in scala minore) le orme di Andrea, che sempre nella stessa zona stava completando la monumentale vìlla di Fassolo. Ma le esigenze difensive della città nel 1537 constrinsero il D. a vendere alla Repubblica palazzo e villa.
I primi anni '30 furono tutti occupati dalla partecipazione alla guerra antiturca in varie zone del Mediterraneo: Corone Modone e Corsica nel 1533; nel 1534 il D. era a Messina con quattro galere a difendere la città dagli attacchi del Barbarossa. Nel 1535 partecipò alla famosa spedizione di Tunisi con Carlo V, di cui lascio una commossa e stringata rievocazione nel Compendio: "ordinando egli tutto con maravigliosa prudenza, accompagnata da una tal piacevolezza di faccia e di parole, che rendeva animoso ciascuno". Risalgono al 1536 le prime notizie di una rendita concessagli da Carlo V sui "proventi della Sicilia ultra", cui altre seguiranno negli anni successivi.
Coi riaccendersi del conflitto francospagnolo, il D. fu incaricato di partecipare agli attacchi in Provenza, in particolare contro Antibes, che però dovette interrompere per correre con le galere in aiuto di Genova, assediata dal Fregoso e dal Rangoni. Ma l'anno successivo era nuovamente sul fronte mediterraneo contro il Barbarossa e a Curzola fu ferito in uno scontro navale; lo sarà ancora nella spedizione in Croazia del 1538.
Nonostante questo ormai assodato affiatamento con l'organizzazione militare spagnola, i Francesi non desistevano dall'idea di recuperare il "traditore", "prometiendole mares y montes" (come scrìveva nel 1537 l'ambasciatore spagnolo da Genova cfr. Archivo general de Simancas, Estado, 1370 [105]), facendo probabilmente leva anche sullo scontento del D. per i ritardi di pagamento da parte dell'amministrazione spagnola.
Nel frattempo il D. sposò Geronima Fieschi, da cui avrà numerosi figli (il Sanuto accenna ad un suo precedente matrimonio con la figlia di Fabrizio Giustiniani, il "gobbo", di cui però non si è trovato altro riscontro).
La continua partecipazione alla guerra navale era alla base di un suo breve progetto che, pur rimasto manoscritto, ebbe una circolazione vastissima (almeno a giudicare dal numero di copie oggi conservate in biblioteche italiane e straniere): si tratta del Discorso sopra le cose turchesche per via di mare, redatto nel 1539 e indirizzato a don Diego de Mendoza, ambasciatore di Carlo V a Venezia.
In questo scritto il D. rileva i pericoli che possono derivare al mondo cristiano dal rafforzamento navale del Barbarossa e prospetta l'esigenza di concludere una lega con Venezia e il pontefice, al fine di armare una flotta di 250 galere con cui far fronte all'armata turca. Interessante è la sottolineatura (che si trova anche in pareri più tardi) dell'esigenza di armare le galere con ciurme di "buonavoglia" e non forzati.
La stima e il grado raggiunto dal D. nell'organizzazione militare spagnola sono testimoniate dalla concessione di una rendita di 2.000 scudi (la convertirà nel 1556 nel feudo di Ginosa, che costituì, per la sua amministrazione, l'occasione di continue liti con il genero Antonio Spinola).
Agli inizi degli anni '40 scelse a Genova un'area su cui edificare un "palazzo di famiglia", ma questa volta ben lontano da Andrea, anzi al capo opposto della città, nella zona di S. Caterina. Sia stata l'opera di G. B. Cantoni o di G. B. Castello, certo è che "la casa di Antonio Doria appartiene veramente all'Italia del Rinascimento" (Poleggi, Il palazzo). Immortalata nella raccolta del Rubens (Labò), ad essa il D. dedicò cure e capitali, chiamandovi ad affrescarla, tra gli altri, Giovanni e Luca Cambiaso.
I soggiorni del D. a Genova furono sempre molto limitati, inviato com'era sui diversi fronti militari spagnoli: nel 1542, ad esempio, si trovava all'assedio di Perpignano; in questo periodo, come scriverà a Ferrante Gongaga, "sono stato in pensiero ... di apartarme da le cose dei mar per poter esser con la mia persona più libero per servire S. Maestà" (Modena, Bibl. Estense, Autografoteca Campori s. v.).
In realtà, nostante fosse stato chiamato a far parte del Consiglio collaterale di Napoli, il D. si rendeva conto di trovarsi in una situazione difficile. Il veneziano Bernardo Navagero ci illumina sulla situazione venuta a crearsi: "è tra il principe [Andrea Doria] e il signor Antonio Doria poca amorevolezza; anzi secondo li andamenti si può congetturarre occulto odio e inimicizia; percioché molte fiate il signor Antonio è stato in animo di vendere e alienare le sue sei galere, e attendere con la sua persona alla milizia di terra; giudicando per la via di mare, con la inimicizia del principe, non potere giammai andare più inanzi di quel ch'egli era" (ed. Alberi, I, p. 305). Bisogna riconoscere al Navagero di aver compreso la situazione. Di lì a non molto questa "inimicizia" dovette creare qualche problema agli stessi Spagnoli.
Quando nel gennaio del 1547 scoppiò a Genova la congiura di Gian Luigi Fieschi, il D. si trovava a Napoli, donde nel giro di pochi giorni raggiunse Genova. Nella spartizione del ricco bottino di feudi dei Fieschi, al D. toccò Santo Stefano d'Aveto (nell'Appennino ligure), dietro espressa segnalazione di Andrea. Consigliò, ma senza parteciparvi, l'assedio di Montoggio, dove erano asserragliatì gli ultimi congiurati; ripartì per Napoli (passando da Siena, su cui presentò una relazione al Gonzaga, cfr. Modena, Bibl. Estense, Autografoteca Campori, sub voce) e fu di grande aiuto a don Pedro de Toledo durante i moti contro l'Inquisizione (e nel Compendio così vi accennerà: "parendo all'imperatore esser cosa pericolosa introdurre quel magistrato in quel Regno, per la facilità di testimoni falsi che si trovano, non volse che si ponesse").
Ritornò poi a Genova e partecipò alle discussioni che tra il 1547 e il 1548 si svolsero sul problema del tipo di presenza militare spagnola in città, sottolineando la sua diversa posizione rispetto ad Andrea (nettamente ostile ad un presidio o ad una fortezza) e richiedendo per sé un ruolo maggiore e distinto. Alla fine del 1548 il principe Filippo informò Carlo V che si era deciso (insieme al Gonzaga e al duca d'Alba) che era "meglio" che il D. stesse a Napoli.
Con un nuovo asiento per sei galere il D. riprese pertanto la via del mare. Nel 1550 partecipò alla spedizione in Africa con il Requeséns; vi ritornó l'anno successivo, perdendo ben tre galere in un fortunale presso Lampedusa. Benché nel 1552 fosse al comando delle galere spagnole che facevano stanza a Napoli, evidentemente non si trovava più a suo agio.
Attorno a questa data avvenne lo spostamento sulla terraferma, sul fronte settentrionale: dagli inizi del 1553, almeno, era a Bruxelles dove seguiva la campagna militare contro i Francesi, nominato consigliere, insieme a G. B. Castaldo, di Emanuele Filiberto di Savoia. Entrò così in stretta relazione con personaggi come il Granvelle, e conobbe pure il Seripando. I successi riportati nelle campagne del 1553 e del 1554 fecero si che nel 1555 venisse insignito del Toson d'oro. Da Bruxelles tenne corrispondenza con la Repubblica di Genova, preoccupandosi per la guerra di Corsica e cercando di aiutare il residente genovese a corte nelle trattative per l'aiuto militare spagnolo.
Non è facile seguire con precisione in questa fase gli spostamenti e gli incarichi del D. sempre in moto tra le Fiandre e l'Italia. Nell'autunno del 1558, ad esempio, era a Genova, da dove scriveva al cardinale A. Carafa, tenendolo informato sui dispareri corsi tra la Repubblica e l'ambasciatore spagnolo a proposito della questione del Finale ("non mi è bisognato travagliar puoco in far che non si accenda più fuoco" Bibl. ap. Vaticana, Barb. lat. 5706), attirando su di sé le critiche di diversi esponenti della nobiltà, anche di quella "vecchia", per il suo troppo stretto allineamento alle posizioni spagnole: come scriveva Giovanni Salvago, il D., "nonostante che per il passato pocho o niente seguisse le pedate di Andrea", questa volta si era accordato con Giovanni Andrea e l'ambasciatore spagnolo, e così "fecero un triumvirato ... contra la patria, da li quali se haria grande difficoltà di pottersene deffender".
Poco dopo ripartì per Bruxelles, da dove teneva informata la Repubblica sull'andamento delle trattative di pace, prodigandosi per una soluzione della questione corsa e non cessando di inviare consigli per il sistema di fortificazioni della Repubblica. Nel frattempo avevano cura delle sue galere i figli Scipione, Lelio e Cesare, mentre l'altro figlio, Giovanni Battista, sembrava indirizzato alla carriera ecclesiastica (successivamente anch'egli si convertirà alla carriera militare).
L'età sempre più avanzata di Andrea poneva con urgenza il problema della "successione", sia per la flotta spagnola, sia per il ruolo da giocare a Genova, in quel sistema di "sovranità limitata" che si era venuto a creare e a consolidare durante il Cinquecento. La figura del D. sembra riscuotere consensi molto vasti: "di autorità et prudentia, molto stimato da tutti i migliori" - così ne parla Gabriele Salvago, usando parole non molto diverse dal veneziano Michele Soriano: "dopo il principe, per età e autorità il primo è il signor Antonio Doria, stimato grandemente per l'esperienza che ha data di sé in molte guerre in mare ed in terra". Ma il giovane Giovanni Andrea riuscì a tagliargli la strada. Dopo la morte di Andrea, nonostante le espresse e reiterate richieste di "succedere", il D. non si vide accontentato: come aveva previsto il Soriano, Giovanni Andrea poteva contare "sul maggiore e miglior corpo dell'armata", e non si poteva scontentarlo troppo.
La perdita di tre galere alle Gerbe (e di altre tre nel 1563) dovette ancor più amareggiare l'anziano capitano, che però non desistette dal servizio (per altro ben remunerato). Così nel 1565 partecipò attivamente alla campagna mediterranea, muovendosi con le galere tra la Spagna e la Sicilia, accompagnato come sempre da lusinghieri giudizi: questa volta era il viceré di Napoli, Pedro Afan de Ribera, a consigliare Filippo II di tenere con sé il D. "por la mucha experiencia que tiene de las cosas de la guerra". E quando l'anno successivo, in un momento di stanchezza, il D. chiese l'autorizzazione per ritirarsi a Genova, Filippo II volle in proposito il parere di don Garcia di Toledo. Il 1566 dovette veramente essere un momento di stanchezza e di riflessione per il D.: segno evidente è la decisione di costruire una cappella di famiglia nella chiesa degli agostiniani della Consolazione (distrutta nel 1681), sottolineando così anche la volontà di tenersi ben distinto dagli altri Doria, che facevano capo a S. Matteo.
Agli inizi del 1570 il D. era nuovamente in Spagna, con l'incarico di "rivedere tutte le fortezze di questo regno" (Donà, La corrispondenza da Madrid, I, p. 19): le relazioni su Cartagena e Alicante sono conservate nel manoscritto della Bibl. universitaria di Genova, E.IV.6 (insieme con altri pareri successivi ed al citato Discorso). Nel 1571 era nuovamente a Genova dove, tra l'altro, pubblicò presso il Bellone il Compendio ... delle cose di sua notitia et memoria occorse al mondo nel tempo dell'imperatore Carlo Quinto, una sommaria descrizione delle campagne militari dell'imperatore, delle quali volle lasciare un "veridica" testimonianza personale.
Dopo la battaglia di Lepanto (cui partecipò il figlio Cesare) e dopo le relative polemiche in campo cattolico, il D. ricevette nuovamente un incarico di grande prestigio: nella primavera del 1572 fu nominato consigliere di don Giovanni d'Austria, con cui partecipò alla poco significativa campagna dell'estate nel Mediterraneo centrorientale (e a don Giovanni indirizzò in questo periodo due pareri conservati nel citato manoscritto, sulla "perseveratione della lega" e sul tema a lui più congeniale dell'armamento navale).
Prima della partenza per la campagna aveva steso le disposizioni testamentarie e i codicilli (ma il testamento, da lui affidato alla badessa di S. Marta e non al notaio che l'aveva redatto, non è stato ritrovato; altrettanto negativo, ai fini della ricostruzione della biografia del D., è il fatto che gli atti di uno dei suoi notai di fiducia, Lorenzo Foglietta, siano andati praticamente tutti perduti). Dell'amministrazione della casa aveva cura, in questo periodo, il genero Germano Ravaschiero.
Nel 1575 il D. era a Napoli, al seguito di don Giovanni, quando a Genova esplose il conflitto nobiliare e a don Giovanni indirizzò nell'estate due pareri, in cui sottolineava l'esigenza per la Spagna di appoggiare (naturalmente) la nobiltà "vecchia" e rilevava i pericoli che potevano derivare da un predominio dei "nuovi": "constando chiaramente esser tra loro poco facultosi e nessuno tenere beni ne' suoi regni"; mentre, a suo giudizio, fondamento della libertà e dell'indipendenza della Repubblica (alleata alla Spagna) era "che i cittadini virtuosi e ricchi abbino autorità nell'amministrazione e governo", mentre "quelli che ora reggono [sono] tutti poveri" (cfr. Genova, Arch. stor. del Comune, ms. Brignole Sale 105.B.7). E il D. invece, era ormai diventato ricco: nel 1576 il suo patrimonio (al momento della ripartizione delle spese di guerra) era valutato in 100.000 scudi.
Il soggiorno a Napoli, durante la guerra civile, fu funestato dalla notizia che il figlio Cesare era morto a Finale in una rissa con altri giovani della nobiltà "vecchia" (così come era già morto Lelio a Roma nel 1560, durante il carnevale).
Morì probabilmente alla fine di gennaio del 1577.
Fonti e Bibl.: Genova, Archivio Doria n. 547; sc. 233, n. 1499, b. 13, sc. 234, n. 1500, b. 18; Roma, Archivio Doria Pamphili, sc. 69.12; Archivo general de Simancas, Estado 1061-1063, 1067, 1113-1115, 1119, 1121, 1122, 1124, 1138, 1237, 1370, 1383, 1396, 1397, 1400, 1408, 1411, 1475; Arch. di Stato di Firenze: Mediceo del principato 2835; Arch. di Stato di Genova, Archivio segreto 10, 323-325, 337, 817, 1960, 1963, 1964, 2519, 2822 B; Ibid., Biblioteca manoscritti, 37; Ibid., Famiglie, D. 43; Ibid., Notai: Gio. Giacomo Cibo Peirano, sc. 194, f. 8; sc. 195, ff. 20-21; Lorenzo Vivaldi Assalto, sc. 230, f. 1; Girolamo Roccatagliata, sc. 2234, f. 32; Agostino Lomellino Fazio, sc. 244, f. 30; Lorenzo Cattaneo Foglietta, sc. 251, f. 1; Bartolomeo Roccatagliata, sc. 266, f. 2; Leonardo Chiavari, sc. 288, ff. 21-23; Agostino Cibo Peirano, sc. 293, ff. 1, 8, sc. 294, ff. 9, 13-16; Gio. Andrea Monaco, sc. 331, f. 1; Benedetto Musso, sc. 430, f. 1; Ibid., Senato, Sala Senarega, 437, 981, 1235, 1259, 1296 bis, 1385; Ibid., Senato, Sala Foglietta 1098; Genova, Arch. storico del Comune: Padri del Comune: 16, 17; Ibid., Manoscritti, 235; Ibid., Manoscritti Brignole Sale, 105.B.7, cc. 376-378; Arch. di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano, 136, 137; Arch. di Stato di Torino, Lettere particolari, D.22; Arch. di Stato di Trento, Corrispondenza Madruzzo, fasc. 10, II, 14; Genova, Biblioteca civ. Berio, m. r. XIV, 3, 24, cc. 96r-98v, 137v-138r; Genova, Biblioteca univ., ms. B.VI.29, cc. 101-103; Madrid, Bibl. nacional, mss. 973, 977, 1608; Firenze, Bibl. naz., Palatini Graberg, 1, vol. II; Modena, Bibl. Estense, Autografoteca Campori, ad vocem; Napoli, Bibl. nazionale, ms. Viennese lat. 61, c. 52r; Ibid., ms. XIII.AA.48, cc. 11r, 113r; ms. XIII.AA.51, c. 79r; ms. XIII.AA.52 c. 111r; ms. XIII.AA.53, c. 7r; Ibid., ms. Brancacciano II.G.15; Napoli, Bibl. d. 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