DONÀ (Donati, Donato), Antonio
Nacque a Venezia, il 13 marzo 1709, da Pietro di Giovanni Battista (fondatore quest'ultimo dell'Accademia cosmografica degli Argonauti, nel 1684, ed autore, quattro anni dopo, dell'importante Della letteratura de' Turchi) e da Laura Corner di Giorgio di Giacomo.
Il padre apparteneva al ramo detto di S. Fosca, dove la famiglia possedeva alcune case, in comproprietà con altri parenti del numeroso casato, ma dopo il matrimonio si era trasferito in un palazzo a S. Aponal, di proprietà Albrizzi. Poiché era l'unico maschio, provvide ad assicurare la continuità della famiglia con un congruo numero di figli: Giovanni Battista, Giorgio, Pietro, Marina e Lucrezia, che abbracciarono la vita ecclesiastica; Nicolò, Silvestro ed Elisabetta, che però non vissero a lungo; Margherita, andata sposa nel 1727 a Flaminio Corner di Gian Battista di Tommaso, ed infine il D., Francesco ed Andrea, che intrapresero la carriera politica: Andrea, anzi, scelse poi quella militare e fu capitano in Golfo e provveditore d'Armata.
Soltanto il D. si sposò, nel 1736, con Marina Priuli di Antonio Marin, del ramo a S. Trovaso, che gli diede Pietro (che divenne cavaliere e contrasse matrimonio, nel 1773, con Giovanna Dolfin di Leonardo) e poi ancora Antonio, Giovanni Battista., Giorgio, Maria Rosa, Laura, Marianna, Elisabetta e Maria Cornelia.
Il contratto di nozze, stipulato tra il D. ed i Priuli il 21 febbr. 1736, prevedeva, tra le altre voci, la riscossione a favore dello sposo di annui ducati 365, provenienti dall'affitto di un palazzo sul Canal Grande, in riva di Biasio; senonché, dal momento che tale canone era subordinato all'effettuazione di alcuni restauri, il loro mancato completamento provocò le proteste del D., che si conclusero con l'immancabile processo ed il traslato dell'immobile, verificatosi il 24 sett. 1739, dal nome di Alvise Priuli a quello dello stesso D., che però già da due anni aveva cessato di pagare i 340 ducati d'affitto al procuratore Giovan Battista Albrizzi e si era trasferito da S. Aponal nello stabile di riva di Biasio, sotto la quale denominazione da allora questo ramo della famiglia sarebbe stato conosciuto.
Le condizioni economiche dei Dorià si potevano considerare agiate, ma non eccellenti: l'inventario dei beni stilato alla morte di Pietro (21 sett. 1723) presenta diversi gioielli, per un ammontare di ducati 4.952, e 625 oncie d'argento, ma nessun deposito nel debito pubblico, mentre tra le passività compare un mutuo ipotecario di ducati 600, al 4%; inoltre, grazie al giornale di cassa della famiglia, siamo pure in grado di stabilire il reale complesso delle entrate alla data del 1° genn. 1736: le rendite di Villadose, nel Polesine, che costituivano il nucleo eminente della proprietà fondiaria, vi sono calcolate in annui d- 5-951:11; quelle di Montegalda, nel Vicentino, d. 1.418:2; quelle di S. Bruson, d. 524:14; seguono gli affitti degli immobili veneziani (d. 389:16) ed alcune rendite minori, per un totale di d. 8.449:16, dal quale peraltro bisogna sottrarre talune passività perpetue ed affrancabili.
Un patrimonio siffatto - tenuto conto dell'alto numero dei componenti la famiglia - poteva consentire al D. una carriera politica che non fosse contrassegnata da impegni dispendiosi, come le ambascerie o i rettorati in Terraferma, ed a questo principio egli non mancò di attenersi: prima ancora di sposarsi era stato savio agli Ordini (8 luglio-30 sett. 1734; 17 marzo-18 ag. '35) e provveditore sopra gli Offici, dal 6 ott. '35 al 5 ott. '36; poi fu per dodici anni savio di Terraferma (dal 16 maggio al 30 giugno 1739; dal 10 luglio a fine settembre '40; quindi ininterrottamente nel secondo semestre del decennio 1 41-'50), ed ancora ufficiale ai Dieci uffici (18 genn.-15 maggio '39), regolatore alla Scrittura (17 apr-30 giugno '45), cassiere del Collegio (secondo semestre degli anni 1 46-'50); divenne quindi savio del Consiglio (23 maggio-30 giugno 1750; 10 genn.30 giugno '51), deputato sopra la Provvision del danaro (15 luglio-31 dic. '51), nuovamente savio del Consiglio per il primo semestre del 1752 e scansadore delle spese superflue dal 3 ag. '52 al 13 maggio '53, giorno in cui fu eletto bailo a COStantinopoli.
Difficile render conto di una tale nomina: se già non è agevole accettare l'elezione del D. a savio del Consiglio, data la sua assoluta inesperienza dello Stato fuori dal recinto delle lagune, maggiormente incomprensibile ne risulta l'invio sulle rive del Bosforo, incarico che oltrettutto consentiva una forte remunerazione e che pertanto veniva accordato a quanti già si erano sobbarcati il peso di altre ambascerie o, quantomeno, di qualche reggimento delle principali città della Terraferma. La spiegazione è forse riconducibile a più fattori, e cioè al progressivo scadimento d'importanza del bailato, data la manifesta decadenza dell'Impero ottomano e la politica difensiva cui ormai era costretto; alla condotta filoligarchica del D., tradizionale in tutta la sua famiglia; al prestigio del nonno Giovanni Battista, che a sua volta era stato bailo presso la Porta nel 1681-83 ed autore - come si è detto - di un'opera sulla civiltà letteraria turca che per molti aspetti sembrava anticipare talune posizioni culturali che furono proprie della sensibilità illuministica (e lo stesso D., a quanto risulta da alcune buste presenti nell'archivio privato della famiglia, coltivava studi di astronomia e fisica).
La partenza avvenne quasi un anno dopo, il 16 apr. 1754, e nel primo dispaccio che il D. indirizzò al Senato, quando ancora la nave su cui era imbarcato non aveva lasciato il porto, possiamo cogliere l'eco delle riserve che la sua nomina doveva aver suscitato presso vasti settori del patriziato: in una sorta di excusatio non petita egli protestava infatti l'"ottima volontà" sempre dispiegata "negl'interni difficili impieghi", lo "zelo appasSionatissimo verso le pubbliche cose", l'"incessante applicazione", la "cura più attenta alla pubblica economia".
Com'era prevedibile, la missione non presentò particolari difficoltà e la successione delle lettere inviate a Venezia dal D. costituisce una reiterata, puntuale conferma dello stato di crisi e disorganizzazione in cui versavano le strutture militari ed amministrative dell'Impero ottomano.
Cosi, in un dispaccio del 23 agosto, scritto a bordo della galera turca che l'aveva prelevato a Tenedo, poteva rassicurare il Senato circa l'inefficienza della nave, che pure passava per una delle migliori di cui disponesse il sultano: "Non vi è disciplina, non si conosce subbordinatione .... Di questi difetti, che cadono sotto gl'occhi, non ne fanno mistero gli stessi comandanti. Me ne tenne più volte proposito questo Ali Bey Passà ...". Del resto, disse con ammirabile ingenuità, "che erano universali li disordini, così su le gallere che su le navi. Che il governo ha abbandonata la cura, ed il pensiero della Marina …, che era ridotta uno scheletro che non conserva più niente della sua antica forza, e vigore".
Si trovava a Costantinopoli da poco più di tre mesi, quando morì il sultano Mahmud I, che regnava da ventiquattro anni; la successione del fratello, Osman III, procurò al D. la nomina ad ambasciatore straordinario, la qual cosa gli diede motivo di celebrare il suo ingresso ufficiale con particolare sfarzo. Quanto alla sua azione politica, si svolse tutta nel solco della prassi più usuale: si preoccupò di salvare qualche schiavo cristiano, di intercedere presso il visir di turno in favore dei contrabbandieri che si coprivano della bandiera veneta, di riferire sugli intrighi francesi nel sempre inquieto mondo balcanico, di sopire le tensioni che le turbolenze dei Montenegrini, fomentati dalla Russia, causavano presso la frontiera dalmata.
Gli imbarazzi più gravi provennero dall'instabilità politica di quella corte, che paralizzava la trattazione anche delle pratiche più semplici: così, il 1° maggio '56, doveva riferire la nomina di un nuovo visir, Mustafà, il cui predecessore era "venuto a noia del monarca più per la naturale incostanza di questo, che per altra raggione", e quando ormai stava per passare le consegne a Francesco Foscari, ch'era giunto a rilevarlo, gli toccava ancora una volta di annunciare la morte del sultano (sul quale esprimeva tuttavia un giudizio complessivamente positivo) e l'ascesa al trono del cugino Mustafà III.
Giunto a Venezia nel marzo '58, in agosto riprese il suo posto in Senato, quindi fu eletto revisore e regolatore delle Entrate pubbliche (30 nov. '58) e savio alla Mercanzia (10 dic. 1760); rifiutò invece la nomina a capitano di Padova (11 maggio '61, dispensato venti giorni dopo; riballottato, senza riuscire, il 17 genn. 1764 ed il 3 marzo '65): era probabilmente, questo del rettorato, lo scotto cui doveva sottoporsi per tornare a far parte del novero dei savi del Consiglio, ma la sua tenace opposizione fini per rivelarsi un ostacolo insormontabile. Né gli valse essersi ancora una volta schierato con la fazione degli oligarchi, in occasione della crisi queriniana (durante la quale esercitò la carica di consigliere ducale, dal 1° ott. 1761 al 30 sett. '62, che gli era stata conferita durante il bailato, e per la quale aveva ottenuto la riserva del posto); fu bensi nominato provveditore all'Armamento (21 luglio 1762), provveditore sopra i Beni comunali (12 febbr. '63), pagatore ai prò in Zecca (21 luglio '63), ancora provveditore all'Armamento (26 luglio '65), esecutore contro la Bestemmia (14 ag. '65), ma del Collegio non entrò più a far parte.
Morì nel palazzo di riva di Biasio, il 12 marzo 1766.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. ven. 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii..., III, p. 314; Ibid., Avogaria di Comun. Libro d'oro nascite, schedari 170 e 192, ad nomen; Ibid., Avogaria di Comun. Libro d'oro matrimoni, schedario 185, ad nomen; Ibid., Provveditori alla Sanità. Necrologi, reg. 953, ad diem; il contratto di nozze, in Venezia, Bibl. d. Civico Museo Correr, Mss. P. D. C 656/II. Per l'inventario dei beni patemi cfr. Arch. di Stato di Venezia, Giudici di Petizion. Inventari, b. 420/24; sul patrimonio e la sua amministrazione tra il 1735 ed il 1778, Ibid., Archivio famiglia Donà, bb. 233/138, 242 s.; per la carriera politica, Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni del Maggior Consiglio, reg. 27, cc. 19, 87; reg. 28, c. 219; reg. 29, cc. 1, 219; reg. 30, c. 155; Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni dei Pregadi, reg. 22, cc. 19 s., 32 s.; reg. 23, cc. 5, 12-15, 23, 80, 110, 137; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 864 (= 8943): Consegli, ad diem; Ibid., Mss. It., cl. VII, cod. 865 (= 8944): Consegli, ad diem; per l'ambasceria a Costantinopoli, Arch. di Stato di Venezia, Senato. Dispacci Costantinopoli, ff. 205-207, passim; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 2211 (= 10049): Bilanzi delli bailaggi, c. 172. Carte private concernenti la carriera politica, il bailato, le opere astronomiche e scientifiche, in Arch. di Stato di Venezia, Archivio famiglia Donà, bb. 258-262, passim. Per la sua condotta durante la correzione del 1761-62 cfr. L. Ottolenghi, L'arresto e la relegazione di Angelo Querini (1761-63), in Nuovo Archivio veneto, XV (1898), pp. 129, 134.