DIEDO, Antonio
Nacque a Venezia il 15 nov. 1772 da Girolamo, senatore e magistrato della Repubblica, e da Alba Maria Priuli. Non ancora decenne, entrò nel collegio nobiliare presso il seminario di Padova, dove ricevette un'accurata educazione umanistico-letteraria; ma, come egli stesso ricorda (Diedo-Zanotto, 1847), "...nelle brevi ore di riposo dalle occupazioni della scuola, mi determinai a prendere lezioni di architettura". Decisivo in questo campo l'incontro con Giacomo Albertolli, nipote di Giocondo che insegnava allora architettura al proprio seminario.
Ultimati gli studi e rientrato a Venezia, il D. si sposò nel 1795 con Lucrezia Nani. Data la profonda crisi, a livello economico e sociale, che investì la nobiltà veneziana, il D. si impegnò sempre più negli studi architettonici a cui, anche dopo Padova, aveva continuato a dedicarsi. Strinse amicizia con il pittore e architetto Davide Rossi, e, tramite l'Albertolli, con G. A. Selva, con cui iniziò un lungo e proficuo rapporto di stima, discepolato e lavoro. Partecipò al dibattito sull'architettura con i primi suoi scritti: Casino villereccio (Venezia 1800) e Discorso sull'architettura (ibid. 1805, ma letto due anni prima nella Accademia de' Filareti). A fianco del Selva iniziò a seguire nel 1805 la riprogettazione del duomo di Cologna Veneta, e nel 1806 la ricostruzione della chiesa veneziana di S. Maurizio.
Queste realizzazioni teoriche e pratiche, l'amicizia col Selva, la posizione sociale, costituirono quella base di rinomanza e di relazioni che gli consentì una prestigiosa carriera quando Venezia, dopo la pace di Presburgo (1805), entrò a far parte del Regno Italico.
L'attivismo napoleonico in campo urbanistico e artistico creò nuove istituzioni, come la commissione al pubblico ornato (1806), e rinnovò quelle tradizionali, come l'accademia di belle arti. La commissione, composta da cinque membri fra i quali il D. e il Selva, riuscì, pure se fra compromessi e difficoltà, a orientare nei primi due decenni del secolo lo sviluppo urbanistico di Venezia secondo un piano regolatore perfezionato nel 1807.
L'accademia venne radicalmente rinnovata negli ordinamenti, nella sede (trasferita all'ex scuola della carità) inaugurata nel 1808, nel corpo docente. Presidente, dopo il breve periodo di Almorò Alvise Barbaro, fu nominato nel 1808 Leopoldo Cicognara; segretario perpetuo il D., con la funzione pure di vicepresidente. Cicognara, Selva e il D. furono i personaggi di maggior prestigio e autorità nell'orientare i progetti e le realizzazioni architettonico-urbanistiche sia degli anni napoleonici, sia di quelli più difficili della Restaurazione. Il D., tuttavia, non restò all'ombra dei suoi più famosi colleghi: ebbe un suo seguito, e consensi tali da mettere in minoranza, nel progetto iappelliano per l'università di Padova (1824) di cui non condivideva la grandeur francese, lo stesso Cicognara, che appoggiava invece il progetto. Quando nel 1826 il Cicognara si dimise dalla carica di presidente dell'accademia, il D. ne assunse pro tempore la funzione fino al 1839; nel contempo fu nominato docente della cattedra di estetica.
In questi anni egli rappresentò per antonomasia l'accademia e il classicismo che essa insegnava e diffondeva tramite anche l'appoggio editoriale di G. Antonelli, che mirava a dare prestigio e respiro europeo alla editoria architettonica veneziana. Il suo pensiero estetico ed i giudizi storico-critici influirono su due generazioni di architetti: tale prestigio gli derivò prima che dalla concreta attività architettonica, relativamente periferica e minore, dall'impegnata opera d'insegnamento e dirigenza didattico-culturale entro l'accademia, dall'intensa attività letteraria, dalla fitta rete di rapporti con i maggiori esponenti della cultura e dell'arte italiana ed europea, come dimostra l'importante epistolario. Solo negli anni Quaranta, mentre andava affermandosi lo stile neogotico che a Venezia ebbe il suo alfiere nel Selvatico, il D. fu ritenuto "superato", inattuale, come egli stesso riconobbe implicitamente in uno dei suoi ultimi scritti.Morì a Venezia il 1º genn. 1847.
Contro il rigorismo illuministico, sia del funzionalismo lodoliano sia, all'opposto, del vitruvianesimo universitario di Padova, era, invece, più flessibilmente palladiano, sul cadere del secolo, l'orientamento dell'accademia di Venezia (nonostante alcuni esponenti avessero avuto stretti legami con l'università patavina) e palladiano erano il Selva, l'architetto vicentino O. Bertotti Scamozzi e infine il Diedo. Per altro, questi intendeva il classicismo palladiano non tanto in chiave "internazionale", quanto "autoctona" (Oechslin, 1982), nella convinzione che fosse lo stile più adatto a contemperare le leggi universali del bello, la tradizione estetica veneta, le pratiche necessità della committenza, la realtà operativa soprattutto nella Venezia postnapoleonica, quando la città attraversava una profonda crisi economica che consentiva solo "d'innalzare o ristaurare edifizi comuni". Da qui l'esplicita avversione del D. per il monumentalismo, per lo sperimentalismo, per l'audacia eccessiva dei progetti. Da qui pure la critica all'estremismo rigoristico, oltre che di C. Lodoli, anche dei teorici dell'università patavina, ad esempio nei confronti del "Bello di proporzione" di P. A. Barca, o delle teorie armoniche riccatiane, il richiamo, mediante il principio della "convenienza" (Cavallari-Murat, 1963-64), a commisurare nei vari casi concreti la proporzionalità non solo alle esigenze della venustas compositiva, ma primariamente alle esigenze statiche e compositive.
Importante e seguita anche la produzione storico-critica del D., dove il preciso codice formale che la sostiene non offusca la capacità di capire, e spesso apprezzare, anche le opere che ne sono distanti, purché esse contengano "l'idea felice", che è la "gemma" dell'operazione formale, e che risulta solo nella fruizione diretta dell'opera.
Dando sul finir della vita un giudizio complessivo della propria produzione architettonica, il D. (Fabbriche e disegni, Venezia 1846, tav. 38) osservava che in essa "anziché la tendenza del giorno allo stile gotico, ch'io pur ammiro, mi attenni a quello dell'architettura classica, convinto che, ricalcando quella stessa via, in cambio di retrocedere ai tempi dell'età di mezzo, arrivar si debba a migliorarla". Il neoclassicismo temperato dal palladianesimo, oltre che sul piano teorico, è pure crificamente presente in quasi tutti i suoi progetti e realizzazioni. Salvo poche opere "di gran mole", il carattere discreto e minore che contraddistingue le altre non va ritenuto né un limite né un demerito, perché, osserva giustamente il Sagredo (1847), anche nel quotidiano il D. seppe operare "senza avvilire la nobiltà dell'arte che non fallisce mai al vero artista"; in tutte le sue opere infatti "si scorge sempre squisita gentilezza. Le proporzioni sono giuste e sobrie, non istentate né bizzarre; vi è convenienza del tutto colle parti dell'edificio, convenienza col suo scopo, saviezza negli ornamenti; non sono dimenticati i comodi richiesti dalla vita dei contemporanei".
La sua attività di collaboratore e di continuatore del Selva gli procurò una notevole fama, rafforzata dalla produzione teorica e dalle cariche ufficiali, tanto che lo stesso Canova si rivolse a lui per quei pareri sul progetto del tempio di Possagno (lettera del 22 febbr. 1819) che il Selva non aveva fatto in tempo a fornirgli. La risposta del D. (lettera del 20 marzo 1819) è interessante per la libertà di giudizio che dimostra quando, dopo le lodi all'insieme dell'opera, esprime due riserve: una nei confronti della facciata partenonica che manterrebbe gli stessi "difetti" del modello greco, l'altra, più grave, nei confronti della disarmonia che si genererebbe fra i "quadri" dell'interno e le "nicchie" cui sono interposti (cfr. Alcune lettere artistiche riguardanti in ispicialità il nuovo tempio di Possagno, Venezia 1852). Le varianti suggerite dal D. non ebbero tuttavia esito: nella realizzazione del tempio infatti, in massima parte avvenuta dopo la morte del Canova per opera del cugino e del fratello, come testimonia M. Missirini (Del tempio eretto in Possagno da Antonio Canova, Venezia 1833), la facciata rispettò i disegni originali, mentre i "quadri" subirono profonde modifiche in opposizione ai suggerimenti del D. e alle stesse idee del Canova.
Morto il Selva, il D., da una parte, completò le opere iniziate col maestro, dall'altra esplicò un'attività personale inseribile nel rinnovamento dell'architettura sacra veneta fra fine Settecento e metà Ottocento, quando numerose chiese o fatiscenti o non più funzionali alle necessità della popolazione, vennero rimaneggiate o ricostruite in modi neoclassici e neopalladiani. Il D. fu attivo a San Donà di Piave (arcipretale, distrutta nella prima guerra mondiale), Canda (parrocchiale e campanile), Schio (facciata dell'arcipretale e campanili), Piovene (parrocchiale e campanile), Breganze (il campanile lombardesco), Cologna Veneta (collaborazione col Selva nell'arcipretale, campanile, sagrestia). Fra queste opere il D. stesso indicava (Diedo-Zanotto, 1847) i suoi raggiungimenti più significativi: facciata dell'arcipretale di Schio (dal maestoso e "severo" pronao corinzio), parrocchiale di Piovene (ricondotta "da informe e quasi mostruosa ch'ell'era, regolare al tutto e simmetrica, abbellendola di una facciata... di una elegante semplicità"), arcipretale di San Donà di Piave ("[la] ridussi a più ragionevoli dimensioni in confronto alla immane e pericolosa larghezza che aveva prima"). A queste attività "in grande" si accompagna quella definita "minore": oratori privati, disegni di porte, di scale, di finestre, facciate, altari, particolari monumenti, riguardanti innanzi tutto Venezia ma anche il suo territorio orientale (dal Terraglio a Spresiano a Belluno) e occidentale (da Mira a Ponte di Brenta e forse Padova).
Il sintetico elenco delle opere del D. riportato in Diedo-Zanotto (1847), e quello più ampio del Dandolo (1855) vanno integrati con le seguenti aggiunte: a Venezia, il disegno "elegante" d'una libreria nel seminario patriarcale di S. Cipriano (G. A. Moschini, Guida per la città di Venezia, II, Venezia 1815, p. 425), l'iscrizione ornamentale a Nicolò Gambara nel cimitero dell'isola di San Michele (F. Zanotto, Nuovissima guida di Venezia, Venezia 1856, p. 675), il Monumento al conte Mangilli nella chiesa dei Ss. Apostoli disegnato con Luigi Trezza, il Busto di Angelo Pizzo (G. Lorenzetti, Venezia e il suo estuario, Trieste 1975, p. 421); a San Floriano (presso Castelfranco Veneto), la parrocchiale (V. Moschini, in Encicl. Ital., XII, Roma 1950, p. 77). Le indicazioni delle opere del D. risalgono tuttavia quasi tutte al secolo scorso, e necessitano di un sistematico e attento riscontro topografico.
L'ampia serie di scritti del D. (Diedo-Zanotto [1847]; cfr. anche Samek-Ludovici [1942] e Romanelli [1977]) comprende discorsi ed elogi letti nell'accademia di belle arti e nell'Ateneo veneto e pubblicati negli Atti rispettivi. Tematicamente si possono suddividere in scritti di carattere teorico e scritti storico-critici su artisti (soprattutto veneti e contemporanei) su monumenti ed edizioni di disegni. Il D. partecipò anche ad iniziative editoriali di pregio come l'Enciclopedia moderna e dizionario della conversazione, Venezia 1837-53; Le fabbriche più cospicue di Venezia…, ibid. 1815-20; Collezione dei più pregevoli momumenti sepolcrali della città di Venezia, ibid. 1831; O. Calderari, Disegni e scritti di architettura, Vicenza 1808, e alla pubblicazione della sua raccolta di Fabbriche e disegni, Venezia 1846.
Le lettere (circa tremila) pervenute a F. Zanotto dopo la morte del D. si trovano per la maggior parte nella Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia. Alcune sono pubblicate: Lettere dirette a Giovanni Prosdocimo Zabeo, Padova 1855 (nozze Caotorto-Albrizzi); Lettere inedite ai nobili conti L. e A. Trissino, Vicenza 1881; L. Cicognara, Sei lettere ad A. D., Venezia 1852; Quattro lettere d'illustri italiani al cav. A. D., Venezia 1856 (nozze Remondini-Albrizzi); Alcune lettere artistiche riguardanti in ispecialità il nuovo tempio di Possagno, Venezia 1852.
Fonti e Bibl.: A. Diedo-F. Zanotto, Cenni sulla vita studiosa e civile del fu cav. A. D., in Il Gondoliere e l'Adria, XV (1847), 9, coll. 193-201; A. Sagredo, A. D., in Atti dell'I. R. Acc. di belle arti, Venezia 1847, pp. 5-17; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia, I, Venezia 1855, pp. 104-109; L. Pizzo, in A. Diedo, Jacopo Quarenghi, Venezia 1866 (prefazione); F. Mocenigo, Della letteratura veneziana del secolo XIX, Venezia 1916, pp. 172-175; S. Lodovici [S. Samek Ludovici], Storici teorici e critici delle arti figurative dal 1800al 1940, Roma 1942, pp. 138 s.; A. Cavallari Murat, I teorici veneti dell'età neoclassica, in Atti dell'Istit. veneto di scienze, lettere ed arti, CXXII (1963-64), cl. di scienze mor. stor. filo s., pp. 195-241; L. Olivato, Una breve amicizia padovana... di A. D., in Boll. d. Museo civico di Padova, LXI (1972), pp. 279-292; G. Romanelli, Venezia Ottocento, Roma 1977, pp. 180 ss.; W. Oechslin, in Giuseppe Jappelli e il suo tempo, a cura di G. Mazzi, I, Padova 1982, pp. 299-305; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, IX, pp. 227 s.; Encicl. Ital., XII, p. 778; Diz. di architett. e urbanist., II, p. 169.