ANTONIO di Francesco da Venezia detto Antonio Veneziano
Ricordato in docc. anche come Antonio da Firenze o da Siena (Anonimo Magliabechiano), è attivo tra il 1369 e il 1388. Incerta è la sua origine, che il Vasari volle proprio in Venezia, giustificandone così il soprannome. Il Baldinucci, invece, ritenne che fosse fiorentino e chiamato in tal modo per i suoi frequenti soggiorni sulla laguna. Da queste supposizioni nulla si può dedurre di sicuro, né è certo un viaggio di A. a Venezia - dopo un primo soggiorno fiorentino -, "dove essendosi fatto conoscere per molte cose fatte a fresco e a tempera" (Vasari), gli fu dato incarico dalla Signoria - sempre secondo lo storico aretino - di affrescare una parete nella sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale. È certo, per contro, che fu largamente attivo in Toscana, e tra le opere elencate dalle fonti ancora ne sussistono di importanti, a documentarci della fama raggiunta da Antonio. Ricordato per la prima volta nei Libri dell'Opera del duomo senese, dipingeva per quella fabbrica nella cappella di S. Sebastiano, o dei Balestrieri, nel 1369, e l'anno seguente (1370), con Andrea Vanni, era intento a dipingere le volte in duomo, lavoro per il quale riceveva pagamenti nel giugno dello stesso anno (Milanesi; Lusini): di questi lavori non è più traccia. Nel 1374 (20 settembre), è iscritto a Firenze nell'Arte dei Medici e Speziali (Vasari-Milanesi). Dieci anni dopo (1384), inizia la lunga serie dei documenti riguardanti l'esecuzione degli affreschi nel camposanto pisano e qualche altro lavoro secondario, e al 7 dicembre di quell'anno ricorre per la prima volta il suo nome nei registri redatti dall'Operaio Parasone Grasso. I pagamenti più importanti (7 dic. 1384-28 marzo 1386) si riferiscono ai tre affreschi che narrano proseguendo il racconto iniziato (1377) da Andrea Bonaiuti - Storie di s. Ranieri, condotte a termine da A. in questo periodo, aiutato dai suoi due garzoni Giovanni e Piero, non meglio identificati. In uno di tali documenti si cita anche un suo figliolo Checco (Francesco), del quale non è altra memoria. Nel 1385, inoltre, A. e l'aiuto Giovanni sono ricordati per lavori (non altrimenti precisati) sulla cupola del duomo pisano (Tanfani Centofanti). L'anno seguente (14 apr.-4 ag. 1386) A. riceve pagamenti, assieme ai due aiuti, per pitture eseguite "pro imbazamento de supter purgatorio, inferno et paradiso et aliis istoriis..." (Ciampi), sempre in camposanto. Il 2 ag. 1387 viene retribuito "pro pictura capelli organorum" dall'Opera del duomo; la lettura di questo documento, erratamente interpretata dal Ciampi, condusse vari studiosi a ritenere che A. avesse affrescato la cappella della Madonna, sottostante, appunto, all'organo del duomo pisano: pitture delle quali inutilmente si cercarono le tracce. Dallo stesso documento si rileva che a quell'epoca A. abitava in una casa "in cappella" di S. Nicola; in precedenza aveva alloggiato in un fabbricato "in cappella" di S. Lorenzo, come si deduce da altro documento (1º marzo 1388), in cui si dice che egli aveva restituito la chiave della casa un tempo abitata, e di proprietà dell'Opera del duomo (Tanfani Centofanti). Questa data (1388) è segnata sull'ultima sua pittura a noi nota - una tabella per l'arciconfraternita di S. Nicolò Reale (Palermo, Museo Diocesano) -, ed ormai accettata come tale, assieme alla firma frammentaria: "An... i... da Vinexia pinxit". Da tale scritta - per altro assai esplicita ed indicativa per determinare le origini del pittore - il Cavalcaselle, forse leggendola in migliori condizioni, deduceva il cognome di A., decifrandolo in Longhi: ma tale lettura risultò (Di Marzo) priva di sicuro fondamento, ed è tuttora ignoto il casato dell'artista.
Se le notizie ricavate dai documenti sono esplicite, di minor aiuto ci sono le fonti critiche, su tutte quella del Vasari: infatti, come si è accennato, già da allora risulta controversa la provenienza di A. e soprattutto poco chiara risulta la sua formazione artistica. A seguire il Vasari, ancora una volta, si dovrebbe ricorrere al nome di Agnolo Gaddi; nome che, tuttavia, come è stato avvertito da gran parte degli studiosi, non soddisfa pienamente e anzi suona quasi inspiegabile e in netto disaccordo con l'opera certa di Antonio. In effetti la pittura di Agnolo, povera e secca in quanto a colore, gracile di modellato, non spiegherebbe assolutamente la forza plastica e, soprattutto, la qualità cromatica di A.: tanto intensa e ricca di una sua levità luminosa, da far pronunciare di recente (Toesca 1951), e quasi come segnacolo di valori anticipati, il nome di un altro grande veneto naturalizzato toscano, Domenico Veneziano. E a questo proposito sono stati proposti i nomi di Maso e di Nardo, quali probabili ispiratori, proprio perché tra i maggiori interpreti della varietà cromatica in seno alla grande tradizione giottesca. Ma pure è lecito pensare che tale qualità pittorica in A. provenisse direttamente dal ceppo veneto, anche se poi rilegata nel solido rigore formale e plastico del linguaggio figurativo fiorentino. Si è rilevato (Toesca 1951) anche un gusto narrativo ed episodico in parallelo a Giovanni da Milano e Tommaso da Modena, tanto da far supporre non del tutto infondata la notizia vasariana del ritorno alla città d'origine di A.; ritorno che gli avrebbe permesso di ravvivare, al cospetto delle opere del modenese, quella spigliatezza narrativa insolita alla pittura fiorentina del secolo, ma che potrebbe forse spiegarsi anche con l'ascendente esercitato su A., durante la sua dimora senese, dagli esemplari di quei grandi maestri, a cominciare dai Lorenzetti: e forse non sembrerà inopportuno citare, per certi brani gustosi nelle Storie di s. Ranieri, il precedente degli affreschi di Pietro - o di suoi seguaci - in, Assisi, nel braccio sinistro del transetto della chiesa inferiore di S. Francesco, e le vivaci predelle dove si articola mirabilmente la sapienza narrativa dei due fratelli senesi.
Mentre è ancora dibattuto il problema della formazione di A., assai più chiaro si presenta il "corpus" delle sue opere, che ha raggiunto una certa consistenza soprattutto per merito di R. Offner. Tra le opere citate dalle fonti - se pure erano di sua mano -, non sono rintracciabili quelle eseguite a Venezia, e scomparse alcune che si trovavano in Firenze o nei dintorni: gli affreschi di S. Spirito; la predella sull'altare di S. Stefano al Ponte (opere ricordate dall'Anonimo Magliabechiano, ma riportate anche dal Vasari, che forse attinse a quella fonte); l' "arco d'entrata" in S. Antonio al Ponte alla Carraia; la tavola per l'altar maggiore della Certosa, eseguita, a detta del Vasari, per gli Acciaiuoli; la Trasfigurazione dipinta a fresco nella cappella delle Reliquie, sempre alla Certosa. Restano, invece, alcune tra le opere più significative e importanti, quali il complesso di Pisa e il Tabernacolo della Torre degli Agli (Novoli), se pure, specie il secondo, assai rovinati dal tempo: attorno a questi l'Offner raggruppò un notevole numero di dipinti, cui si aggiunsero più tardi le attribuzioni di M. Salmi (stendardello del Museo Civico di Pisa), di C. Brandi (polittico frammentario della Pinacoteca di Siena, n. 110, ma di assai incerta autografia), e due pannelli nella Pinacoteca Vaticana, proposti dal Berenson, ma che non sono sicuramente di mano di A., come anche il frammento con figure di apostoli nel Museo di Altenburg (Schmarsow), già rifiutato dall'Offner. Tuttavia, anche per le incertezze dei curricolo biografico, è estremamente difficile disporre secondo uno svolgimento coerente queste opere attorno a quelle che portano una data precisa e fondamentale per la ricostruzione critica del percorso di A.: gli affreschi pisani (1383-1386) e la tabella di Palermo, sulla quale sono registrati i nomi dei membri defunti dell'arciconfraternita di S. Nicolò Reale (1388). Lo scarto stilistico, infatti, è minimo tra le diverse opere, mentre notevoli invece sono i tratti comuni a quasi tutte. Al periodo senese, il meno noto, è stato attribuito dal Brandi il frammento di polittico con i Quattro evangelisti (Siena, Pinacoteca), ma l'opera difficilmente può essere accettata come di Antonio. Del momento fiorentino è generalmente ritenuto il Tabernacolo degli Agli, che tuttavia, anche secondo la notizia vasariana, potrebbe seguire gli affreschi pisani: la dolcezza del modellato, una luminosità cromatica che si appressa a Maso, sembrano infatti proseguire e sviluppare la ricerca portata avanti nelle Storie di s. Ranieri, mentre l'opera che dovrebbe essere più prossima, l'Assunta del convento di S. Tommaso (Pisa), e per caratteri nettamente senesi da porsi tra le prime prove di A., ne è chiaramente distante. Ad essa si può accostare invece l'Incoronazione di Maria (New York, coll. Hurd) che presenta punti di strettissimo contatto con le storie di s. Ranieri. Precedente a tutte queste opere è probabilmente la Madonna col Bimbo e donatrice (Boston, Mus. of Fine Arts), completata dai due laterali con S. Paolo e S. Pietro (Firenze, coll. Loeser), che conserva, pur nella sodezza tutta fiorentina di modellato, ricordi evidenti del soggiorno senese e del contatto con le opere di Ambrogio Lorenzetti. Più tardo è lo stendardello del Museo Civico di Pisa - dipinto su entrambe le facce, Crocifissione, Santo Eremita - cheper finezze disegnative e compositive di derivazione senese sembra ispirarsi ancora una volta a motivi tratti dai fratelli Lorenzetti - soprattutto nella Crocifissione -, ma che precede, anche se di poco, gli affreschi in camposanto, dove tali caratteri si mostrano assai attenuati. Posteriori alla tabella del 1388, che è decorata nella cimasa da una Flagellazione alla quale assistono dei confrati, ed è arricchita da medaglioni con le figure della Vergine, di s. Giovanni Evangelista, dei quattro evangelisti e di altri santi, e dipinta certamente a Pisa, potrebbero essere la bellissima pala del Kestner Museum di Hannover, pienamente fiorentina nella potente impaginazione architettonica e nella sodezza plastica che riecheggia Taddeo Gaddi, attenuata da un gusto decorativo ancor tutto senese, e il S. Giacomo di Göttingen (Universitäts-Museum), di un plasticismo soffice e luminoso, di una scioltezza di modellato che lo accomuna agli affreschi del Tabernacolo degli Agli. Non sono di A. le tre piccole tavole con figure di santi nel Museo di Berlino (Dahlem), assegnategli da W. Cohn, ma piuttosto di un artista vicino a Bernardo Daddi.
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