DECIO, Antonio
Nacque ad Orte (Viterbo) probabilmente oltre il 1560 e morì poco dopo il 1617, anno della stampa vicentina della tragedia Acripanda, volendo seguire il Crescimbeni, il quale informa che si spense "in età ancor fresca". Lo stesso autore lo segnala celebre professionista in Roma, dottore in legge, insigne avvocato. Intimo di T. Tasso, uomo assai dotto nelle lettere nonché eruditissimo, il D., cultore dell'ars poetica oraziana, tentò con successo un solo genere letterario: il componimento teatrale tragico.
Nei ritagli di tempo della sua intensa professione, interpretando l'esercizio della letteratura come un divertissement, cornpose la tragedia Acripanda. Vi si dedicò, in particolar modo, durante le vacanze di un'estate, senza peraltro trovare l'umore di consegnarla alle stampe, abbandonandola tra i freddi libri di giurisprudenza, vero e proprio "badalucco" di un appassionato. La prima stampa fu a Firenze, nel 1592, su ordine di Giovanni de' Medici. L'anno in cui venne scritta è tuttavia assai anteriore a questa data, tanto che il Crescimbeni sottolinea tale intervallo con una punta di incredulità.
L'opera presenta effettivamente tutte le caratteristiche di un esuberante esperimento giovanile, evidenziando, nello stesso tempo, un'attenzione tutt'altro che acerba ed una cura per nulla superficiale nei riguardi delle esigenze spettacofistiche del genere.
L'azione si apre con l'ombra della regina Orselia (stesso espediente presente nella Canace di S. Speroni) che informa di essere stata uccisa dal consorte Ussimano, bramoso della bella Acripanda. Negli ultimi versi il prologo sembra quasi ironizzare sull'eventuale proponibilità di stilemi drammatico-rappresentativi ispirati al più rigoroso classicismo, precisando che "vaghi spettacoli, e solenni / Giochi de la fortuna, e de la sorte / Nel theatro del mondo hoggi vedransi".
L'incipit acquista plausibilità tridentina nel momento in cui un consigliere afferma che Dio non lascerà davvero impuniti gli empi Acripanda ed Ussimano. La nutrice rivela quindi che il figlio di Orselia, legittimo erede al trono, fu sottratto alla furia paterna, fatto fuggire in Arabia dove, divenuto re, crebbe con fermi propositi di vendetta. Non a caso è in corso una guerra tra i due regni ed arriva puntuale un messo recando la notizia che Ussimano è stato pesantemente sconfitto.
Gli Arabi si accingono ad assediare la città. A questo punto, con un impertinente salto di registro, allo spettatore è offerto il racconto erotico della nutrice sui piaceri tra Ussimano ed Acripanda, la quale, dopo accurate ed insistite leggiadrie nelle braccia del re, formula la consueta promessa di completa cedibilità solo dopo regolare matrimonio.
Evidente, per l'ambiente controriformistico, che proprio qui risieda la colpa tragica della bella Acripanda, del tutto innocente rispetto ai precedenti misfatti del marito. L'atmosfera perversa e morbosa si giova dell'ambientazione esotica, svolgendosi l'azione a Menfi, in Egitto. La nutrice si sbizzarrisce e rivela alla regina l'uxoricidio del re, luogo in cui si fondono i registri erotico e sadico: basti riferire come Orselia muoia trafitta al seno, pregando l'infame di saziarsi del suo sangue e di strapparle il cuore, finché è proposta l'immagine del figlioletto che succhia il petto ormai gelato della madre.
Un messaggero reclama da Acripanda i suoi figli gemelli, come segno di tregua. La regina accetta, ma i ragazzi vengono fatti a pezzi e riportati alla sventurata che, folle di dolore, si fa seppellire viva assieme a quei poveri resti. La tragedia si conclude col re vendicatore che entra a palazzo lamentando la sua inutile vittoria. Quindi il coro celebra l'effimero dell'evento rappresentativo, poiché "Passa il fasto mortale / Qual passa in un momento / Polve, fumo, nebbia, ombr'aria, o vento".
La tragedia godette di grande fortuna sia ai suoi giorni sia al culmine della civiltà barocca, spia di un certo gusto bizzarro, sensuale ed immaginifico. Sulla scia di S. Speroni (Canace, composta nel 1542, pubbl. nel 1546) e di G. Giraldi Cinzio (Intorno al comporre delle commedie e delle tragedie, 1543), di poco anteriori, il D. accetta certe contemporanee suggestioni senechiane nel presentare una situazione drammatica già pronta ai più terribili e fantasiosi fatti di sangue.
È curioso, pertanto, immaginare i colloqui tra il D. e il Tasso per le vie di Roma, specialmente in piazza Navona, il cui perimetro era più volte percorso dai due, intenti a discutere sulle regole della poesia drammatica. Non riesce facile pensare al Tasso che si dilunga sulle lodi dell'opera, piena di sesso e di violenza, come invece alcune fonti assicurano. Poiché ciò doveva avvenire nel 1594, dobbiamo pensare ad un Tasso già colpito duramente nella salute, che evitava crocicchi e confusioni, ma lucido ed aperto al dibattito su qualsiasi forma d'arte.
Dai contemporanei appare che il D. non si aspettasse un successo così clamoroso dalla sua fatica. Presone atto, pare che coltivasse numerosi altri progetti letterari e ne facesse partecipe l'ambiente intellettuale romano, il quale volentieri gli prestava simpatia ed attenzione.
La morte, sopravvenuta bruscamente, dovette quindi stroncare la brillante carriera di avvocato, tra i più giovani ad essersi segnalati, ed ipotesi letterarie probabilmente più regolari e meditate rispetto al brillante e provocatorio esperimento tragico.
Opere: Acripanda, Firenze 1592, poi Venezia 1592 e 1610, Vicenza 1617, Londra 1789 e in Teatro italiano antico, Milano 1808-1812, IX, pp. 31 ss. Esistono due lettere dei D. senza data, entrambe indirizzate a Virginio Orsini, duca di Bracciano, noto mecenate dell'epoca, la prima delle quali, oltre agli inchini di rito, contiene un sonetto dedicato allo stesso duca, mentre la seconda più prosaicamente, una raccomandazione per un posto di segretario; si trovano a Roma, Arch. Capitolino, Archivio Orsini, busta 106, carta 67; busta 107, carta 659.
Fonti e Bibl.: G. V. Rossi [I. N. Erythraeus], Pinacotheca…, I, Coloniae 1642, p. 107; G. M. Crescimbeni, Storia della volgar poesia, IV,Venezia 1730, pp. 140 ss.; A. Serassi, Vita di Tasso, II, Firenze 1858, p. 293; F. Neri, La tragedia italiana del '500, Roma 1901, pp. 142 ss.; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933, pp. 326 s.; E. Bertana, Storia dei generi letterari. La tragedia, Milano 1947, pp. 84, 95.