DA TEMPO, Antonio
Nacque, con molta probabilità, a Padova verso la fine del XIII secolo dal giudice Buzzacarino di Antonio Panevino, appartenente ad una antica famiglia padovana che aveva le sue case nel quartiere del duomo.
Quando nel 1312 i Padovani si ribellarono a Gerardo da Enzola, vicario di Enrico VII, i Da Tempo che erano di parte ghibellina subirono il bando dalla città. Riuscirono a far ritorno nel 1318, e Buzzacarino poté riprendere il suo posto tra i giudici del Comune. Erano gli anni in cui Cangrande Della Scala nutriva mire espansionistiche su Padova, cercando di far leva sulla fazione ghibellina della città. I Da Tempo, che parteggiavano per lui, nel 1319 furono nuovamente banditi. Ma questa volta l'esilio ebbe più breve durata. Quando infatti nel 1320 Jacopo da Carrara cedette volontariamente e con il consenso di Cangrande il controllo di Padova al vicario imperiale, il gesto permise la rappacificazione generale e il conseguente ritorno dei ghibellini ribelli. In questi anni il D. seguì sicuramente il destino della sua famiglia, maturando quella devozione agli Scaligeri che l'accompagnerà per tutta la vita. Più tardi aggiungerà al suo nome quello di Cane, in onore di Cangrande; ed anche dedicherà al nipote di lui Alberto II, signore di Padova dal 1329 al 1337, insieme con il fratello Mastino II, la sua Summa arris rithmici tulgaris dictaminis, il trattato di metrica volgare portato a termine nel 1332 per il quale ancora oggi il D. viene ricordato.
Nel 1323 i Da Tempo erano sicuramente a Padova e l'anno successivo il D., seguendo le orme paterne, fu registrato nella matricola dei giudici del Comune. Ma per allora non accettò uffici, vivendo - come si deve presumere - esercitando l'arte del cambio e il prestito ad usura. Una testimonianza in questo senso ci viene dal Nonio, cronista padovano della seconda metà del Trecento, che lo descrive come un ricco usuraio, padre a sua volta di un Buzzacarino Panevino che possedeva tre belle case in muratura dietro i giardini dei duomo (Grion, p. 7). L'attività di giudice il D. la esercitò di fatto più tardi, dal 1329 al 1337, quasi tutti gli anni per un quadrimestre, come prescrivevano gli statuti padovani. Per assumere la responsabilità di un incarico pubblico egli aveva atteso che gli Scaligeri esercitassero direttamente il governo della città. Nel 1332 fu anche gastaldo del Collegio dei giudici e nel 1335 andò in missione a Trieste come vicario del podestà Domenico da Prata.
L'ufficio di giudice svolto a Padova dal D. rimanda evidentemente a una formazione culturale e professionale di tipo giuridico. Ma come fu per molti altri giudici e notai dei XIII e dei XIV secolo, l'esercizio della professione si accompagnò in lui a uno spiccato interesse per le lettere e soprattutto per la poesia in volgare.
In quegli anni Padova era in Italia il più importante e originale centro di cultura preumanistica (basti ricordare i nomi di Lovato Lovati, Albertino Mussato e Giovanni del Virgilio). Contemporaneamente, con le altre città venete, già permeate da tradizioni letterarie francesi (che avevano tra l'altro dato luogo alle rielaborazioni della cosiddetta letteratura franco-veneta), Padova si veniva dischiudendo, soprattutto per i soggiorni di Dante nel Veneto e nella vicina Ravenna, alla penetrazione della cultura poetica siculo-toscana. Quest'ambiente ricco di fermenti innovatori ma anche ancorato atradizioni culturali e linguistiche locali, predisposto alla riflessione e alla classificazione dal metodo degli studi giuridici e scientifici praticati presso l'ateneo padovano, spiega perfettamente la genesi e le caratteristiche del trattato metrico del Da Tempo. Nella storia personale dell'autore sarà anche stata determinante l'esigenza di definire il quadro istituzionale entro cui egli ed i suoi amici svolgevano un'attività poetica in volgare, che dobbiamo supporre molto più intensa di quanto non risulti dai documenti pervenutici.
La critica è concorde nel giudicare con sufficienza le prove poetiche del D.; e di fatto, sia le rime che sono riportate a mo' d'esempio nella Summa, sia gli otto sonetti di corrispondenza tramandati al di fuori di essa (interlocutori sono Albertino Mussato, Matteo Correggiaio, Iacopo da Imola, Andrea Zamboni, Iacopo Flabiani, Andrea da Tribano; cioè giudici, notai, dottori di legge padovani) non superano la convenzionalità di tanta rimeria dell'epoca. E altrettanto convenzionali dobbiamo ritenere che fossero. le rime per una Selvaggia, senhal della donna amata, di cui fa solo fede l'ignoto autore della Leandreidé (ed. Renier, vv. 31 ss.). Ma se si sposta l'attenzione all'opera del trattatista, all'intelligenza e all'impegno che comportò la riflessione sulle rime volgari per chi non aveva dietro di sé alcuna tradizione specifica di studi (Il D. non conosceva il De vulgari eloquentia dantesco); e si considera per di più il successo incontrastato che il trattato incontrerà fino al XVI secolo, l'importanza che assume il nostro autore nella storia della poesia in volgare va ben al di là di quanto la qualità delle sue rime possa giustificare.
Nella Summa scopo dichiarato del D. è di trattare di quelle forme metriche che erano maggiormente usate nella poesia italiana. L'angolo visuale dell'autore era naturalmente quello della sua città, dunque un punto di vista periferico rispetto al centro d'irradiazione della tradizione che egli intendeva descrivere e classificare, con tutti i ritardi e i fraintendimenti che questo poteva comportare.
La scansione dei capitoli segue nella Summala successione dei tipi metrici che sono descritti. Il D. ne identifica sette: sonettus, ballata, cantio extensa, rotundellus, mandrialis, serventesius, motus confectui. La trattazione del sonetto in tutte le sue varietà occupa una buona pietà del trattato; ed essendo il sonetto una forma metrica le cm origini sono tutte italiane, è già questo un eloquente riconoscimento tributato alla tradizione siculo-toscana. Ma a presenze significative corrispondono assenze altrettanto significative. L'assenza più vistosa nella cultura del D. riguarda certamente la poesia in langue d'oc, anche perché essa determina la sottovalutazione dell'intero filone della tradizione lirica italiana ispirata al trobar ku provenzale, come dire tutta la linea che dallo Stilnuovo attraverso Cino porta al Petrarca. In questo modo anche il giudizio che il D. dà delle singole forme metriche finisce talora per non essere rispondente allo sviluppo e al rilievo che quelle forme avevano nella pratica poetica contemporanea. Ad esempio egli attribuisce scarsa importanza alla canzone, nonostante il ruolo ad essa riconosciuto dagli stilnovisti e da Dante in particolare; tratta il sirventese come una forma semidotta, priva di prestigio letterario, quando dai poeti occitanici era stato impiegato per esprimere contenuti di alto valore morale e politico; ritiene la ballata un genere in cui il testo letterario aveva una funzione puramente servile rispetto alla musica e alla danza, e si pensi alla qualità letteraria di certe ballate di Dante o di Cavalcanti. Di fatto, e risulta anche dalla sua pratica di rimatore, il D. dimostra ancora solidi legami con la tradizione di poesia didattico-moraleggiante praticata in area alto italiana; soprattutto si sente che egli è ancora implicato in quel gusto dell'elaborazione artificiosa che, in seguito alla lezione stilnovista, appariva ormai ad orecchi toscani come il segno di un esercizio irrimediabilmente provinciale. E va anche aggiunto che sono numerose le incertezze del metodo con cui il D. procede, come ad es. il trattare alla rinfusa i tre elementi della composizione (numero delle sillabe nel verso, numero dei versi nella composizione e disposizione delle rime nella strofe). Ma è pure doveroso sottolineare che sono altrettanto numerose e precorritrici le intuizioni di cui il D. dissemina il suo trattato. Basti richiamare la sua affermazione "lingua tusca magis apta est ad literam sive literaturam quani aliac linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis" (ed. Andrews, p. 99), che è un vero e proprio atto di fede nelle sorti future del toscano; o anche ricordare che, a differenza di Dante, il D. percepisce -nettamente le differenze che corrono tra la tecnica del verso romanzo e quella quantitativa dei metri classici; o ancora, venendo a cose più minute, far presente che il criterio di distinguere le ballate dal numero dei versi della ripresa è stato definito dal D. ed ancora oggi è comunemente accettato.
Ma l'importanza della Summa va anche valutata alla luce del successo incontrato nel XIV e XV secolo. La sua tradizione, ancora attestata da numerosi manoscritti, ha conosciuto volgarizzamenti (uno anonimo è nel cod. Plimpton segnalato dal Grayson), rimaneggiamenti e rifacimenti (di rilievo quello tardotrecentesco di Gidino di Sommacampagna e quello quattrocentesco di Francesco Baratella). Usata come libro di scuola e come manuale pratico di versificazione per oltre due secoli, non è improbabile che la Summa abbia anche avuto una sua parte nell'influenzare il gusto poetico successivo., molto più incline all'artificio e alla complicatezza di quanto l'imitazione dei modelli trecenteschi riesca a spiegare. Nel 1525 saranno finalmente le Prose del Bembo a rendere obsoleto il trattato del D. e con esso un intero modo di concepire e di descrivere l'arte di far versi.
Degli ultimi anni del D. si conosce poco o nulla. La caduta della signoria scaligera su Padova nel 1337 quasi certamente comportò per lui un nuovo bando. Il suo nome compare per l'ultima volta tra i firmatari di un documento redatto a Vicenza nel 1339 e che si conserva nei Libri coriimemoriali della Repubblica di Venezia (Zenatti, p. 11). Se il sonetto "È non si può cielar che non si dicha" rivolto a Iacopo da Imola (Morpurgo, p. 161) appartiene a questi anni, il verso conclusivo "da Pava fui, testé a Vinegia stome" parrebbe l'indizio di un ultimo esilio veneziano.
L'anno e il luogo in cui morì il D. non sono noti.
Una vulgatissima biografia dei Petrarca e un commento al Canzoniere che hanno circolato a lungo sotto il nome del D., se non appartengono ad un suo più tardo omonimo, sono il falso di un editore quattrocentesco.
La Summa, edita per la prima volta a Venezia nel 1509 da Simone de Luere e poi ristampata dal Grion nel 1869 sul fondamento esclusivo del ms. 4 della Bibl. del Seminario di Padova, si può ora leggere nell'edizione critica che ne ha fornito Richard Andrews (Bologna 1977).
Bibl.: Sull'ed. Andrews si vedano le recens. di M. Marti in Giorn. stor. della lett. ital., XCV (1978), pp. 295-299, C. M. Pazzaglia in Studi e Problemi di critica testuale, XVII (1978), pp. 209-22. Le voci bibliografiche riportate qui di seguito si consultano utilmente anche per le fonti della biografia dei D.: Delle rime volgari. Trattato di A. D., a cura di G. Grion, Bologna 1869; F. Novati, Poeti veneri del Trecento. in Arch. stor. Per Trieste, l'Istria e il Trentino, I (1881), pp. 130-141; S. Morpurgo, Rime ined. di Giovanni Quirini e A. D., ibid., pp. 151-163; R. Renier, L'enumerazione dei Poeti volgari dei Trecento nella "Leandreide", ibid., p. 316; G. Patroni, A. D. commentatore del Petrarca, in Il Propugnatore, n. s., I (1888), 4, pp. 57-83, 226-239; V. Crescini, Per la biografia di A. D., in Raccolta di studi critici dedicata ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 577-581; A. Zenatti, Antichi rimatori padovani, in Atti dell'Accad. scient. Veneto-Trentino-Istriana, cl. di scienze storiche, filologiche e filosofiche, I (1904), pp. 1-12; E. Mozzati, Gli elementi della versificazione volgare nel trattato di A. D. e in "Las Leys d'Amors", in Rend. dell'Istituto lombardo di scienze e lettere, classe di lettere e scienze morali e storiche, XCII (1958), pp. 558-568; Id., Note su A. D. e Gidino di Sommacampagna, ibid., pp. 929-945; R. Andrews, A note on the text of A. D. "Summa Artis Rithmici Vulgaris Dictaminis", in Italian Studies, XXV (1970), pp. 30-39; Id., Il rifacimento dei trattato metrico di A. D. Classificazione impervia di due manoscritti cardinali, in Studi e problemi di critica testle, IV (1972), pp. 5-22; C. Grayson, Il cod. Plimpton Mo della Columbia University Library, in Letter. e critica. Studi in onore di N. Sapegno, III,Roma 1976, pp. 85-100; Enc. Dantesca, II, pp. 317 s.