COSTABILI, Antonio
Di antica e potente famiglia ferrarese, fratello di Beltrando, Camillo e Lancellotto, nacque probabilmente a Ferrara da Rinaldo, consigliere prima del duca Borso d'Este e di Ercole I poi, intorno alla metà del sec. XV e più precisamente, secondo il Voigt, nella prima decade della seconda metà.
Ricevette un'educazione umanistica, impartitagli da precettori privati, fra i quali Luca Ripa, e cavalleresco-militare, propria di un rampollo di una nobile famiglia rinascimentale. La prima parte della sua vita fu dedicata alla carriera delle armi, ed egli militò, al comando di dieci cavalieri, al servizio di Ferdinando d'Aragona, in epoca imprecisata, ma presumibilmente fra il 1472, anno in cui con il matrimonio del duca Ercole con Eleonora d'Aragona le relazioni fra i due Stati si erano definitivamente ristabilite, e il 1482, quando scoppiò la guerra di Ferrara. Durante la prima parte di questo conflitto, che vedeva Ferrara, sostenuta da Milano, Firenze e Napoli, oltre che da Mantova e Bologna, fronteggiare la lega di Venezia con il papa, il C. combatté con valore e perizia al servizio della sua patria come "tribunus militum" e "primipilus quingentarius". Fu presente alla battaglia di Argenta, che vide Roberto Maiatesta sconfiggere gli Estensi, e alla difesa della Stellata, conquistandosi l'ammirazione e la riconoscenza del duca, che pare abbia affermato di dovere a lui la conservazione dello Stato.
Successivamente l'attività del C. cambiò totalmente ed egli fu utilizzato dal duca Ercole come diplomatico. Già nel 1481 egli aveva compiuto per conto del suo signore una missione a Milano, dove da un anno Ludovico Sforza era diventato reggente per il nipote duca. Vi ritornò nel 1486 e l'anno successivo, quando già era stata promessa al Moro, sempre più potente, la figlia del duca di Ferrara, Beatrice. Dopo aver compiuto una missione a Bologna presso Giovanni Bentivoglio nel 1488, il C., già senescalco generale del duca almeno dal 1491, fu inviato nel 1493 presso Alessandro VI e nel 1494 si recò di nuovo nella città lombarda. Nello stesso anno si era portato anche a Napoli, dove aveva porto le condoglianze del duca ad Alfonso II per la morte del padre, Ferdinando, e presso Piero de' Medici, che al seguito di Carlo VIII aveva tentato di riprendere il suo posto a Firenze. Nel giugno del 1495 Alfonso I, che prudentemente non aveva aderito formalmente alla lega antifrancese, inviò il C. "a speroni battuti" presso il sovrano, che lasciata Roma si dirigeva verso Siena. Il C. si trattenne con lui a Siena e ripartì dalla città con l'esercito francese, che si avviava a Sarzana e che il 6 luglio si sarebbe battuto a Fornovo contro l'esercito della lega.
I continui viaggi ed i rapporti che il C. aveva stabilito a Milano fecero sì che egli vi divenisse dal 1496 ambasciatore residente per il duca di Ferrara; in questa veste accompagnò il Moro quando questi incontrò a Tirano e a Bormio Massimiliano I, che iniziava la sua discesa in Italia; in quell'occasione fu notata la grande familiarità con cui lo Sforza trattava l'ambasciatore. Nel convegno indetto da Massimiliano a Vigevano il C. rappresentò il duca Ercole, il quale allora e in seguito rifiutò di cedere a Massimiliano il Castelletto di Genova, lasciatogli in custodia da Carlo VIII. Negli anni successivi il C. inviò da Milano numerosi ed accurati messaggi. In essi descriveva la vita della corte dei duchi, con essi accompagnava l'invio di primizie, rendeva conto di incarichi svolti a proposito di acquisti ordinatigli dal duca Ercole nella metropoli lombarda. Le sue lettere erano piene di deferenza e quasi di affetto per il duca di Milano, ma quando, nell'agosto del 1499, iniziò l'invasione francese, il C. si affrettò a consigliare al duca Ercole di mantenersi nel modo più rigoroso neutrale e a non dare in prestito, come era stato sollecitato a fare, artiglierie al Moro, perché questo atto avrebbe avuto conseguenze politiche notevoli e militarmente non avrebbe portato a Milano che un vantaggio irrisorio. Il C. arrivò a Ferrara il 3 sett. 1499, avendo lasciato Milano solo dopo la partenza del Moro; con un privilegio dato a Ulm, il 22 maggio 1498 aveva avuto dall'imperatore la concessione di aggiungere sul suo stemma l'aquila nera in campo d'oro. Il C. tornò a Milano dopo la seconda e definitiva conquista francese, come inviato speciale al governatore Charles d'Amboise, rimanendovi almeno fino al dicembre dei 1500, avendo incarichi meramente amministrativi in relazione agli affari privati del duca a Milano.
Dopo che nel 1501 gli furono concessi dal duca per i suoi meriti beni già appartenuti ai Trotti, incamerati dal fisco, il C., almeno nel 1502, divenne consigliere ducale, essendo stato nel medesimo anno nominato sindaco e consultore dell'ospedale di S. Anna di Ferrara. Continuò la sua carriera diplomatica recandosi, sempre nel 1502, presso Cesare Borgia a Pavia e l'anno successivo a Roma, insieme con Giovanni Luca da Pontremoli e con Francesco Maria Rangone, per rendere omaggio al nuovo pontefice, Giulio II. Dalla primavera del 1504 compì un lungo viaggio che lo portò in Francia e nelle Fiandre, per accompagnare Alfonso d'Este che l'anno dopo sarebbe divenuto duca di Ferrara. Dopo essere stato ricevuto da Luigi XII a Blois il 22 maggio, il C. il 10 giugno era ad Anversa, dove fu protagonista di un episodio, che, per uno strano destino, si sarebbe ripetuto di nuovo nella sua vita.
Era in strada quando uno sconosciuto lo fece segno di due colpi di spada, gridando: "Antonio Costabili, non dirai mai più a nessuno ladro et traditore!" Si salvò, sottraendosi, cadendo in un fosso, ad altri colpi. Questo episodio fece sì che il re di Francia, come apprendiamo da un dispaccio dell'oratore estense a Blois, del 19 giugno, consigliasse il duca di Ferrara di richiamare il figlio dalle Fiandre, essendo quello un paese molto meno sicuro della Francia e dove si usava circolare armati.
Il 19 apr. 1506 il C. fu nominato giudice dei savi, carica che detenne fino alla morte. Durante il processo seguito alla scoperta della congiura di Ferrante e Giulio d'Este contro il fratello, il C. fu uno dei testimoni e in una riunione di cortigiani fu lui a rispondere per primo sul tipo di pena che meritava don Giulio, sostenendo che il reo avrebbe dovuto subire l'estremo supplizio "alla romana", cioè avrebbe dovuto essere rinchiuso in un sacco e gettato in un fiume. Quando cominciarono fra la corte di Ferrara e quella di Mantova le trattative perché don Giulio, lì rifugiatosi, fosse riconsegnato al duca di Ferrara, fu il C. ad essere inviato presso i Gonzaga a pretenderne la consegna.
Dopo la Dieta di Costanza (primavera 1507), che concedeva a Massimiliano gli aiuti necessari alla sua spedizione in Italia contro Venezia, come altri Stati italiani, Alfonso I inviò nel luglio all'imperatore un'ambasceria, composta dal C. e da Cesare Mauro. Successo al padre da due anni e mezzo, il duca intendeva ottenere l'investitura imperiale. Gli oratori giunsero a Costanza alla fine di luglio; di lì seguirono a Memmingen Massimiliano, che non si contentava dei 50.000 ducati che il duca mandava ad offrirgli per l'investitura. Il C. risiedette quindi, per ordine dell'imperatore, ad Ulm, di dove non aveva l'opportunità di seguire i preparativi della spedizione in Italia, dalla metà di agosto a circa la metà di settembre. Tornati gli ambasciatori alla corte di Massimiliano, le trattative furono riprese e si protrassero a lungo, poiché le posizioni del duca e dell'imperatore erano molto lontane; tuttavia l'interesse di ambedue era di protrarle, ma non di interromperle. Nel marzo del 1508 il C. non sopportava più il soggiorno in Germania e scriveva a Ferrara di non voler rimaner seppellito lì in eterno.
Questo atteggiamento si spiega anche con due episodi accaduti al C. nel gennaio. La notizia di uno, avvenuto il giorno 22, che ripete fatalmente quanto gli era accaduto in Fiandra, ci è pervenuta da una lettera di C. Mauro a Beltrando Costabili. Il C., a Bolzano, si trovava per la via accompagnato da otto servi, di ritorno da una visita all'oratore britannico, Edward Wingfield, diretto alla sua abitazione, quando un uomo, di nazionalità tedesca, lo colpì con l'intento di ucciderlo con un sol colpo, con una corta spada. Sospettando di essere stato colpito da un'arma avvelenata, comprimendosi la ferita con la mano, il C. fece catturare l'aggressore, che fu consegnato all'autorità locale. Questi, confesso, si giustificò dicendo di aver voluto vendicare un'ingiuria ricevuta a Roma. Il C. fu curato da un medico reale, fu ossequiato da nobili inviati dall'imperatore e ricevette soddisfazione, poiché l'aggressore fu decapitato, benché egli avesse intercesso per lui. L'altro episodio, se così si vuol chiamare, è la stesura di una lettera-saggio del C., del 20 gennaio, in cui egli, sempre che sia esatta la supposizione del Voigt che lo indica come autore di essa, scrivendo presumibilmente ad un membro della corte del suo stesso livello sociale, descrive le proprie impressioni sulla Germania. In una prosa latina elegante e vivace, infarcita di reminiscenze classiche ed umanistiche, egli descrive, quasi sempre in chiave assolutamente negativa, il clima, l'ospitalità (osterie fetide, infette, puzzolenti da indurre alla nausea, stillanti grasso), il cibo (pane nero, vino adulterato da erbe, poca cacciagione, niente carne ovina e bovina, formaggio putrido, mancanza di dolciumi), i vestiti (miseri), l'amore per il gioco d'azzardo dei Tedeschi, la loro tendenza a cedere ai peccati di gola, i riti, le case (disposte "sine nulla symmetria"), le donne (che puzzano "graviter" e cucinano cibi che "si degustes semel, reiectare congeris"), ed altri usi e costumi, definendo i Tedeschi "robiginosi, furentes et iracundi, insolentissimi, arrogantes et temerarii, impudentes et obsceni, in venerem non solum proni sed praecipites atque subantes et omnia cum insania facientes". Quale che sia il valore storico e documentario della lettera, certo essa denuncia il grave stato di disagio in cui viveva il C. alla corte imperiale.
Ciononostante in aprile egli dovette seguire Massimiliano nel Brabante. Le sue lettere giungevano nel giugno-luglio da Magonza, poi da Malines e da Anversa. Qui dovette ricorrere ad un prestito di oltre 500 ducati, oppresso, fra gli altri disagi, anche dalla mancanza di denaro. Tornò a Ferrara, provocando il risentimento del duca, nella seconda metà di ottobre. Rimasto tuttavia nelle grazie di Alfonso, nel 1509 egli accompagnò il cardinale Ippolito a Mantova e nel dicembre del 1510, mentre Ferrara subiva la scomunica e la pressione militare di Giulio II, pronunciò un discorso per il duca, che fu giudicato degno di Cicerone.
Le missioni diplomatiche del C. divennero in seguito più sporadiche. Nel 1521, mentre Ferrara era ancora una volta minacciata dalle armi papali, egli fu inviato a Venezia e l'anno successivo, morto Leone X, a negoziare a Bologna. Eletto papa Clemente VII nel novembre del 1523, il duca Alfonso designò il figlio a fargli atto di omaggio e a negoziare la pace, sostituendolo subito dopo però con il C., Matteo Casella e Ludovico Cati, che giunsero a Roma il 3 genn. 1524 e riuscirono, il 15 marzo, a concludere una tregua d'armi. Nell'Urbe egli provvide a far porre una lapide in memoria del fratello Beltrando, morto nel 1519, nella chiesa di S. Maria del Popolo.
Morì, secondo M. Catalano, il 20 ag. 1527. Nel luglio aveva fatto testamento, lasciando i suoi beni (poiché l'unica figlia, Cecilia, gli era premorta) al nipote, Paolo, figlio del probabilmente già deceduto Lancellotto. Fu, secondo il Catalano, sepolto in S. Maria in Vado o, secondo il Guarini, nella chiesa di S. Andrea.
Aveva abitato nella via di Ghiaia un palazzo imponente, che probabilmente si era fatto costruire a sue spese, ma che la tradizione considera pervicacemente come fatto erigere a spese di Ludovico il Moro, che, visitato dal C. durante la sua prigionia a Loches, glielo avrebbe regalato. Era ricchissimo e pienamente inserito nella vita mondana della sua città, come lo era stato alla corte del Moro. Nel suo palazzo si svolgevano feste memorabili, banchetti, esibizioni artistiche; rimane testimonianza di un banchetto sontuoso, seguito dalla rappresentazione di una commedia dell'Ariosto, che il 1º apr. 1513 egli offrì a Lucrezia Borgia ed a Prospero Colonna e dell'ospitalità offerta al duca e alla duchessa di Ferrara il 25 genn. 1556. È perciò naturale che egli abbia avuto rapporti con i letterati ferraresi del tempo. Primo fra tutti Ludovico Ariosto, del quale era socio nel possesso dell'ufficio criminale dell'arcivescovato di Milano; Daniele Fini lo definì in un suo carme "padre della patria"; Celio Calcagnini, che ebbe l'incarico di storiografo di corte nel 1517 dal Consiglio dei savi, presieduto dal C., scrisse per lui un'orazione funebre, edita in C. Calcagnini Opera, Basileae 1544, pp. 512-55.
Fonti e Bibl.: G. Pardi, Diario di Ugo Caleffini, I, Ferrara 1938, pp. 133, 387; Diario ferrarese dall'anno 1409 sino al 1502di autori incerti, in Rer. Ital. Scriptores, 2 ediz., XXIV, 7, t. I, a cura di G. Pardi, pp. 155, 231; B. Zanibotti, Diario ferrarese..., ibid., XXIV, 7, t. II, a cura di G. Pardi, pp. 276, 346, 349, 353; M. A. Guarini, Compendio histor. dell'origine... delle chiese... di Ferrara, Ferrara 1621, pp. 366 s.; L. Ughi, Diz. storico degli uomini illustri ferraresi, I, Ferrara 1804, pp. 141 s.; Lettera del card. Ippolito Estense ad A. cav. C., in Per le nozze Avogli-Fochessati, Ferrara 1846; L.-G. Pélissier, Louis XII et Ludovic Sforza, I-II, Paris 1896-1897, ad Indicem;M. Catalano, Lucrezia Borgia..., Ferrara 1920, pp. 29, 34, 70, 72; F. Malaguzzi Valeri, La corte di Lodovico il Moro. La vita privata e l'arte a Milano..., Milano 1929, ad Indicem;M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto I-II, Genève 1931, ad Indicem;S.Pasquazi: Poeti estensi del Rinascimento, Firenze 1966, p. XXII; K. Voigt, Die Briefe A. De C. und Cesare Mauros von der Gesandtschaft Ferraras zu König Maximilian I. (1507-1508), in Römische histor. Mitteilungen, XIII(1971), pp. 81136; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 56, 62, 67.