CODRONCHI, Antonio
Nacque a Imola l'8 ag. 1748 dal conte Innocenzo e da Giulia Stivivi di famiglia riminese. Compì i suoi studi nel locale collegio retto dai gesuiti, ma anche nell'ambiente familiare ebbe una buona formazione culturale, potendo usufruire della vasta biblioteca del padre, discreto matematico e uomo aperto alle più varie suggestioni culturali, ricca di opere moderne non escluse quelle degli enciclopedisti. Avviato alla carriera ecclesiastica, il C., ancora chierico, nel 1766 fu nominato dal vescovo di Imola, mons. G. C. Bandi, coadiutore del canonico della cattedrale G. E. Mozzi Gigli. Ricevette l'ordinazione sacerdotale il 21 sett. 1771. Qualche anno dopo fu accolto in Arcadia con il nome di Nusimene Cilezio.
Con l'elevazione al soglio pontificio del cardinale Braschi, raccomandato da mons. Bandi al nipote Pio VI entrò nella Pontificia Accademia dei nobili ecclesiastici di Roma, ove per due anni (1776-78) perfeziono i propri studi. Nel frattempo esercitava le funzioni di segretario di mons. Ludovico Flangini, con la promessa della nomina a uditore della nunziatura di Venezia. Ma, inaspettatamente per lui, il 4 luglio 1778, Pio VI lo designava al più importante incarico di ministro pontificio presso la corte sabauda.
Dopo un breve soggiorno a Imola, il C. giunse in Piemonte verso il 20 settembre (il primo dispaccio da Torino è datato 22 sett. 1778).
In un periodo di ottimi rapporti tra la S. Sede e il Regno di Sardegna, la missione del C., trattato con stima dal ministro degli Esteri conte di Perrone, non uscì dai confini della trattazione di affari di ordinaria amministrazione. Buon osservatore dei problemi locali e attento a captare eventuali novità che filtrassero nell'ambiente diplomatico accreditato a Torino, egli divenne uno scrupoloso e assiduo informatore della segreteria di Stato vaticana. Seguì con particolare attenzione i residui problemi connessi all'alienazione dei beni ex gesuitici, spesso finiti in mano ai nobili piemontesi, segnalando nel contempo a Roma il fenomeno della persistenza di uno stretto legame tra membri della soppressa Compagnia ("Mantengon tra loro grandissima corrispondenza, come se sussistesse il loro corpo avendo perfino in questi Stati un provinciale, e tutti onorando in Roma un certo abate Rossembergh, come supposto lor Generale": Arch. Segr. Vat., Savoia, 210 A, 22 sett. 1779). Vegliò anche sulla circolazione della stampa, intervenendo con energia presso il governo sabaudo per impedire la diffusione di opere considerate pericolose per la religione o lesive dell'autorità del papa; denunciò l'estendersi di logge massoniche a Torino, con notevole adesione della nobiltà, e chiese l'appoggio dell'arcivescovo della città e del vicario del S. Uffizio per ottenere un intervento del sovrano contro un fenomeno "che non solo un disprezzo portava alla Religione, ma un disturbo preparava alla tranquillità del Governo" (ibid., 23 febbr. 1780). Qualche preoccupazione riguardò i possibili contraccolpi dell'editto di Giuseppe II che estendeva alla Lombardia i provvedimenti di confisca dei beni ecclesiastici appartenenti agli Ordini religiosi, ma il C. rassicurò Roma: "Vedo per altro la disapprovazione comune, onde ho luogo a sperare che tal metodo d'impinguare i regi erari non sia per essere addottato; e la religiosità di questa Corte me ne rende per questi Stati sicuro" (ibid., 2 maggio 1781). Il C. trovò modo anche di esercitare la sua mediazione in favore dell'Ordine gerosolimitano in occasione della decisione del governo sabaudo di negare lo exequatur a bolle o provviste di beni nei territori del Regno a favore di membri "esteri" (1781); ottenne perciò la nomina a cavaliere dell'Ordine.
Nella primavera del 1782 gli fu consentito dal segretario di Stato di assentarsi da Torino per incontrare a Imola Pio VI di ritorno dal suo viaggio a Vienna (il C. rimase fuori sede dal 18 aprile alla fine di giugno). Egli aveva intanto continuato gli studi, tanto che il 24 genn. 1785 poté laurearsi in utroque iure, dopoché era già stato destinato a ricoprire una carica vescovile. Il 14 febbr. 1785 venne infatti nominato arcivescovo di Ravenna. Lasciò Torino il 25 marzo 1785 e venne consacrato arcivescovo a Roma l'8 maggio dal cardinale Chiaramonti nella chiesa di S. Teresa alle Quattro Fontane.
Prese possesso della sua diocesi il 20 giugno e della metropolitana il 26 giugno, occupandosi subito di compiere la sacra visita, di cui inviò la relazione a Roma il 6 dic. 1786. Lamentava la decadenza della diocesi per quanto riguardava l'estensione territoriale (venti parrocchie urbane e trentotto rurali), ma si dichiarava soddisfatto tanto della situazione religiosa della diocesi quanto delle condizioni materiali della popolazione. Dimostrò il suo zelo intervenendo con rigore per far rispettare la regola nei monasteri femminili e riformando gli statuti di confraternite e luoghi pii; rinnovò le costituzioni capitolari, togliendo ai canonici alcuni privilegi, e nel giugno 1790 convocò il sinodo diocesano (Synodus dioecesana quam sub faustissimis auspiciis sanctissimi in Christo Patris Pii Papae Sexti celebravit A. C. archiepiscopus Ravennas in Ecclesia Metropolitana XIII. XII. XI. Kal. Sext. Anno MDCCXC, Ravennae 1790).
Nell'orazione inaugurale il C., che intendeva chiaramente presentare il proprio sinodo in contrapposizione a quello di Pistoia del 1786, sviluppava il tema dell'unità con Roma come sola garanzia per il mantenimento della fede e ciò anche in considerazione degli avvenimenti che si svolgevano in Francia. L'immutabilità della fede comportava anche un assoluto rispetto dei riti stabiliti dalla Chiesa romana, contro le insidiose manovre dei fautori di una supposta antica disciplina che in realtà - secondo il C. - miravano ad attaccare gli stessi dogmi cattolici. Nelle "conclusioni", in mezzo a disposizioni improntate a un rigido moralismo, trova posto la raccomandazione ai parroci di vigilare contro la diffusione dei libri proibiti (in particolar modo presso i librai) e di controllare l'osservanza della comunione pasquale con l'obbligo di segnalare nominativamente gli inadempienti, che dovevano essere ammoniti e, in caso di perseveranza, anche scomunicati.
Nel 1792 il C. accolse nella diocesi circa cinquanta ecclesiastici francesi emigrati, tra cui il vescovo di Luçon M.-Ch.-I. de Mercy, che furono sistemati in vari conventi. Nel 1794 si recò a Roma per la visita ad limina rimanendovi oltre tre mesi.
In questo periodo ampliò l'orfanotrofio e l'ospedale, istituì nel seminario una cattedra di teologia scolastica; nel campo pastorale introdusse nelle parrocchie il catechismo per il popolo e diffuse la pratica delle missioni popolari; tra le pratiche devozionali favorì e promosse con lettere pastorali quella al Sacro Cuore di Gesù: "Si veggono erette molte confraternite sotto questo titolo, arricchite di indulgenze del regnante pontefice, e in tutte le chiese parrocchiali, e in alcune pure dei regolari vi sono affisse le imagini"; dette inoltre ordine ai parroci di diffondere la conoscenza della bolla Auctorem fidei del 28 ag. 1794 contro il giansenismo e di "spiegare al popolo ciò che contiene di più necessario, e adattato alla sua intelligenza" (Relat. visit. ad limina, 9 dic. 1795).
L'anno successivo le armate napoleoniche dilagarono nella pianura padana. Il 25 giugno le truppe del generale Augereau entrarono anche in Ravenna, da cui si erano allontanati il cardinale legato A. Dugnani e il vicelegato G. Giustiniani. I Francesi confiscarono i beni del Monte di pietà e i preziosi delle chiese, costringendo la città a una contribuzione di 35.000 scudi. Il C. seguì il disegno di evitare alla città ogni possibile aggravio: partecipò alla raccolta della tassa versando 3.000 scudi e si adoperò personalmente per sedare un tumulto popolare antifrancese scoppiato il 28 giugno. Nei pochi mesi in cui i Francesi sgombrarono la Romagna in esecuzione dell'armistizio di Bologna (20 luglio 1796-1º febbr. 1797), egli compì per la quinta volta la visita della diocesi, tralasciando soltanto le zone del Ferrarese ancora occupate. Allorché ai primi di febbraio del 1797 le truppe francesi rioccuparono la Romagna, il C., nella speranza di evitare altri danni alla sua diocesi, si recò a Forlì ove riuscì a farsi ricevere dal Bonaparte, il quale lo rassicurò circa la sua volontà di rispettare la religione cattolica. L'incontro non valse ad evitare alla città di Ravenna una nuova pesante spoliazione, ma creò un legame personale tra il C. e il generale francese, che pensò di poter contare su di lui per ottenere consensi all'interno dell'alto clero.
Annessa la Romagna alla Repubblica cispadana, poi alla Cisalpina, il C. mostrò deferenza nei confronti del nuovo governo, con molti dei cui membri egli aveva - almeno a livello locale - rapporti di amicizia. Consigliò al clero e ai funzionari di prestare il prescritto giuramento di fedeltà con la formula restrittiva "salva la religione cattolica che professo", ma non scese a compromessi in materia puramente religiosa.
Nel difendere il suo vicario arrestato ricordava che "noi siamo depositari della fede per gius divino, e che a sostenerla, e difenderla, dobbiamo esser pronti a spargere fino il sangue" (L. Orioli, p. 13) e, invitato dall'amministrazione centrale della Repubblica cisalpina a secolarizzare i regolari della sua diocesi, chiariva i limiti della propria disponibilità: "Usando delle espressioni dell'immortale Benedetto XIV vi potrei dire d'esser pronto a discendere fino alle porte dell'inferno, ma non più là. Come poss'io, e come potrà mai alcuno, salva la coscienza, secolarizzare senza motivo persone strette da voti solenni?" (ibid., p. 17: lettera del 30 giugno 1797).
La sua moderazione politica gli ottenne dal governo repubblicano il mantenimento a titolo di enfiteusi dei beni della mensa vescovile che sarebbero dovuti essere alienati. Nel 1799 riuscì a sottrarre a un processo sommario, accogliendolo nella propria residenza, il vescovo di Sarsina mons. N. Casali, accusato di frode all'erario per aver nascosto alla confisca parte degli arredi sacri e di aver eccitato il popolo alle armi contro la Repubblica.
Riunita Ravenna, dopo una breve parentesi, alla Repubblica cisalpina (23 genn. 1801) il C. alla fine del 1801 fu chiamato a far parte dei notabili convocati a Lione per l'approvazione della costituzione repubblicana. Partito da Ravenna il 30 novembre e giunto nella città francese il 17 dicembre, egli ebbe una parte di notevole rilievo nei Comizi per quanto concerne gli affari ecclesiastici.
Già ai primi di gennaio del 1802 in un comitato ristretto il C. era riuscito a ottenere la modifica dell'articolo "Ogni cittadino può esercitare liberamente il suo culto, il culto cattolico è il solo che può esercitarsi pubblicamente" nella formula "La religione cattolica apostolica romana è la sola che si esercita pubblicamente nel territorio della Repubblica Cisalpina". Quando poi arrivò a Lione il Bonaparte l'11 gennaio, gli ecclesiastici riuscirono a ottenere la promessa che la religione cattolica sarebbe stata dichiarata religione di Stato. Poiché alla vigilia dell'approvazione del testo costituzionale era giunta notizia che la commissione incaricata della stesura definitiva aveva ripristinato la formula primitiva, il C. fu inviato dagli altri vescovi al primo console (25 genn. 1802).
Questi acconsentì alle richieste dopo una lunga discussione (l'articolo I divenne quindi: "La Religione Cattolica Apostolica Romana è la religione dello Stato"), a patto che il C. parlasse pubblicamente dopo la lettura delle leggi organiche riguardanti ilclero, che i vescovi ritenevano inaccoglibili senza la sanzione del papa. In tal modo il suo intervento nella seduta conclusiva del 26 gennaio poteva venire interpretato come un'implicita approvazione del clero cisalpino a tutte le risoluzioni prese a Lione. In effetti il discorso del C. (il processo verbale ricorda: "L'arcivescovo di Ravenna, Codronchi, espresse in un discorso l'assenso di tutto il Clero Cisalpino, e invitò tutti i ministri del culto a servirsi del loro ascendente sul popolo per imprimergli il rispetto dovuto alle proprietà, e per affezionarlo al nuovo patto sociale ch'era stato proclamato": Da Como, II, 1, p. 220) rafforzò il Bonaparte nella convinzione che egli fosse disponibile a secondare il suo disegno politico. Pertanto il primo console, dopo un cordiale colloquio con il C., scrisse una lettera al papa per chiedere l'elevazione di questo alla porpora e il suo trasferimento alla sede di Bologna. A Roma, dove già non era piaciuta la condotta del C. giudicata troppo compiacente, la richiesta suscitò disappunto: si decise di respingere ogni pressione riguardante la nomina alla diocesi di Bologna, in quanto ciò poteva significare un'ammissione della legittimità del governo cisalpino sulle Legazioni, mentre si concedeva la possibilità di soddisfare il desiderio del Bonaparte circa la nomina cardinalizia, purché questi precisasse che la richiesta era fatta in base all'antico privilegio già riconosciuto al governo francese come ad altre corti cattoliche. Cosicche, quando il 24 maggio il Bonaparte precisò che la nomina era stata da lui richiesta non come primo console, ma come presidente della Repubblica italiana, le chances del C. si affievolirono.
Da parte sua questi scrisse più volte al papa per chiarire la sua posizione: una prima volta, il 5 febbr. 1802, lo informava dell'ultimo colloquio avuto con il Bonaparte, chiarendo la propria ritrosia a lasciare la diocesi ravennate e non nascondendo invece la soddisfazione e la speranza per un'elevazione alla porpora; nella seconda del 16 febbraio, si sforzava di giustificare il proprio comportamento a Lione: "Dovetti parlare costretto dal primo console Bonaparte, che a tal prezzo mi prometteva che il primo articolo della costituzione sarebbe tal quale ora si legge: ma parlando, null'altro dissi, se non che noi ecclesiastici dovevamo insinuare ai popoli la sommessione e la ubbidienza non solo per timore della pena, ma ancora per dovere di coscienza. Se le mie premure e replicati miei sforzi vivacissimi fossero stati coronati da un esito felice, le leggi organiche del clero avrebbero tutta sostenuta la disciplina ecclesiastica nel suo primo vigore, e secondo le prescrizioni del concilio di Trento" (Da Como, II, 2, p. 585).
Il C. insomma era consapevole dei lati negativi del compromesso raggiunto; oltre ai colpi inferti alla disciplina tradizionale ecclesiastica, erano state respinte le richieste dei vescovi riguardanti il divieto di accesso dei non cattolici alle più alte cariche dello Stato; l'istituzione di un tribunale misto (laico ed ecclesiastico) per la censura sulla stampa; lo intervento del clero nell'insegnamento dei licei; l'istituzione di un tribunale dei costumi cristiani. Ma quanto era stato ottenuto (l'esonero dal servizio militare per il clero; la libertà dell'insegnamento religioso; il permesso per i prelati emigrati di ritornare nelle proprie sedi; il diritto per i vescovi di presiedere le opere pie della diocesi e di comunicare direttamente con la S. Sede per le materie spirituali) sembrava al C. più di quanto fosse lecito sperare nella situazione esistente. Egli inoltre era convinto che con il favore dello ormai onnipotente Bonaparte si potessero neutralizzare le insidie di avversari pericolosi (il nunzio a ViennaSeveroli, che aveva incontrato a Milano il C. reduce dalla Francia nel febbraio, scriveva al Consalvi: "Crede l'arcivescovo che il Bonaparte pensi al rovesciamento di tutto il sistema politico della Europa. L'arcivescovo risguarda il vice-presidente Melzi come un vero incredulo, da cui nulla vi è a sperare, e tutto si ha a temere. Lo dicono scolare di Voltaire"; Rinieri, La diplomazia, II, p. 151).
Egli scelse perciò un comportamento conciliante sul terreno della politica ecclesiastica, continuando a svolgere un'assidua e zelante attività pastorale: nel dicembre 1804, inviando a Roma il consueto rapporto triennale sullo stato della diocesi, confermava il rispetto dei propri obblighi di vescovo, lamentando i danni religiosi e patrimoniali sofferti per la rivoluzione: le spoliazioni, la soppressione dei conventi, la confisca dei beni.
La vita del C. subì una svolta l'anno seguente. Nominato il 9 maggio grande elemosiniere del Regno d'Italia, cavaliere della Corona di ferro e membro del Consiglio di Stato nella sezione culto, egli chiese a Pio VII le prescritte facoltà per star lontano dalla diocesi, facoltà che furono concesse dal Consalvi con alcune riserve. Da quel momento il C., pur ritornando spesso a Ravenna, risiedette a Milano: assistette all'incoronazione di Napoleone a re d'Italia, battezzò i figli del viceré Eugenio, ma soprattutto pubblicò frequentemente editti e lettere pastorali di sostanziale consenso alla politica ecclesiastica del regime, che ebbero grande diffusione sulla stampa napoleonica ma dispiacquero a Roma. Il 12 apr. 1809 ottenne in premio la nomina a conte del regno.
Nell'aprile 1811, in occasione della convocazione del concilio nazionale convocato a Parigi da Napoleone I, si recò in Francia. Il programma dell'imperatore era quello di ottenere l'assenso della maggioranza dell'episcopato italiano e francese al riconoscimento del suo potere di nomina dei vescovi nelle sedi vacanti e di loro consacrazione, da parte dei metropolitani, anche in caso di mancata approvazione del papa. Il disegno questa volta fallì di fronte alla compatta resistenza dell'episcopato, restio a veder annullato il potere di giurisdizione del papa sulla Chiesa. Il C. si segnalò in più occasioni per la sua fedeltà alla S. Sede in una materia che egli stimava dogmatica.
In modo particolare è da ricordare l'intervento del 25 giugno, in cui, motivando il suo rifiuto a firmare un indirizzo all'imperatore in cui erano sostenuti alcuni principi gallicani e si dichiarava nulla la scomunica inflittagli da Pio VII nel 1809, si alzò in piedi e "tenendo tra le mani il S. Concilio di Trento, Sess. 22 de reformatione cap. XI si quem clericorum, sifece vedere, che tale scomunica non era se non una rinnovazione di quanto aveva decretato detto S. Concilio contro gli usurpatori de' beni ecclesiastici"; chiese inoltre che l'indirizzo iniziasse con una supplica all'imperatore "perché mettesse il S. Padre in istato di poter reggere liberamente la Chiesa di Gesù Cristo a lui affidata" (Ep. nap., Francia VI, fasc. 11). La presa di posizione del C. provocò il risentimento di Napoleone, che da allora lo trattò con freddezza.
Tornato in Italia, continuò a risiedere tra Ravenna e Milano fino alla caduta del Regno. Si trovava a Milano quando vi entrarono le truppe austriache e soltanto il 20 apr. 1814 ritornò in Romagna portandosi immediatamente a Cesena, ove era giunto Pio VII nel suo viaggio verso Roma, e ottenendone il perdono.
Ma il periodo della Restaurazione non fu certo facile per lui. La carestia del 1815-16 e il disastroso stato del patrimonio arcivescovile resero difficile la sua attività pastorale in un ambiente che, non sopportando più il regime di. repressione esercitato dal governo pontificio, sviluppava un diffuso spirito anticlericale; d'altro canto il C. doveva anche subire l'astio delle superiori autorità che mal gli perdonavano i suoi trascorsi.
Quando nel novembre 1816 egli, nella relazione sullo stato della diocesi, fece un quadro fosco della situazione sottolineando intenzionalmente che, se sotto il governo del Regno italico aveva almeno ottenuto la riapertura del seminario e "la piena indennità dei beni spettanti alla mensa arcivescovile", dopo la restaurazione tutto era rimasto come stava ("unica innovazione" la perdita di due ricche parrocchie situate oltre il Po e passate sotto il dominio austriaco), la Congregazione del Concilio lo rimproverò di reticenza, affermando seccamente che "si sarebbe potuto sperare, che dasse qualche cenno, non senza la manifestazione di pentimento, di tutto quello che, o per paura, o per errore d'intelletto, ha creduto potersi permettere nel corso delle vicende passate". Tre anni dopo la stessa Congregazione lo accusò di eccessiva debolezza nei confronti di alcuni ecclesiastici "divenuti incorreggibili": "La giurisdizione vescovile non è limitata alle sole ammonizioni; quando queste non giovino, faccia uso della verga, la quale non è già un vano ornamento della dignità episcopale" (Relat. visit. ad limina,ad annos).
La sua posizione divenne pressoché insostenibile allorché, divenuto papa Leone XII, fu nominato legato di Romagna il cardinale A. Rivarola. Quando questi, durante la campagna di repressione delle attività dei liberali romagnoli, organizzò le missioni e in una lettera riservata chiese al C. di obbligare i confessori a chiedere ai penitenti notizie di natura politica, lo arcivescovo rifiutò e anzi, a quanto sembra, fece vedere la lettera ad altri perché fossero note le intenzioni del Rivarola. Di conseguenza contro il C. venne scatenata una campagna calunniosa fomentata dalla pubblicazione di alcuni libelli che rivangavano vecchie e nuove accuse.
Pertanto nel giugno 1825 il C. decise di ritirarsi nella sua villa di Montericco, annunciando la propria rinuncia all'arcivescovado. Per dissuaderlo i notabili di Ravenna chiesero l'intervento del papa e ottennero il rientro del C. nella diocesi (13 luglio). Pochi mesi dopo, il 22 genn. 1826 il C. morì nella sua residenza; i funerali solenni furono occasione di una affollatissima manifestazione dei liberali provenienti anche da altri centri vicini.
Il C. aveva lasciato erede del suo ricco patrimonio il nipote Pier Desiderio Pasolini Dall'Onda, figlio della sorella Teresa.
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