CIMA, Antonio
Nato a Valmadrera (Como) da Carlo e da Angelica Rossi il 29 nov. 1854, naturalmente partecipò dei frutti, del retaggio, dei propositi e degl'impegni della coeva cultura lombarda, come si conveniva ad un "umanista" nato fra "il queto Lario" foscoliano e il manzoniano lago di Pescarenico. Altrimenti, perciò, dalla comune dei nostrali filologi a lui contemporanei, il C. non esitò ad inserirsi in una tradizione e a conoscerne i rappresentanti più autorevoli; onde, mentre dilagavano, massime sul finire del secolo, il disprezzo e roblio per una, presunta inesistente, ottocentesca italiana filologia (che non era, certo, filologia "scientifica"), pur generalmente combattendoli, mostrò di apprezzare Foscolo e Vannucci, Trezza e Occioni (non senza qualche raccordo altresì col minore Manzoni). Né è da credere che, almeno durante la sua giovinezza di studente presso ia accademia scientifico-letteraria di Milano (dove si laureò in lettere il 20 luglio 1877), si astenesse. dall'intervenire nella battaglia dei suoi "scapigliati" conterranei, se, come par probabile, il nostro C. è da identificare con quell'Antonio Cima che sul numero del 1° genn. 1877 d'un periodico "progressivo" e in fama di "sinistrorso" - la milanese Vitanuova -, traendone il pretesto da una recensione alle Simpatie di R. Barbiera, prendeva posizione fermissima contro le degenerazioni del "vittimismo romantico" e gli eccessi del "realismo" bohémien, mentre si rivelava informatissimo dell'opera di H. Murger. Nel dissidio, o nel presunto dissidio, fra Pindividuo (o l'artista) e la società il C. parteggiava scopertamente per queseultima, a rivendicazione, peraltro, non dun'arte "sociale" o dell'antiarte, ma d'un'arte che fosse effettivamente "sociale", nel senso ch'era stata "sociale" l'arte "classica", soprattutto dei Greci. Benché, in effetti, professionalmente e nella maggior varietà e ricchezza della sua "produzione scientifica" il C. si volgesse all'intelligenza della prosa e poesia latina, e meno lavorasse in campo greco, par verosimile che a quest'ultimo più immediatamente però l'educassero i suoi maestri dell'accademia milanese, dove sostanzialmente languivano gli studi latini, dopo la morte precoce del valentissimo Tamagni e prima che desse il meglio di sé C. Giussani (quando lo stesso F. D'Ovidio restava e lavorava in campo "classico" quasi esclusivamente per ricerche linguistico-glottologiche e non superava l'onesta mediocrità l'antichista poco storico I. Gentile). Dall'Ascoli e più dal "nostro prof. Inama", cioè da "uomini di frontiera" (gonziano il primo e trentino il secondo, infatti), dall'Inama in ispecie, germanizzante grammatico, ben ferrato nella glottologia del Curtius e d'altri tedeschi, sembra, invero, che il C. derivasse il suo metodo e, il meglio dei suoi interessi, pur trasferendoli con audace novità nell'ambito del latino, tuttavia dominato da due spiriti avversi, ma concordemente antistorici, come il Vallauri e il Gandino. Di quest'ultimo sostanzialmente il C. conservò e continuò il ciceronianismo e il precettismo linguistico, documentati dalla sua, scolasticamente fortunata obiettivamente infelice, Teoria dello stile latino (Torino 1893, in terza edizione, cui seguirono assai numerose ristampe nel successivo trentennio). Monumento significativo, e nel suo genere mirabile, del "ciceronianismo" del C. è altresì, o soprattutto, il commento ai tre libri De oratore, la cui prima edizione è del 1885 e la seconda "interamente rifusa" del 1900 (ristampata, Torino 1921-1923), dove difetta qual si voglia tentativo di esegesi storico-psicologica, di rispondere dunque al duplice quesito di cos'è, per Cicerone, l'oratore e del perché, e proprio in quel particolare momento della sua vita e della sua esperienza retorico-politica, Cicerone scrisse, e scrisse così, il suo trattato; dov'è anzi temperatissima la simpatia o congenialità del commetatore per l'autore prescelto, ma dov'è, finissimo il senso delle nuances stilistiche, ricchissimo il corredo dei raffronti e dei, rinvii, manifesto e risolutamente perseguito il proposito di fornire a docenti e discenti uno strùmento tecnicamente quasi perfetto per imparare a scriver latino. Il C., infatti, ebbe costantemente presente il problema della scuola classica e ne ragionò con intelligenza e coraggio; per esempio, nella prefazione al commento loescheriano (Torino 1896, rist. 1923) della Leocratea di Licurgo (la sua maggior prova in Graecis, e quella forse dove più si rivela la sostamiale astoricità della sua mentalità e formazione, del suo stesso proposito di studioso e dinsegnante). Qui egli si disse fautore della facoltatività del greco e di una riforma della scuola media, in quanto "i più", la "frequentano..., non perché siano convinti dell'efficacia degli insegnamenti che vi si danno, della utilità di ritemprare lo spirito alle fonti della coltura antica e di abituare la mente a meditare il vero e a sentire il bello nella scienza e nell'arte degli antichi; ma perché l'erta faticosa della scuola classica conduce ad una vetta lungamente agognata - l'impiego!". Perciò appunto, "se... si rendesse facoltativo nelle classi liceali lo studio" del greco, "e si laciasse ai pochi volenterosi (né questi mancherebbero) la cura dì coltivare un tale terreno, non è dubbio che questo piccolo manipolo di lavoratori otterrebbe frutti assai più copiosi che non l'immensa falange degli svogliati". Quali resultati riuscisse a conseguire il C. nella sua lunga carriera d'insegnante medio, specialmente alliceo di Parma e al liceo "Umberto I" in Roma (mentre esercitava all'università l'incarico di grammatica greca e latina), non e dato sapere, ma è certo, e ovvio, che una scuola, in ultima analisi di élite, come il C. vagheggiava (cfr. la relazione della commissione per l'insegnamento del latino nella scuola media, nominata nel '93 dal ministro F. Martini e della quale il C. faceva parte, presso G. Pascoli, Prose, I, Milano 1971, pp. 591 ss.), doveva, per affermarsi, assidersi sulle due fondamenta della poesia e della storia alle quali il C. non era tagliato. D'un libro. nella sua stessa "anti-storicità" così audacemente innovatore, e risvegliatore all'intelligenza dell'antica poesia, come la Lyra del Pascoli, giudicò, più benigno di parecchi altri filologi, ma con manifesta incomprensione, cautamente 1 così: "antologia, che del. resto si raccomanda per molti riguardi".
E questo scriveva sulla Rivista di filologia del '99, in nota a un articolo Sul presunto cinismo di Orazio, cioè sul "relicta non bene parmula", interpretata "come uno scherno lecito, in quanto che la sconfitta di Filippi era stata la sconfitta d'un partito, e il rammentarla in tal modo non feriva l'amor proprio nazionale". Analoghe questioncelle minori (per es., il diverso, o mancato, rapport fra Orazio e Mecenate nel IV libro delle Odi) e minuzie fra grammaticali e tecniche, la ricerca di stiracchiate allusioni, problemi razionalisticamente "compositivi" (fonti, regola dei tre attori, ecc.) informano i Saggidi studi latini (Firenze 1889), gli Appunti oraziani (Torino 1900) e gli Analecta latina (Milano 1901), dov'è curiosamente interessante una noterella sulla "posizione" degli eroi (e di Pompeo e Cesare rispetto agli eroi) nella virgiliana Heldenschau dellibro VI dell'Eneide, la quale meritò al C. il consenso di Eduard Norden, espresso in una graziosa letterina in latino (da Greifswald, 28 genn. 1894, ibid., pp. 4 n. 2, 5 n. 1), a parziale rettifica di quanto il Norden aveva sostenuto nei suoi primi scritti e quindi corresse nel proprio commento monumentale. Con lo stesso metodo, proposito e stile scrisse il C. Intorno alle tragedie di Seneca (in Riv. fil., XXXII [1904], pp. 237-259) e le pur lodate memorie Latragedia romana "Octavia" e gli "Annali" di Tacito (Pisa 1904) e (ad autodifesa contro le critiche dell'austriaco Ladek, mentre una refutazione esaurientissima ne aveva dettato nel frattempo V. Ussani, in Riv. fil., XXXIII [1905], pp. 450 ss.) Octaviana. Nuovi appunti sulle relazioni della tragedia Octavia cogli Annali di Tacito (ibid., XXXIV[1906], pp. 529-554). Se era già per di sé fragilissima la tesi della prima dissertazione ("ci troviamo in presenza di un poeta posteriore a Tacito e al primo secolo", p. 36), anche più dubbia la tesi medesima divenne nella seconda scrittura, dove il C. è costretto a ricorrere a sottigliezze incredibili: per esempio, dei celebre ventrem feri di Agrippina assassinata non si perita di asserire: "Nessuna meraviglia ... che Agrippina, donna colta (e non si dimentichi che allora. la cultura anche nelle donne era tutta rettorica), si sia, in quel supremo istante, ricordata di quel motto di Giocasta, che dai tragici era passato nelle scuole di rettorica e abbia imprecato a Nerone con quella reminiscenza delle declamazioni di scuola".
Frattanto, il C. era dal 1901 divenuto per concorso professore di grammatica greca e latina all'università di Padova e qui nacqueTunico (e mediocre) libro che il C. scrivesse - e che del libro non ha punto né il "taglio" né il tema ne l'unità: L'eloquenza latina prima di Cicerone (Roma 1903). Vi difetta, invero, la chiarezza metodica (onde a p. 42 il C. distingue "questioni appartenenti alla critica storica anziché alla letteraria", salvo poi a non trattare né di critica storica né, propriamente, di critica letteraria), vi abbondano i pregiudizi tradizionali (inferiorità dei Romani rispetto ai Greci, antiellenismo moralistico di Catone, corruzione postimperialistica, ecc.); soprattutto vi manca la ferma linea dello sviluppo dell'oratoria come forma di attività primamente politico-pubblicistica, onde il tutto si riduce ad una parziale monografia su Catone oratore (cui sono dedicati i, primi sei capitoli dell'opera), affiancata da schede prosopografico-erudite sulla biografia e sui frammenti degli oratori successivi (con legittima utilizzazione del materiale già impiegato nel commento al De oratore). Nel licenziare il volume annunziava il C. - "La seconda parte del mio lavoro, che è già pronta per la stampa e uscirà in seguito, comprenderà i frammenti degli oratori dell'età repubblicana, riveduti nel testo e illustrati".
Appunto questa parte, edita e inedita, dell'attività del C. gli ha guarentito durevole, onorata memoria, perché fra gli allievi di quegli anni padovani era Plinio Fraccaro, il quale ne trasse ispirazione e avviamento all'attività sua e della sua scuola pavese. Ma il Fraccaro, se è probabile fosse parecchio inferiore al C. per educazione "umanistica" (nonostante certi lombardismi del suo scrivere) e per senso della lingua e dello stile, aveva una competenza giuridico-antiquaria ed una mentalità di storico economico-politico che il C. non poteva, in verità, possedere. Perciò, e per quanto il Fraccaro si sia generosamente adoperato per mantener vivo il nome del suo maestro, questi non prelude punto alla scuola pavese, ma rientra, non certo indegnamente, nella storia del classicismo lombardo alla fine del secolo XIX.
Mori a Padova il 20 marzo 1909.
Bibl.: Oltre al necrol. di L. Valmaggi, in Riv. fil., XXXVII (1909), pp. 633 ss., cfr. V. Ussani, Lingua e lettere latine, Roma 1921, pp. 38, 40, 45, 64; P. Fraccaro, Opuscula, I, Pavia 1956, p. 52 n. 8; A. Momigliano, Terzo contr. alla storia degli studi classici, Roma 1966, p. 828. Per il C. critico della scapigliatura lombarda, cfr. G. Mariani, Storia della scapigliatura, Caltanissetta-Roma 1967, pp. 877 s.