CIFRONDI (Ciffxondi, Zifrondi, Sifrondi, Scifrondi), Antonio
Nacque a Clusone (Bergamo) l'11 giugno 1656 da Carlo, muratore (figlio a sua volta di Ventura), e da Elisabetta. Lo si deducel da un documento (Bonardi, 1972) contenuto nell'archivio della parrocchiale di Clusone.
Precedentemente, sulla scorta dei biografi più antichi (Tassi, 1793). si era creduto che il C. fosse nato nel 1657 (l'errore fu forse dovuto al fatto che in quell'anno nacque a Clusone un altro Antonio Cifrondi, nipote anch'egli di Ventura, ma non figlio di Carlo: un cugino, dunque).
La famiglia Cifrondi era oriunda della Val Seriana, forse di Villa d'Ogna (dove un Cifrondo Cifrondi viveva nel 1644); nel XVII secolo un ramo della famiglia si stabilì a Venezia (Baradello, 1908). Da un documento inedito (Status animarum Clusoni... descriptus anno 1688... die 10 aprilis) dello stesso archivio parrocchiale, sappiamo i nomi e l'età dei fratelli del C.: in quell'anno abitavano a Clusone, insieme con il padre e la madre (ambedue di cinquanta anni), i figli Giovanni Marco di ventisei, Ventura di ventisci, Giovanna di ventiquattro, Francesco di ventuno, Maria di diciotto. Del C., trentaduenne, si dice che è "absens". Poco si sa di questi fratelli: Francesco fu prete, Giovanna sopravvisse a tutta la famiglia e mori ("plena morbis annis ac paupertate") il 22 maggio 1740 (Baradello, 1908).
Non molto sappiamo neanche di Ventura, pittore. anch'egli (probabilmente assai mediocre); nato nel 1662, sicuramente seguì come un'ombra il fratello: a Torino, in Francia, a Rosciate. Allo stato attuale delle ricerche si potrebbe solo ipotizzare che spettino a Ventura le repliche di alcuni dipinti da cavalletto del C. che ebbero particolare fortuna. Sopravvisse al fratello maggiore, come sappiamo dal di lui testamento del 1730 (Baradello, 1908).
La formazione del C. è ancora in gran parte da ricostruire. Secondo le fonti (Tassi, 1793) egli fu, giovanetto, messo a bottega presso il mediocre pittore clusonese cavalier del Negro, di cui nulla è dato sapere. Poté in seguito fruire di una di quelle borse di studio messe a disposizione ogni anno, per tre giovani clusonesi poveri che volessero continuare gli studi delle arti liberali, dal testamento (16 marzo 1630) di Ventura Fanzago fonditore clusonese (Belotti, 1959). A Bologna sarebbe stato allievo (Tassi, 1793) di Marc'Antonio Franceschini: ma della maniera del pittore bolognese ben poco influsso ci sembra possa vedersi nelle opere del Cifrondi. L'apprendistato bolognese dovette durare almeno tre anni, presumibilmente verso la metà degli anni Settanta. Sebbene nessuna fonte antica lo ricordi, sappiamo che anche il C. fece il classico viaggio a Roma: una riprova di questo l'abbiamo nella notizia di un borseggio di cui fu vittima in quella città il 16 ott. 1679 "mentre stava alla locanda della Croce Bianca" (A. Bertolotti, Artisti lombardi a Roma, Milano 1881, II, p. 99). È probabilmente dall'inizio degli ami Ottanta che il C. intraprese, col fratello Ventura, il viaggio a Torino e in Francia di cui ampiamente parlano le fonti (Tassi, 1793; Locatelli, 1869).
Egli avrebbe dapprima lavorato a Torino ("ove per qualche anno si trattennero": Tassi). Pur non esistendo tracce delle opere dell'artista a Torino, è assolutamente da escludere sia che egli fosse portatore in quella città della "pittura di genere" (Testori, 1954)sia che egli vi fosse intorno al 1685 (Grandi, 1972). Continuando il viaggio, la prima tappa francese fu alla Grande Chartreuse presso Grenoble, dove il C. avrebbe eseguito molte opere per i monaci. Spostatosi a Parigi, il quivi alcuni anni si intrattennero [il C. e Ventura] ora la Corte praticando, ed ora le raunanze dei pittori" (Tassi), in particolare ammirando Charles Lebrun che in quel tempo "nella pittura teneva il campo" (ibid.). L'aneddotica bergamasca e clusonese dell'Ottocento si è sbizzarrita a inventare le ragioni o i contrasti che l'avrebbero consigliato o spinto a ritornare alla piccola Clusone. Tanto più che il C. godeva a Parigi della protezione del duca di Harcourt. Recentemente è stata avanzata l'ipotesi (Motta, 1978)che il pittore abbia seguito le vicende delle compagnie della Commedia dell'arte (cui probabilmente era legato per ragioni geografiche e per il suo carattere faceto), bandite dalla Francia nel 1687da un editto di Luigi XIV.
Comunque sia, nulla di preciso sappiamo né sulle opere né sui contatti avuti a Torino, a Grenoble e a Parigi. Resta poco probabile che in Francia abbia aggiunto ulteriori numeri alla sua formazione: salvo qualche, ricordo di impostazione nelle grandi scene mitologiche o storiche di Rosciate, è difficile cogliere nelle opere del C. l'influsso del Lebrun; più possibile che la sua pittura sia stata influenzata da qualche suggerimento dei pittori della realtà francesi del Seicento, i Le Nain e Charles de La Tour (Passamani, 1961).
Il suo ritorno in patria dovette comunque avvenire entro il 1686, se nel febbraio 1687 acquistò una casa con due orti a Clusone, in località Zuccano (notaio Rinaldo Bottaini in Sovere: Baradello, 1908), sulla facciata della quale dipinse più tardi un Ercole, di cui restano tracce poco leggibili (a Clusone i Cifrondi possedevano un'altra casa, in località Longarete, venduta poi al conte Giovanni Carrara Spinelli dalla sorella di Antonio, Giovanna: Baradello, 1908).
Dal 1687 fino al 1701 la vita e l'attività del C. dovettero svolgersi tra Clusone, Bergamo e le valli bergamasche: la possiamo ricostruire tramite qualche documento e poche opere datate.
Nel 1688egli fu pagato per vari dipinti per la parrocchiale di Clusone: sia per opere eseguite in loco sia, con differenti pagamenti, per tele dipinte a Bergamo e per il trasporto delle stesse da Bergamo a Clusone (Registro bullette..., 1688:Baradello, 1908): ciòspiegherebbe anche la già ricordata assenza del C. da Clusone nell'aprile di quell'anno. Le opere clusonesi esistono ancora: si tratta dei sette scomparti della volta della chiesa rappresentanti l'Incoronazione della Vergine, il Giudizio, e infine scene di Angeli con tromba, Angeli musicanti, ecc.; inoltre alcune tele degli altari tra cui particolarmente la Madonna che appare a s. Antonio e il Battesimo di Gesù. Sono queste le prime opere documentate dell'artista (anche se forse precedute da alcune altre non databili con precisione); esse mostrano le basi della sua cultura e della sua formazione che, su una piattaforma bolognese-emiliana (non necessariamente né esclusivamente franceschiniana), sembra avere innestato la conoscenza dei silenzi immobili dei Le Nain, del flou di Andrea Celesti, e delle efficaci macchine dei cangiantismi e dei controluce di Luca Giordano (attivo in S. Maria Mgggiore a Bergamo nel 1682):denotando un, parallelismo con l'avventura artistica del lucchese Pietro Ricchi, vagante cinquanta anni prima tra la Bergamasca e il Bresciano con una base di formazione reniana, di ritomo da un avventuroso viaggio parigino. Nel 1689 il C. eseguì (Tassi) gli affreschi, oggi perduti, nel convento e nel refettorio di S. Bartolomeo a Bergamo. Agli stessi anni (Pasta, 1775) risalirebbero i cinque affreschi nella volta della chiesa di S. Leonardo, sempre a Bergamo, rappresentanti Storie della vita di s. Leonardo. Al 1691 è datato un grande affresco rappresentante la Caduta di Simon Mago nel soffitto di una sala della casa parrocchiale di Trescore (Bergamo). Dello stesso anno è una tela con S. Zosimoconfessore in collezione privata bergamasca (datata sul retro). Agli anni immediatamente successivi appartengono senza dubbio le otto scene affrescate nella volta della seconda sagrestia della basilica di S. Martirio ad Alzano Maggiore (Bergamo), rappresentanti Scene della passione di Cristo: lo si puòdedurre dal contratto e dai pagamenti ad Andrea Fantoni (negli anni 1692 e seguenti) per tutti gli altri lavori della ricchissima sala: armadi, intagli, statuette, cariatidi, ecc.
Già in queste prime opere documentate, che comprendono tra l'altro quasi tutti gli affreschi dei C., essendo egli in seguito passato a dipingere ad olio su tela (e in un gruppo di dipinti che possono essere avvicinati loro per ragioni stilistiche), si rivelano caratteristiche e stilemi che permarranno inalterati per anni: rapidità di esecuzione, mancanza di disegni preparatori, forzatura delle pose delle figure, sempre icastiche, a volte contorte, in alcuni casi perfino sguaiate. Alle impostazioni e ai panneggi delle figure il C. dà importanza più che ai volti; il paesaggio e la natura sono, nella sua pittura, quasi assenti. I colori sono tenui, soprattutto negli affreschi, con accostamenti di tonalità dolci. L'uffirno, lustro del secolo segna, nell'iter del C., un momento di "immense tele aperte a novità di controluce, di predilezione per turbanti e figure orientali, per negretti "stampati" contro il bianco di grandi drappeggi sfarzosi.
È il caso della compassata pala con S. Leone che ferma Attila (1695) nella parrocchiale di Cenate San Leone (Bergamo) e delle scomposte figure della Pentecoste e del Martirio di s. Vincenzo (1695-96) nella parrocchiale di Cerete Basso (Bergamo): tele piene di frizzi di colore, di luci, di splendidi particolari e dì nature morte (da risalire, in trafila completamente lombarda, attraverso il Cavagna e il Moroni fino al Lotto: un'altra delle ascendenze culturali "naturali" del G), come nell'Adorazionedei Magi, la terza delle grandi tele della stessa chiesa. Del 1698 è il Martirio di s. Alessandro, immensa affascinante tela della chiesa di S. Alessandro della Croce a Bergamo, la cui esecuzione ebbe strascichi giudiziari (Bottari, 1822). Anche in queste opere i caratteri del C. si manifestano in pose di balletto, nelle grandi spatolate di colore che rapidamente tracciano un inanto o una manica: mentre i fondi già si incupiscono.
"Nel principio di questo secolo - scrive il Tassi nel 1793 - si trattenne per molti anni nel Convento di S. Spirito": e, a dare veridicità alle notizie fornite dal biografo, ben cinque tele tuttora esistenti nella chiesa (S. Giovanni Evangelista, S. Marco, S. Matteo, S. Luca, S. Pietro) sono firmate e datate 1701(Dal Poggetto, 1981); e 1701è datato anche un bozzetto di Ultima Cena nella parrocchiale di Nese presso Bergamo.
Delle oltre cinquanta opere ricordate in S. Spirito dal Tassi, ne esistono ancora una quindicina in loco (oltre alle già ricordate, un Adamo, una Pietà, un S. Giovanni Battista, un S. Paolo, un S. Andrea, unosplendido Mosè, ecc.); ma è probabile che dalla stessa chiesa provengano altre sei tele - tra l'altro di identiche misure - ora nel santuario della Madonna dei Campi a Stezzano (Bergamo), tra cui un S. Simone e un Profeta Elia;e soprattutto due grandi opere passate alla parrocchiale di Brivio (Como): il Battesimo di Cristo e una Storia di Simon Mago.
In questi dipinti (e in quelli che stilisticamente vi si possono avvicinare) la pittura del C. mostra di essere a una svolta: grandi figure isolate occupano tutto lo spazio (molto spesso sono rappresentati solo i tre quarti della figura); gli apostoli o i santi campeggiano su fondi scuri o rossicci; pochi sono i colori usati, iniziando la predilezione del C. per effetti quasi di monocromo. Nelle opere di grandi misure e di soggetto religioso, la visualizzazione di grandi spere di luce che scendono dall'alto domina la scena.
Tra gli anni in cui il C. lavorò assiduamente per i canonici di S. Spirito (si può ipotizzare tra il 1700 e il 1703 circa) e il successivo riferimento cronologico (la grande impresa della villa di Rosciate, 1712e seguenti) benpoche sono le notizie.
Si sa di una commissione per dei. quadri perduti in S. Alessandro in Colonna (1703); del 1704 era un perduto S. Sebastiano per la chiesa di S. Agostino a Piacenza (Carasi, 1780); un'ipoteca viene posta sulla sua casa clusonese nel 1709, garante il fratello Ventura (Baradello, 1908). Dello stesso 1709 è un documento (già nell'archivio Carrara Spinelli, poi Giudici, a Clusone) in cui si legge che il C. aveva già fatto i ritratti a molti personaggi anche famosi (Baradello, 1908); ma i pochi ritratti che conosciamo sicuramente attribuibili al pittore sembrano più tardi. Infine, da un documento inedito (comun. orale di Margherita Zanardi) dell'archivio parrocchiale di S. Alessandro in Colonna, risulta che il C. nel 1713 fu padrino di battesimo di Matilde Mara, figlia delpittore Antonio Mara detto Scarpetta. A questi anni tra l'inizio dei secolo e la decorazione di Rosciate dovrebbero risalire altre imprese pittoriche, come la Fede, la Speranza, la Carità e quattro Padri della Chiesa nella parrocchiale di S. Antonio d'Adda (Caprino Bergamasco); la Presentazione al Tempio oranella parrocchiale nuova di Colognola alla periferia di Bergamo; il S. Girolamo, il S. Agostino, il S. Ambrogio e il S. Gregorio della chiesa parrocchiale di Gorlago (Bergamo).
"Passato poscia in casa Zanchi nell'anno 1712, cominciò le grandiosissime opere delle quali. è ripieno tutto quel loro nobile appartamento di campagna che hanno nella terra di Rosciate; e quivi per quattro e più anni sempre dipingendo si trattenne" (Tassi). Il biografo settecentesco descrive minuziosamente la decorazione delle sale della villa, dove neanche gli spazi tra porte e finestre (o sotto le finestre) erano privi di figure e decorazioni che occupavano anche i fregi tra i quadroni e il soffitto. così come le parti superiori delle porte: grandiose tele di soggetto mitologico e storico nella sala principale, dipinti di soggetto religioso nelle altre, fregi con cani e cacciatori negli spazi liberi, strisce verticali con fiori e frutta, tavolette strette e lunghe con ritratti di servi e un autoritratto. La villa, passata dagli Zanchi ai Colleoni e poi ad altri proprietari, ristrutturata e manomessa all'ititemo, conserva ancora in stato miserando (arrotolati e rovinati) una parte dei dipinti; altri sono spariti; altri furono venduti a vari enti ecclesiastici e a. privati, e sono ora in collezioni private di Bergamo e Cremona.
Dalle fotografie si possono notare (nonostante un certo appiattimento della qualità, forse per troppa rapidità: "abborracciate" le definì il Longhi, 1953) le invenzioni le idee i controluce della scena dell'Avvelenamento di Alessandro Magno e di un'altra scena mitologica coi personaggi tutti in turbante; le superstiti parti del fregio con Cacciatori e cani allungatissimi; l'affastinante Incendio di Roma; una sfarzosissima Semiramide;un Diogene e alcuni profeti; Romolo e Remo allattati e altre scene di Roma antica. Esistono ancora anche quattro tavolette con ritratti di Due servi e di un Architetto, econ l'Autoritratto stesso del C. in berretta bianca. In tutte queste opere si nota una grossa crisi nel percorso artistico del C.: da un lato, come si è detto, troppa facilità finora inconsueta, dall'altro un revival di elementi manieristici, allungamenti e torsioni delle figure, una sorta di "neoparmigianinismo". E non è dato di sapere se si sia trattato di una crisi di coscienza di fronte a un'impresa troppo vasta; o, più semplicemente, di una sorta di "rigetto" per i soggetti aulici. Effettivamente l'attenzione del pittore si concentra ora più sui volti e sulle scene di una realtà più vicina (si veda la lunga sequenza della caccia; si veda la, Lavandaia oil Pifferaio ora in collezioni private cremonesi).
Ed è certo qui che sboccia - tra il 1712 e il '15 - l'inizio della sua particolarissima pittura "di realtà". A quegli anni, o subito prima, dovrebbero appartenere anche i primi ritratti noti del C.: in particolare il Ritratto del conte Bonifacio Agliardi e il Ritratto del conte Camillo Agliardi, ambedue nell'omonima collezione bergamasca (ritratti di poca pompa, ma di grande qualità pittorica), come pure i due Ritratti di popolani (bevitori) della Galleria Tadini di Lovere (Bergamo). Allo stesso tempo della decorazione della villa di Rosciate appartengono anche l'Ultima Cena e le Nozze di Cana nella sagrestia della parrocchiale della stessa Rosciate.
Le vicende degli ultimi quindici anni di vita del C. (1715-30) sono documentate solo da una lettera autografa del 29 sett. 1716 circa la vendita di alcuni quadri (Baradello, 1908), e dalla data 1722 recentemente riscoperta a tergo di uno degli Apostoli eseguiti per S. Giuseppe a Brescia (Anelli, 1981). Quest'ultima data, e il gran numero di opere provenienti sicuramente da antiche raccolte bresciane, fa quindi arretrare forse già dalla fine dell'impresa di Rosciate (1715 circa) il trasferimento del C. a Brescia, che in genere si riteneva fosse avvenuto negli ultimi cinque anni della sua vita (Calabi, 1935).
L'ultimo periodo dell'attività dei C. è contrassegnato da un lato da poche opere di grande formato di committenza religiosa (i Dodici Apostoli già citati, 1722, per la chiesa di S. Giuseppe a Brescia, il Padre Eterno nella chiesa dei ss. Faustino e Giovita della stessa città, nel cui monastero passò gli ultimi mesi della sua vita): opere che mostrano una stanchezza ripetitiva di stilemi e di positure, seppur accompagnate da un recupero di forza cromatica; dall'altro lato da tutta una galleria di vecchi, di accattoni, di figure di popolani, una famiglia di figure spente e sofferenti, appena sublimate da una certa aulicità didascalica, al limite dell'autocommiserazione (il Vecchio con stampella, già in collezione privata bresciana, tiene disperatamente in mano un cartiglio con la scritta "Risu omnia digna"). È questo il particolare tipo della pittura "di realtà" del C.: forse non ancora fino in fondo partecipe verso la miseria degli altri e dell'umanità, ma già al di là dello stadio della derisione verso quella povertà, certo anche per prova diretta (non per nulla, vecchio e povero, dipinse soprattutto - sempre simili e sempre diversi - vecchi e mendicanti).
Si tratta soprattutto di dipinti su tela (ma anche qualche ritrattino su pezzi di legno mal sgorbiati); da ricordare innanzitutto i quadri ora nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia: dalla Vecchia appoggiata al bastone al Vecchio con clessidra, dal Vecchio che sdipana un gomitolo al Vecchio con bastone, dal Vecchio sotto la neve al Vecchio che intima il silenzio, e infine, dalla Cucitrice al Mugnaio - capolavori assoluti, questi ultimi, di una materia fatta dì colori tirati, di filature di bianco -. Pochi colori, quasi monocromi: a volte solo marroni bruni e fondi scuri, a volte (come nel Mugnaio) una sinfonia di bianco avana beige avorio (un "Pierrot lunaire" come lo definì il Longhi, 1953). Accanto a queste, ve ne sono molte in collezioni private (alcune inedite): il Vecchio che annusa tabacco in una collezione privata bresciana, la splendida Giovanetta sempre a Brescia, firmata; altre tre redazioni della Cucitrice, un'altra redazione di Vecchio con clessidra, S. Girolamo in meditazione, tutti in provincia di Brescia; una Testa di vecchio e un Cantiniere in collezioni private di Bergamo; due tele quasi monocrome (un Vecchio con tabarro e una Vecchia con fascina) e una Figura della Commedia dell'arte in collezioni private milanesi, e infine il Venditore di pannina in collezione privata cremonese e il famoso Ciabattino della collezione Sciltian (tutti di provenienza bresciana). In quelli che possono forse considerarsi gli ultimissimi raggiungimenti dell'artista, le figure mostrano un solo colore, il marrone, che si "stampa" contro il verde leggero dei fondi; i volti sono screziati di bianco: grumi di biacca solo dove batte la luce.
Il C. morì a Brescia il 30 ott. 1730 il giorno prima aveva fatto testamento (notaio Giacomo Canini di Brescia) lasciando le sue poche sostanze ai due fratelli ancora viventi. Poco tempo prima aveva stilato (già nell'archivio Fogaccia di Clusone: Baradello, 1908) un "Inventario di tutte le robe che mi ritrovo io Antonio Cifrondi nel refettorio del monastero di S. Faustino e Giovita tanto di pitture quanto d'altre robe" (vi era notizia, tra l'altro, di "ritrattini piccolini ed altre teste in rame, in tela e sopra l'asse"). Il C. fu sepolto nella chiesa dei ss. Faustino e Giovita a Brescia. A quanto se ne sa, non si era mai sposato. Il C. si firmò generalmente "A. Cifrondi"; in due casi (S. Carlo Borromeo benedice gli appestati nella chiesa della Madonna della Neve a Bergamo, Giovanetta di collezione privata bresciana) si è firmato "Sifrondi p.". Infine, nel S. Pietro in S. Giuseppe a Brescia è scritto: "Ant.s de Cifrondis Berg.s pinx.t": la forma aulica della firma fa supporre che a quell'epoca il pittore fosse stato insignito'del cavalierato.
Quanto all'effigie del pittore, si conosce un Autoritratto sicuro, quello della già citata tavoletta in collezione privata bergamascR, . proveniente da una delle sale della villa di Rosciate (il C. aveva allora circa cinquantacinque anni). Recentemente è stato proposto (Motta, 1978) che un altro autoritratto del pittore possa essere uno dei due Ritratti di popolani di Lovere. Tradizionalmente è infine ritenuto Autoritratto del C. un dipinto rappresentante una testa di vecchio già presso il restauratore Pelliccioli a Bergamo, e ora disperso. Al contrario non è credibile corrisponda alle fattezze del C., come vorrebbe il Testori (1970), un Ritratto di pittore di Fra' Galgario (già posseduto dall'Art Museum di Worcester, Mass., e ora in collezione privata lombarda).
Il C. non ebbe una bottega o una scuola propria, e ciò fu dovuto senza dubbio al carattere impulsivo rapido impaziente del pittore. Ove si escluda il fratello Ventura, si ricorda di lui un solo allievo: Giuseppe Roncelli.
Le opere superstiti del C., senza la pretesa di conoscere tutte quelle in collezioni Private, si aggirano sulle trecentocinquanta (Dal Poggetto, 1981). Oltre a quelle già citate, pitture si trovano, a Bergamo, nelle chiese di S. Michele al Pozzo Bianco, di S. Vigilio, di S. Alessandro in Colonna, di S. Lorenzo a Redona, nel Museo diocesano, nell'Istituto dei preti del Sacro Cuore e presso la Curia vescovile di Bergamo, oltre che nei depositi dell'Accademia Carrara; nella provincia di Bergamo, nelle chiese parrocchiali di Almenno San Salvatore, Antegnate, Aviatico, Bagnatica, Bossico, Brumano, Casnigo, Cerete Alto, Clusone, Dezzo di Scalve, Gavarno, Gromo, Laxolo, Lovere, Miragolo San Marco, Nembro, Nese, Nona, Premolo, Ranzanico, San Pellegrino Terme, Riva di Solto, Schilpario, Semonte, Torre Boldone, Urgnano, Valleve, Vertova, Vilminore, ecc.
La più antica e completa trattazione dell'artista resta la più volte citata biografia del Tassi (1793), cui si devono anche penetranti giudizi sull'artista e sulla sua tecnica esecutiva. Un lungo studio è dedicato all'artista anche da P. Locatelli (1869), che tuttavia ne sottolinea negativamente la rapidità; mentre per l'abate Lanzi, il C. fu "l'ultimo dei bergamaschi di qualche merito nel comporre". Ove si escludano le guide - e notizie particolari su singole opere - e ove si escludano i preziosì più volte citati documenti resi noti dal Baradello nel 1908, e i giudizi positivi di U. Nebbia in Thieme-Becker (1912), bisogna arrivare alla mostra Ipittori della realtà in Lombardia (1953) e alle brevi ma illuminanti parole di R. Longhi per avere un rilancio della pittura del C., presentato come - seppur minore - pittore "di realtà", influenzato dalla serie carraccesca delle "Arti per via", e dal passaggio di Monsù Bernard insieme al friulano Cameo, a Pasquale Rossi e al Cipper "prevedendo, o almeno auspicando, Pimminente apparizione del genio realistico di Iacopo Ceruti" (Longhi). Purtroppo gli interventi successivi (Passamani, Testori, Grandi) si sono rifatti letteralmente a quel giudizio - che era appena uno spunto da sviluppare -, hanno continuato a ignorare la pittura religiosa, tranciando spesso (Testori) ugualmente giudizi fin troppo limitativi sul pittore; hanno guardato. soltanto alle opere da cavalletto e "di genere" del C; non hanno mai'adombrato., a parte le recenti intuizioni di M. Bonardi (1972), la possibilità che, senza investire i rapporti di qualità, un certo scambio tra il C. e il Ceruti (in dare e in avere) possa esserci stato. I rapporti col Ceruti restano quindi da revisionare e approfondire. Come resta da approfondire la ricerca dei tanti ritratti che il C. avrebbe eseguito, e, infine, il problema delle nature morte di cui pure egli stesso ci dà notizia nei pochi documenti autografi citati. Più difficile approdare a qualche risultato nella ricerca dei disegni, ché dovette schizzarne pochi (uno comunque è stato proposto: R. Bossaglia, I Fantoni [catal.], Vicenza 1978, p. 435", ma l'autografia del C. è molto dubbia).
Fonti e Bibl.: F. Maccarinelli, Le Glorie di Bescia... [1747-51], a cura di C. Boselli, Brescia 1959, pp. 75, 140; G. B. Carboni, Le pitture, sculture di Brescia..., Brescia 1760, pp. 22, 28; A. Mazzoleni, Vita de' servi di Dio Giuseppe Roncelli e Giovanmaria Acerbis, Milano 1767, pp. 8 s.; F. Bartoli, Le pitture, sculture... di Bergamo, Vicenza 1774, ad Ind.;A. Pasta, Pitture notabili di Bergamo, Bergamo 1775, ad Ind.;C. Carasi, Le Pubbliche pitture di Piacenza, Piacenza 1780, p. 34; F. M. Tassi, Vite de' pittori, scultori ed architetti bergamaschi, Bergamo 1793, pp. 4, 34-41, 66: dall'indice dell'edizione curata da F. Mazzini (I-II, Milano 1969-70) risultano anche le altre fonti (G. M. Tasso, 1761 circa; G. Carrara, 1792 circa), peraltro ivi tutte pubblicate; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia... [1795-96], a cura di M. Capucci, II, Firenze 1970, p. 172; G. Maironi da Ponte, Diz. odeporico della Provincia bergamasca, I-III, Bergamo 1819-20, passim;G. M. 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