CESTI, Antonio
Compositore di musica, nato ad Arezzo il 5 agosto 1623, morto a Firenze il 14 ottobre 1669. Il C. cantò giovanissimo al Duomo e alla Pieve, dove rimase fino a quando (giugno 1637), entrò nei minori conventuali mutando il nome di battesimo, Pietro, in quello di Antonio. Durante questo primo periodo s'inizia, e per il continuo esercizio di cantore, su composizioni sacre di scuola romana, e per l'istruzione contrappuntistica, che il maestro di cappella Santini doveva per proprio ufficio curare, la singolare educazione musicale del C., che dall'orbita romana doveva poi allontanarsi per entrare in quella veneziana. Fu ricevuto nel luglio 1637 nel convento aretino di S. Francesco, e forse di lì si trasferì a Città di Castello, dove sarebbe stato discepolo dell'Abbatini (v.). Nel settembre 1640 il C. era di nuovo ad Arezzo. Con l'Abbatini il giovane poté del resto studiare a Roma dopo il 1640. A. M. Abbatini era da poco maestro di cappella a S. Maria Maggiore, e il Carissimi (il quale, secondo alcuni, avrebbe anch'egli curato il perfezionamento del C.) aveva lo stesso ufficio alla chiesa di S. Apollinare. Alcuni caratteri stilistici dell'Abbatini e del Carissimi si possono discernere, quantunque in diversa coscienza musicale, fin nell'opera più matura dell'aretino. Ritroviamo il C. in Toscana dal 1645 al 1650, prima maestro di musica del seminario di Volterra, poi - dopo una breve permanenza a Venezia in occasione della rappresentazione della sua prima opera, l'Orontea - a Lucca e a Firenze alla corte granducale. Alla composizione per teatro il C. era spinto non solo dal crescente favore del mondo secentesco per il melodramma, ma anche dal suo gusto naturale della varia e sensualistica vita mondana.
Della cantata romana il C. riproduce molti caratteri nella musica teatrale, come in alcune scene dell'Orontea, accentuandone le latenti possibiliià rappresentative. E la stessa forma egli ama costantemente, pur movendosi d'opera in opera verso lo stile decisamente rappresentativo dei maestri di S. Marco: Monteverdi e Cavalli. L'intera produzione operistica di C. è nata, qual essa è e si distingue dalle altre musiche melodrammatiche del Seicento, da siffatta convergenza di correnti per tradizioni opposte: la cantata e l'opera. Nell'Orontea del 1649 la cantata informa delle sue linee la struttura di molte scene e giunge a distendere in un calmo ritmo alquanto monotono tutto il dramma. Dall'Orontea al Cesare amante (Venezia 1651, edito sotto il nome del p. Marc'Antonio Cesti: ignota è l'origine del nome aggiunto, Marco, che compare poi in quasi tutte le opere) non troviamo a questo proposito grandi mutamenti d'indirizzo, ma una nuova vigoria viene a scandire i recitativi mostrando già le risorse drammatiche del futuro "veneziano".
A Firenze il C. si è intanto gettato nel mezzo della vita mondana dei cortigiani e degli artisti, si lega in amicizia con Giovanni Apolloni, aretino, cui in seguito dovette molti libretti. Sia per la sua scarsa moralità, sia che le sue affermazioni suscitassero invidie, molte inimicizie vengono ad opporglisi; ma il grande plauso destato in Venezia dal Cesare amante, gli apre nuove vie.
La composta melodia dell'aretino, conclusa in un giro lirico prossimo a quello delle arie da cantata, apriva all'ammirazione del pubblico veneziano un nuovo, limpido orizzonte. E in questa assimilazione delle proprietà dell'aria di cantata nello stile rappresentativo è contenuto già un motivo della fortuna del C., in quanto proprio a una tale vittoria dell'aria sul dramma, della cantata sull'opera, il teatro musicale italiano doveva presto - oltrepassato il Cavalli - pervenire e legarsi a lungo.
Il plauso di Venezia conduce il C. a rinomanza presto diffusa, oltre l'Italia, anche nel Nord; nel 1653 l'artista è a Innsbruck chiamatovi dall'arciduca Ferdinando, e nel 1655, alla presenza di Cristina di Svezia, è allestita in quella città l'Argia, la prima delle opere della maturità, cui - ritornato il C. in Italia - seguono sempre ad Innsbruck altri due melodrammi: La magnanimità di Alessandro (1662) e Il principe generoso (1665). Intanto, partito da Innsbruck verso la fine del 1659, il maestro entra nel collegio romano dei Cappellani cantori pontifici come tenore soprannumerario, e già nel 1660 si pone alla composizione della Dori, opera destinata alle feste fiorentine per le nozze di Cosimo de' Medici con Margherita d'Orléans. La Dori, allestita nel 1661 sotto la direzione dell'autore stesso, ebbe singolare fortuna.
In questo gruppo di lavori, dall'Argia del 1655 al Principe generoso del 1665, il C. raggiunge la pienezza della sua espressione melodrammatica, di cui la Dori può essere considerata l'esempio tipico: la cosiddetta economia scenica, è certo diversa da quel che oggi, o anche già nel periodo metastasiano, si desidera; l'estensione dei prologhi allegorici e illustranti le glorie dei monarchi e dei principi, la lunghezza dei recitati, la cui frequente vigoria espressiva non giunge a evitare il pericolo della stasi, l'intervento di parti comiche in momenti cardinali del dramma, sono elementi tali da conferire all'opera del C., come del resto anche a quella degli altri Veneziani, un carattere di fastoso spettacolo più che di umano dramma. Ma, come l'opera del C. subisce e assorbe l'influenza della cantata, così anch'essa, come spesso la cantata ritrova il suo valore estetico nelle singole scene e nelle singole pagine. Nella Dori già il prologo supera, come costruzione sonora, il piano della composizione di circostanza e giunge a una viva espressione di forza e di ampiezza, nella sua alterna vicenda di sinfonie, di soli, di concise pagine corali (ché, diverso anche qui dal Cavalli, il C. usa assai di frequente il coro e lo tratta con una scrittura trasparente pur nella massima pienezza, in contrappunto spesso imitativo). Qui, e soprattutto nelle arie e talvolta nei duetti più fervidi di tenera dolcezza, nella scrittura di C. sentiamo risorgere, entro il quadro serenamente e lievemente disegnato dello stile romano di cantata, l'intensa, vivida espressività, non pur melodica, ma anche armonistica e timbrica, del maestro dei Veneziani: Claudio Monteverdi. E veneziana appare quasi sempre, oltre le sporadiche imitazioni francesizzanti di alcuni lavori (Serenata del 1662), la strumentalità del C. maturo, ispirata spesso al Monteverdi anche nella forma; del che si potrebbero segnalare varî esempî anche nella sola Dori (cfr. le citate sinfonie e l'interludietto in si-b per 5 trombe nel prologo, con i passi analoghi dell'Orfeo e delle altre opere di Monteverdi).
A questo decennio 1655-1665, il cui scorcio fu passato dal C. a Venezia, seguono due anni di felice creazione, cui si debbono opere destinate alla corte di Vienna: Nettuno e Flora (1666), Le disgrazie di amore, La schiava fortunata (Semiramide), Il pomo d'oro (1667), oltre il Tito, rappresentato a Venezia nel 1666.
Le opere viennesi sono le più ricche di movimento scenico e di elementi barocchi che si siano conosciute dopo quelle del Cavalli. La musica vi si apre il varco attraverso questa e quella mutazione d'apparati "maravigliosi" e si muta anch'essa dal comico al trionfale, dalla melanconia all'effusione amorosa, offrendo talvolta in soste liriche il fiore dell'ispirazione di C., quale, p. es., l'aria di Aurindo ("Correre i fiumi onde di pianto amare...") nel 1° atto del Pomo d'oro. Con questa ultima opera teatrale, rappresentata in occasione delle nozze di Ferdinando imperatore con Margherita di Spagna, il maestro toccava insieme la vetta della sua arte e l'apice della fama. Per molto tempo, fin nel sec. XVIII, della Dori e del Pomo d'oro si seguirà l'esempio come di modelli di stile melodrammatico.
Bibl.: Sul C. e sulle sue opere, conservate parte a Venezia (Biblioteca di S. Marco), parte a Vienna (Hofbibliothek), e in frammenti a Bologna e a Firenze, non si ha finora una ricca letteratura e conviene quindi rivolgersi, oltre ai lavori seguenti, anche a studî d'indole più generale. Vedi però, per la biografia, gl'importantissimi contributi apportati da F. Coradini nel suo scritto Pietro Antonio Cesti, in Rivista musicale italiana, XXX, 1923. Analisi di molti melodrammi sono contenute in H. Kretzschmar, Die Venetianische Oper und die Werke Cavalli's und Cesti's, in Vierteljahrsschrift f. Musikwissenschaft, 1892. Vedi poi R. Rolland, L'opéra au XVIIe siècle en Italie, in Lavignac, Encyclopédie de la musique, Parigi 1921.