CAVALLERINI, Antonio
Nacque a Modena da famiglia di antica tradizione cittadina che aveva dato nel corso dei secoli amministratori e diplomatici al Comune: il padre Giacomo aveva ricoperto più volte cariche pubbliche. La data di nascita può collocarsi con qualche approssimazione, dovuta alla scarsità di documenti, intorno al 1546. La scarsezza di notizie biografiche si rende particolarmente acuta per quel che riguarda l'adolescenza e i primi studi. Nel corso di una sua residenza a Modena (che è soltanto probabile) avrà in qualche modo partecipato alla cultura patrocinata dall'insegnamento di illustri maestri, quali il Sigonio e il Castelvetro. Fatto sta che nella produzione del C. si avverte un chiaro sostrato di erudizione scolastica, che egli può avere acquisito in patria, date le favorevoli condizioni culturali che si erano verificate a Modena intorno alla metà del Cinquecento.
Un'altra grave lacuna è costituita dalla completa assenza del C. dai registri cittadini riguardanti le cariche ufficiali. Ciò, per illazione dei critici, può essere indizio di scarso interesse, dimostrato, contrariamente alla tradizione di famiglia, per la vita pubblica, ma può anche essere la prova di una sua lunga assenza dalla città natale. A questo riguardo le fonti rivelano uno screzio con Alfonso d'Este, duca di Ferrara, in seguito al quale l'autore può aver inseguito fuori del ducato quella fortuna letteraria che i dissapori con Alfonso II non avrebbero certo favorito.
Si sa inoltre che egli implorò una volta la grazia del duca per certe maldicenze di cui egli sarebbe stato l'oggetto, e che questa grazia tardò ad arrivare, o non giunse affatto. Secondo questa ipotesi, il C. avrebbe riparato presso il duca di Savoia, soggiornando poi a lungo presso la corte sabauda, singolarmente aperta, nell'ultimo scorcio del sec. XVI, ad accogliere gli ingegni più vitali della cultura tardorinascimentale. In data imprecisata il C. sarebbe poi ritornato in patria, ove è regolarmente registrato l'atto di morte, avvenuta a Modena nel 1598.
Come povera di supporti oggettivi è la biografia del C., oscura è per molti aspetti la sorte della sua produzione letteraria pur legata a un genere fortunatissimo nel Cinquecento: la tragedia. Di oltre venti titoli tramandati dagli eruditi ci sono rimaste soltanto quattro opere: Il conte di Modena (Modena 1575), Rosimonda (ibid. 1579), Telefonte (ibid. 1582)e Ino (ibid. 1584).Di queste quattro tragedie, ricordate dall'Allacci, non ci è giunta notizia di nessuna rappresentazione.
Quando il pubblico inneggiò alla Merope del Maffei come alla più perfetta tragedia che avesse mai prodotto scrittore italiano, gli esperimenti classicheggianti del C. dovevano essere completamente ignorati, tanto è vero che persino l'erudito veronese tacque del C. nella prefazione alla prima edizione della Merope, ricordandolo invece, sebbene di sfuggita, come un precursore, nella ristampa veneziana della tragedia del 1747.Pochi anni più tardi, una menzione dell'autore modenese fece Apostolo Zeno, ma poi il circuito del silenzio tornò a richiudersi su di lui nonostante la diffusione presso il pubblico degli studiosi della Biblioteca fontaniniana e di repertori quali la Storia della letteratura del Tiraboschi (che pure lo cita), fino a che l'opera del C. non venne recuperata, nel secolo scorso, dal Campori, vivendo da quel momento nell'ambito dell'erudizione locale.
Il C. avrebbe meritato una sorte migliore. Non che le sue opere sovrastino la media della produzione tragica italiana del Cinquecento (alla quale invece si apparentano per effetti e per procedimenti stilistici), ma presentano, al confronto di più celebri esperienze, un gusto equilibrato per l'utilizzazione delle fonti classiche, sofoclee e senechiane, una notevole parsimonia nella resa tragica dei caratteri, una cifra retorica che poco indulge agli effetti di lettura e fa invece precipitare l'azione verso l'esito tragico.
Nocque probabilmente all'autore la scelta peregrina degli argomenti, ma la realizzazione è già sgombra di quelle soluzioni vistosamente teatrali care a uno Speroni o a un Giraldi e si accomuna invece per nitidezza di caratteri e verisimiglianza scenica ai tentativi del Tasso e del Torelli, mentre l'azione si svincola dalle rigide unità della norma aristotelica e un vario gioco di intarsio rende più accettabile l'imitazione classicista. A questo forse alludeva il Maffei ricordando specificatamente il Telefonte, in cui la matrice classica della tragedia si stempera con altri prestiti, che includono Virgilio, gli elegiaci e i più pittoreschi scrittori della decadenza. Semmai tale compromesso poteva essere più accetto in clima arcadico che non in atmosfera di imperante aristotelismo, e in effetti le uniche punte positive della fortuna critica del C. furono registrate presso gli eruditi epigoni dell'Arcadia, a voler prescindere, s'intende, dal recupero ottocentesco inteso a promuovere una nuova gloria cittadina.
Bibl.: L. Allacci, Drammaturgia, Roma 1666, coll. 120 s.; G. Fontanini, Bibl. dell'eloq. ital.,note di A. Zeno, I, Venezia 1753, p. 479; G. Tiraboschi, Storiadella lett. ital.,IV, Milano 1833, p. 197; C. Campori, Intorno alla tragedia di A. C., in Memorie patrie, Modena 1881; A. Pierini, A. C. poeta tragico modenese del sec. XVI, in La Romagna, II, (1906), 3 pp. 163 ss.