CARACCIOLO, Antonio
Conte di Santangelo: incerte sono le notizie biografiche.
L'identificazione del rimatore Caracciolo con Pietro Antonio Caracciolo autore di farse è un'ipotesi del Torraca (p. 190) ormai non accettabile: infatti, nella frottola contenuta (cc. 70v-71v) nel ms. Riccardiano 2752 che ci ha conservato il maggior numero dei suoi componimenti, il C. chiama se stesso per ben due volte (vv. 1 e 86) semplicemente Antonio e Antonio è detto sempre altrove nel ms.; non solo, ma se sono sue come - propendo a credere - alcune rime contenute nel Ms. it. 1035 della Biblioteca naz. di Parigi messo insieme intorno al 1468 (cfr. D. De Robertis, L'esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della lett. it. Garzanti, III, Milano 1966, p. 688), l'identificazione diventa insostenibile anche per ragioni cronologiche perché a quel tempo Pietro Antonio doveva essere appena un ragazzo. Le vicende della sua vita non ci sono note con sicurezza, restando dubbia l'identificazione, avanzata cautamente dal Mauro (pp. 219 s.), del C. con un Antonio Caracciolo che nel 1462 era a capo d'una compagnia di cavalieri al servizio del conte di Catanzaro Alfonso Centeglia e con lui cadde prigioniero di Maso Barrese, inviato da Ferrante a reprimere i moti insurrezionali fomentati in Calabria dal Centeglia. Così è incerta l'altra identificazione, ancora proposta dal Mauro, con un Antonio Caracciolo che nel 1481 risulta, in qualità di uomo d'armi, a Brindisi e l'anno dopo figura tra i cortigiani e i gentiluomini di Alfonso duca di Calabria.
Il C. appartiene a quella schiera di rimatori napoletani della generazione precedente il Cariteo e il Sannazaro che in una lingua di koinè mediarono i temi e le forme della tradizione poetica indigena. Le loro rime si leggono, tra gli altri, nel citato ms. Riccardiano che raccoglie, oltre agli anonimi e al C., componimenti di Carlo Stendardo, di Francesco Galeota, del principe di Capua Ferrandino d'Aragona, del barone di Muro, Mazzeo Ferrillo (Percopo, pp. 806-12, ma la identificazione del Percopo, sostitutiva di quella con Errichetto Fortis, avanzata dal Torraca, p. 196, è stata ultimamente revocata in dubbio da M. Santagata, Una "corona" di liriche consolatorie del Quattrocento napol., in Studi e probl. di critica testuale, XI [1975], ottobre, pp. 82 s.), del barone della Favarotta, di Iacobo De Peccatore. Quest'ultimo, che dall'Aquila si era recato, su invito di Ferrante (24 ottobre del 1483), a Napoli per ricoprire la carica di giudice della Gran Corte della Vicaria, che tenne almeno fino all'anno 1485 (Torraca, p. 195), per poi passare a Foligno come governatore dal 1491 al 1492 (B. Croce, Sulla vita e le opere del Cantalicio, in Arch. stor. per le prov. napol., n.s., X [1924], p. 159), è il destinatario della già citata frottola del C. pubblicata, col sonetto che la precede, dal Torraca (I "Gliommeri" di Iacopo Sannazaro, in Aneddoti di storia lett. napol., Città di Castello 1925, pp. 365-68).
In essa il C. chiede a Iacobo un parere giuridico - su quale controversia non lascia intendere il linguaggio burlescamente ermetico - e cita (vv. 34 e 49) un Iohanne Forte (forse della famiglia del messinese Giulio amico del Pontano) e un "messere Napoli dottore", suoi difensori e consiglieri. Costoro ricompaiono subito dopo (c. 72rv) in due strambotti con i quali il C. invia le loro "allegancie" a messer Iacobo che risponde per le rime affermando di non essere in grado di dare il parere richiesto. Inoltre ai vv. 64-66 della frottola, il C. si dice in viaggio per recarsi da un non meglio specificato "signor conte" che forse è tutt'uno col "conte de casa mangniata" (c. 125r), cui viene deferito l'arbitraggio della disputa sulla natura d'amore e di gelosia dibattuta in strambotti dal Galeota e dal barone della Favarotta; è perciò almeno suggestivo ravvisare in esso Giovanni Cantelmo, conte di Popoli e patrono di questa cerchia di poeti, mentre mi pare difficilmente sostenibile l'identificazione, proposta da F. Flamini (Francesco Galeota gentiluomo napolitano..., in Giorn. stor. d. lett. ital., XX [1892], p. 38 n. 2), di questo secondo conte con il C. stesso che scambia si uno strambotto col Galeota, però non relativo all'accennata disputa.
Di particolare interesse, perché permettono di attribuire al C. diversi componimenti del Riccardiano, sono proprio lo strambotto di corrispondenza con il Galeota (c. 125rv) e un altro, in risposta ad anonimo (c. 127v), provvisti entrambi del nome dell'autore. Il primo di essi si legge anche nel ms. Estenseit. 1168 (α M. 7. 32), dove il C. figura solo come conte di Santangelo (Flamini, p. 79 n. 6; e cfr. anche il ms. della Bibl. nazionale di Napoli, Fondo Principale XVII, 1, c. 4r), titolo effettivamente attestato nella sua famiglia (B. Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle provincie meridionali d'Italia, III, Napoli 1876, p. 46). Ma poiché nel Regno i feudi di questo nome risultano molti, è difficile stabilire se sia il C. un conte di Santangelo di cui parla il Leostello in data 16 nov. 1488 e se, a sua volta, costui faccia tutt'uno con quel conte di Santangelo che, nel 1496, era in campo con re Ferrante, contro i Francesi, tra i quali appunto militava invece il Galeota (cfr. M. Sanuto, Diarii, I, Venezia 1879, coll. 225 s.).
Nel primo strambotto ("Francescho amico sappij in che manera") si legge (v. 4): "La nocte e 'l dì onnora è mio diporto", nel secondo ("Amico caro mio io non so donde"), al v. 5: "La nocte e 'l dì onnora lacrima non fonde", e ciò permette di assegnare al C. i sei strambotti anonimi per Dionora Nifa (c. 128rv) pubblicati dal Torraca (pp. 208-211) e ristampati dall'Altamura, e dei quali i primi tre contengono siffatti giochi di parole sopra il nome di madonna. Non solo, ma il primo di questi strambotti ricompare tale e quale - e fu notato dal Torraca (p. 209 n. 1) che però non ne trasse le dovute conseguenze - come terzo di una serie di dieci (cc. 73r-74v) costituenti una L[itte]re in rima per A[ntonio] C[arazolo] (cfr. Percopo, p. 794 n. 1) che comincia: "De sangue sono le parole messe" (da notare il v. 3 del sesto strambotto: "E te recordi la notte e 'l dìonnora"). Questo componimento, unico datato del Riccardiano (22 ag. 1480), si trova due volte (costituito di sette strambotti la prima e di otto la seconda) anche nel ms. Estense fra le rime del Galeota (Flamini, p. 81). Le numerose varianti riguardano, tra gli altri, i due strambotti che nel Riccardiano contengono il "nome secreto" di Dionora di cui nell'Estense non è più traccia. I due poeti si sono dunque esercitati, parte a gara e parte in collaborazione, sopra lo stesso tema. Parimenti saranno da attribuirsi senz'altro al C. lo strambotto "Io che m'andava solo e pellegrino" (c. 132r) in base al v. 7: "La notte e 'l dì onnora per camino" e l'altro "Se fallo o mancamento io te pensai" (c. 133v) per l'ultimo verso: "E circhi el dìonnora ch'io me mora". Sono tutti componimenti dettati dalla lontananza e dal tormento d'amore che ben giustificano l'autodefinizione del v. 86 della frottola: "Antonio Carazolo desamato", e consuonano col tema dell'esilio e dell'assenza svolto nella lettera in prosa "Quanto più lontano mi trovo" (cc. 14v-15r), anonima ma senz'altro del C. ("...de on'ora in un'altra..."), al quale è inoltre verisimilmente diretta l'altra lettera, pure in prosa, "Tantè stata la mia mercia o Antonio" di cc. 13v-14r e forse anche la lettera del 4 ag. 1467 ("Solese um proverbio, Antonio mio") contenuta nel ms. parigino (cc. 53v-55r). Sempre del C. sono lo strambotto su spunto del Galeota (c. 28v) "La mia ventura ardendo e biastemando" (cfr. il v. 8, mutilo: "De una ora in un'altra") e i testi che si leggono alle cc. 41r-43r. Si tratta del son. "Non fui al mio male più proveduto" rivolto ad un anonimo "Illustrissimo Signore" e della frottola "Illustro mio Signiore". Con essi il C. chiede giustizia per il tradimento dell'infedele sua donna. Per identità d'argomento e di tono saranno da attribuirsi al C. anche i testi immediatamente seguenti e cioè lo strambotto "Ogie non s'ama più come una volta", la frottola "0 dolci e cari Signore, questo ve dico", e due strambotti ("Questa tua fiamma tenela secreta" e "Durare se pò male questa mia doglia"); suo è lo strambotto di c. 43v "Dov'è l'amore falso c'àì mostrato" (cfr. il v. 7: "La notte e 'l dì onnora l'ò servato"). Nella prima di queste frottole egli si descrive al protettore: "Lo spennato Misero et ingannato Da chi sai, La nocte e 'l dì onora...". Sotto cotesto pseudonimo di "spennato" il C. compare anche, con un "Lexandro" e un "barone", nel primo di tre deliziosi strambotti (c. 28rv) che accompagnano il dono di cinque usignoli (che saranno ammaestrati da Cola Dalfano) a Ippolita Maria Sforza, sposa di Alfonso duca di Calabria. Infine, la ballata "Beffa più non te farray" la barzelletta "Se l'amore o mia fortuna" pubbl. dal ms. parigino, da Mario Mandalari (Rimatori napoletani del Quattrocento, Caserta 1885, pp. 112 s., 118-120, poi rist. dall'Altamura) sono contrassegnate rispettivamente dalle sigle AN. CI e A.C. (cfr. anche G. Mazzatinti, Inventario dei manoscritti italiani delle Biblioteche di Francia, II, Roma 1887, pp. 242 s.) che, più che ai personaggi proposti dal Mandalari (p. 113 n. 219), non altrimenti noti come rimatori, sembrano convenire al C. che è il solo, tra i poeti napoletani, ad avere quelle cifre. Forse sono del C. anche i testi immediatamente precedenti ai due citati, la barzelletta "Ad hunora dio lavora" e lo strambotto "Ite suspiri mey davante a quella".
Fonti e Bibl.: J. Leostello, Effemeridi delle cose fatte per il duca di Calabria(1484-1491), in Documenti per la storia,le arti e le industrie delle provincie napoletane, a cura di G. Filangieri, Napoli 1883, p. 173; E. Percopo, Nuovi documenti su gli scrittori e gli artisti dei tempi aragonesi, in Arch. stor. per le prov. napol., XVIII (1833), pp. 790-812; F. Torraca, Rimatori napoletani del Quattrocento, in Aneddoti di storia lett. napol., Città di Castello 1925, pp. 185-258; A. Mauro, Per la storia della letter. napoletana volgare del Quattrocento, in Arch. stor. per le prov. napol., n.s., X (1924), pp. 192-231; Rimatoti napoletani del Quattrocento, a cura di A. Altamura, Napoli 1962, pp. 52 s., 55, 161-163. Per ulteriore bibliografia, cfr. F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società (estratto da Storia di Napoli, IV, 2, Napoli 1974, ove v. anche A. Altamura, La letteratura volgare, pp. 499-571), p. 292 n. 175.