CARACCIO, Antonio
Nacque nel mese di luglio del 1630 a Nardò (Terra d'Otranto) da Niccolò dei baroni di Corano e dalla verseggiatrice Caterina Scorna.
A quattordici anni, con ingenuo vanto di precocità sul Tasso, scrisse in ottave il poemetto Le lagrime d'Alcione, andato perduto. Il padre non incoraggiò le aspirazioni letterarie del C., nonostante si dilettasse anch'egli di qualche esercizio in versi. Epigono di un'aristocrazia decaduta e di provincia, in ansia d'inurbamento con aspirazione all'inserimento negli alti gradi della burocrazia vicereale, Niccolò inviò il figlio a studiare diritto a Napoli. Richiamato dalla capitale per lo scarso profitto negli studi giuridici e in seguito ai lutti familiari per la morte di tre fratelli e di una sorella, il C. deluse ancora una volta le speranze del padre quando si rifiutò di risolvere le ristrettezze economiche della famiglia con un matrimonio. Per sfuggire al soffocamento della provincia, ritornò a Napoli, ove prese parte all'Accademia filosofica degli Investiganti. La frequenza di questa accademia gli valse, oltre all'influsso in lui sempre attivo dell'antimarinismo e del neopetrarchismo del purista Leonardo Di Capua, lo stimolo allo studio della lingua greca, della matematica e della fisica: vi lesse con successo tre dissertazioni su un luogo di difficile interpretazione del poema lucreziano, sulla circompulsione platonica e sull'architettura dell'antica Roma raffrontata con quella egizia. Turbato dall'insurrezione popolare di Masaniello (1647), alla quale allude in un sonetto pescatorio, il C. si risolse a lasciare Napoli. Nel 1651, con una lettera di raccomandazione del duca dell'Acerenza Cosimo Pinelli, si presentò a Roma al cardinale Pier Luigi Carafa che lo distolse dal proposito d'intraprendere la carriera militare e lo avviò al segretariato presso illustri cardinali (Lorenzo Raggi, Marcantonio Bragadin e Vincenzo Costaguti). Nel 1660, morto il Costaguti, il C. per la mediazione di Pietro Tavana tentò di entrare al servizio del cardinale Pietro Vidoni; ma la lungaggine degli approcci gli consigliò di accettare la proposta d'impiego in qualità di "gentiluomo" fattagli dal principe Camillo Pamphili, le cui lodi cantò in una canzone indirizzata a monsignore Giuseppe Vallemani e in un'altra intitolata La prudenza nocchiera. Del resto i componimenti encomiastici e celebrativi erano un dovere d'ufficio, se non proprio una merce di scambio, per il cortigiano Caraccio.
Già nel 1650 (ma il suo amico e biografo Domenico De Angelis oscilla tra questa data e il 1659) a Lecce (a Lucca, secondo il Quadrio: in ogni caso presso Pietro Micheli) il C. aveva pubblicato la canzone epitalamica Il Fosforo per le nozze tra il duca dell'Acerenza e Anna Ravaschieri dei Principi di Belmonte. Un poemetto celebrativo è L'assemblea dei fiumi (Roma 1656), scritto per l'ingresso in Roma della regina Cristina di Svezia, alla quale indirizzò pure la canzone Reggia di Atlante (che si legge, insieme ad altri suoi sonetti e canzoni, nel t. IV delle Rime degli arcadi, Roma 1717, pp. 147-74). Nel 1660, in occasione delle nozze di Luigi XIV di Francia e dell'infanta Maria Teresa, pubblicò a Roma il poema La pace pronuba. Una canzone encomiastica dedicò pure al gesuita Girolamo Cattanco (lo storico della Repubblica genovese), pubblicata nella prima parte delle Lettere memorabili dell'abate Michele Giustiniani (Roma 1667, p. 229) e poi inclusa nella caraccesca raccolta di Poesie liriche (Roma 1689). Nel 1671 fu pubblicata a Roma l'ode epitalamica La navigazione, dedicata ai principi Giovanni Andrea Doria e Anna Pamphili.
Il C. rimase sempre fedele alla famiglia Pamphili, anche dopo la morte del principe: servì infatti prima la troppo famosa vedova del suo protettore, donna Olimpia Aldobrandini, e poi il cardinale Benedetto Pamphili. Intanto, nelle pause dai servizi e dagli inevitabili litigi cortigiani da minutanti di cancelleria e da manovrieri del sottobosco dell'alto clero romano, andò maturando in lui l'idea di un poema allegorico-religioso su quella quarta crociata (1202-04) nella quale si era distinta la Repubblica di Venezia. Nel 1679, dopo essere stato sottoposto alla lettura e agli autorevoli consigli di Andrea Peschiulli, del marchese Gregorio Spada e di altri letterati amici dell'autore, apparve a Roma la prima edizione in venti canti de L'Imperio vendicato con gli "argomenti" e la "Chiave dell'allegoria" del conte Giulio di Montevecchio e le "dichiarazioni storiche" del già ricordato marchese Spada. Il poema, che era dedicato alla Repubblica di Venezia, valse al poeta nello stesso anno della pubblicazione il titolo di cavaliere di S. Marco. Il successo riscosso dall'opera indusse il C. ad aggiungere ad essa, in una seconda edizione (Roma 1690), altri venti canti non senza alcuni ritocchi a quelli pubblicati undici anni prima. Ma il C. non si rassegnò a considerare definitivo il testo della seconda edizione: il cod. Vat. lat. 7038, che ci ha conservato le autografe stratificazioni correttorie de L'Imperio vendicato, ci documenta di un'ulteriore revisione del poema interrotta però al settimo canto per la sopravvenuta morte dell'autore.
Ne L'Imperio vendicato è sciattamente narrata, attraverso un semovente meccanismo di rigonfiamento e di moltiplicazione degli episodi in complicati incastri romanzeschi, la conquista di Costantinopoli contro i Greci scismatici ad opera di Baldovino di Fiandra e del doge Enrico Dandolo. Legati all'allegorica rappresentazione dello scisma d'Oriente sono il mirabile e l'illusorio. La dualità dei capi della Chiesa è significata nella mostruosità del gigante Dicefalo, figlio di Menessa (menis "ira"), chiamato a difendere Costantinopoli dall'assalto dei crociati: fornito di due busti ha, come indica il nome, due teste. Personificazione dello scisma è il negromante Basilago, modellato sul tassesco Ismeno: "ritratto de le lagrime e del duolo" (III, 35, 6), rinasce giovane dal suo stesso cadavere. Sull'esempio dell'Orlando furioso ogni singolo canto è aperto da esordi moralistici. Ma Ariosto e Tasso, pretenziosamente imitati dal C., rimangono nel poema punti di riferimento estrinseci. Due "censure" di alcuni accademici della Crusca accusarono il poema di lungaggine e di disuguaglianza stilistica; e in sua difesa il C. scrisse due "risposte" che, rimaste manoscritte, sono andate perdute assieme alla favola pastorale La Tisbina e a una Allegoria delpoema dell'Imperio vendicato. Nella polemica tra il C. e gli accademici della Crusca interverrà anche il Crescimbeni con il riconoscimento del "conturbamento della favola" del poema, ma non della mancanza in esso di "unità": "imperciocché gli episodi sono tutti concatenati e congiunti in guisa con la favola che, se uno se ne toglie, la favola si distrugge" (1712, pp. 136-98).Passato al servizio del governatore di Roma e poi cardinale Giambattista Spinola in qualità di maestro di camera e di capitano della sua guardia, il C., che già era stato accademico umorista, nel 1690 col nome di Lacone Cromizio entrò in Arcadia, dove presto fu dei dodici del Magistrato d'Arcadia. L'ultima opera da lui data alle stampe è la tragedia il Corradino (Roma 1694). Morì a Roma il 14 febbr. 1702, totalmente smemorato dalla vecchiaia e dopo anni di sonnambulismo, sorvegliati dalla moglie Beatrice Saladina che però lo precedette nella tomba.
Fonti e Bibl.: La vita di A. C. fu attentamente ricostruita dall'ab. D. De Angelis e pubbl. dal Crescimbeni ne Le vite degli Arcadi illustri, I, Roma 1708, pp. 141-68. Successivamente il De Angelis ristampò la biografia, con l'aggiunta delle lettere di Filippo De Angelis sul Corradino, in Le vite de' letter. salentini, I, Firenze 1710, pp: 171-207. Si vedano: G. M. Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma 1712, pp. 136-98 e passim; Id., L'istoria della volgar poesia, Roma 1714, pp. 198, 257, 391; F. S. Quadrio, Dell'istoria e ragione di ogni poesia, II, Bologna 1741, pp. 335 s.; IV, ibid. 1744, p. 690. Un ampio profilo, in gran parte sulla traccia di quello del De Angelis, si deve ad A. Lombardi nella Storia della letter. italiana nel sec. XVIII, Venezia 1832, V, lib. III, pp. 132-35. Altre notizie in I. Carini, L'Arcadia, Roma 1891, pp. 369-76. Ma si deve soltanto ad A. Belloni un attento esame del poema caraccesco: Gliepigoni della Gerusalemme liberata, Padova 1893, pp. 385-94. Si veda infine C. Vellani, Scrittoried artisti pugliesi antichi e contempor., I, Trani 1904, sub voce.