CAPPELLO (Capello), Antonio
Del ramo di S. Maria Materdomini della nobile casata che era distinto con l'appellativo di "Cappello dal Banco", attribuito già a suo padre Leonardo del fu Pancrazio, nacque in Venezia nel 1461. In gioventù dovette praticare la mercatura, ma poco si conosce dei suoi affari, che conduceva in società coi fratelli, in particolare con Silvano, più giovane di un anno, sviluppandoli presumibilmente su Londra, un campo tradizionale d'attività della famiglia. Era associato nella "fraterna" anche il fratello Vettore, nato verso il 1470, che vediamo, assumersi l'appalto di una galera del convoglio di Fiandra nel 1503 e nel 1505. È nella capitale inglese che nel 1504 troviamo Silvano, giuntovi il 17 gennaio con le galere, dopo che nel 1501 era stato fra gli elettori del doge Loredan, (dei nove che elessero i quaranta), e il 15 genn. 1503 preposto al cottimo di Londra, carica che l'8 luglio 1504 viene assunta dal fratello Antonio. Nel suo viaggio commerciale Silvano aveva portato, fra le altre merci, undici balle di zenzero, cinque delle quali (più di venticinque quintali) vennero cedute a Nicolò Duodo; le altre le vendette senza difficoltà, destinando il ricavato all'acquisto di lane, panni, stagno.
Nel marzo 1507 il C. e i fratelli specializzarono le loro operazioni in un settore anch'esso tradizionale della famiglia, associandosi con Luca Vendramin per l'esercizio di una banca. Quando essa fu solennemente aperta, il 27 maggio, sotto i portici di Rialto, la congiuntura non era troppo favorevole ad imprese del genere, dopo i numerosi fallimenti che s'erano registrati a partire dal 1495 e restando tuttora sospese le questioni connesse col recente crollo del banco Garzoni.
Tuttavia in questo momento, con "grande honor ala terra e comodità ai mercanti", a Venezia funzionavano quattro banche private, ma ai primi di febbraio del 1508 fallì quella Agostini, l'unica non gestita da nobili, costringendo le altre ad esporre al pubblico le proprie riserve metalliche, per fornire garanzie di solidità ed evitare che i depositanti si lasciassero prendere dal panico. Così il 12 febbraio il banco Cappello-Vendramin aprì di buon'ora gli sportelli, facendo mostra di denaro contante per 23.000 ducati; il giorno prima i Priuli ne avevano esposti 30.000, e naturalmente non possiamo escludere che si trattasse in tutto o in parte della stessa somma, mutuata vicendevolmente per mascherare un basso grado di liquidità. La crisi dei banchi era certo un riflesso di quella che aveva colpito il commercio veneziano, e la fragilità dei vari istituti, gettando il discredito su tutto il sistema bancario, contribuiva anch'essa alla contrazione dei depositi, ma abbiamo una nozione troppo generica delle operazioni che essi effettivamente compievano per stabilire le cause specifiche della loro difficoltà. Anche per seguire quelle del banco Cappello-Vendramin ci dobbiamo accontentare di documenti delle autorità governative e degli accenni dei cronisti, mentre ci mancano del tutto le testimonianze dirette. Eppure sappiamo che da parte dei Cappello le scritturazioni relative all'attività, commerciale e bancaria vennero tenute in modo particolareggiato e preciso perché i tre fratelli e il loro socio potessero in ogni momento render conto dei propri negozi o controllare gli altrui: alla morte del C. insieme coi registri d'amministrazione della proprietà fondiaria esse occuparono tutto lo stanzone nel quale erano state concentrate per dar modo a eredi ed esecutori testamentari di ripartire con giustizia il patrimonio familiare, in grandissima parte ancora indiviso.
Come gli altri a Venezia, quello Cappello-Vendramin era un "banco di scritta" e perciò la sua funzione principale consisteva nell'eseguire pagamenti e riscossioni mediante girate da un conto all'altro, ma esso non doveva trascurare i cambi e le speculazioni sulle monete, incoraggiate dalle forti fluttuazioni del mercato, e neppure i prestiti a privati e gli investimenti commerciali. Si è propensi a credere che certi squilibri potessero essere provocati da anticipazioni richieste o pretese dallo Stato, e infatti nel Sanuto ne troviamo molte volte la notizia, perché se ne rendeva pubblico merito. Dal 1508 al 1515 esse ammontarono a 18.000 ducati in varie riprese, e nel 1520 a 20.000 in una volta sola, da spedire ad Augusta in adempimento dei capitoli della tregua con Massimiliano, ma nell'agosto 1515, quando si trattò di contribuire a un prestito, i titolari del banco si limitarono a 100 ducati, che il cronista qualifica "una miseria", per gente che aveva tanta fama di ricchezza. La solidità dell'azienda non sembra aver risentito di queste anticipazioni. Si mantenne tale da attirare anche clienti stranieri, come nel 1512, quando aveva in deposito 5.000 ducati destinati ai Cantoni svizzeri. La fiducia della quale godeva era altissima e la sua gestione non meritava affatto il severo giudizio di Francesco Ferrara che, poiché le operazioni attive non si fondavano su capitali propri bensì sui depositi, l'attività dei banchieri veneziani "era un mezzo che a loro il paese forniva di vivere per alcun tempo in folli scialacqui o apparecchiarsi scandalose fortune".
Nel 1522 la sua situazione appare peggiorata. Circolava poca moneta e di cattivo conio, i depositi erano in regresso. Sulla piazza il banco Cappello-Vendramin e quello più potente dei Pisani erano i soli che continuassero a reggersi facendo operazioni di giro, ma la "partita" s'andava svalutando perché si riusciva a concederne la conversione solo in quantità minime. L'anno successivo essi avevano praticamente chiuso la cassa, cosicché sui muri di Rialto, il 26 ottobre, apparvero scritte e disegni osceni contro i banchieri e quello dei Cappello-Vendramin vi era ingiuriato come banco "de Anselmo Mandolin", che era forse un personaggio da commedia. Probabilmente è in questi anni, o non molto prima, che Vettore recede dall'impresa; il banco fu saldato regolarmente, ma subito dopo il C. e Silvano, i quali avevano formato una nuova "fraterna", tornarono ad associarsi col Vendramin costituendone un altro. Di questa mutazione troviamo notizia soltanto nel testamento del C., il che farebbe pensare che ad essa non si fosse voluto dare pubblicità, magari per non allarmare i creditori.
In società con Luca Vendramin, nel 1511 Silvano figura debitore del dazio del ferro e garante dell'appaltatore di quello del "suro". Insieme col C. gestiva anche una stamperia a Venezia, che nel 1516 pubblicò un Opus cerimoniarum ecclesiasticarum del cardinale Bernardino Carvajal. Gli affari non facevano tuttavia trascurare ai due fratelli il giro delle cariche pubbliche. Nel 1509 il C. era provveditore di Comune, ufficio che in precedenza era stato tenuto anche da Silvano; nel 1518 venne scrutinato, ma non eletto, savio alla Mercanzia e nel 1521 era savio alle Decime. Silvano nel 1509 era ufficiale alle Rason Vecchie e dieci anni dopo alle Rason Nuove. Entrambi i fratelli parteciparono all'elezione del doge, nel 1521 il C., nel 1523 Silvano, il quale sosteneva Leonardo Mocenigo. Cerca di ottenere qualche incarico pubblico anche Vettore, ma con poco successo, perché dopo che nel 1510 viene scrutinato per la carica di provveditore al cottimo di Damasco, il suo nome non compare più neppure fra i candidati. Il C., come altri a Venezia, prende a disertare le sedute del Maggior Consiglio, e quale renitente abituale Marin Sanuto nel 1527 ne registra il nome "a eterna memoria". Nel 1524 egli aveva abbandonato gli affari, e infatti non figura più tra i titolari del banco, che continuò sotto i nomi del fratello Silvano e di Luca Vendramin, ma tra i diciannove che il 25 febbraio prestarono le prescritte garanzie per 26.000 ducati troviamo anche lui. In realtà non ritirò la sua parte, ma ne lasciò la libera disponibilità al fratello Silvano, in modo che - volendo - avesse potuto anch'egli recedere onestamente.
Silvano, che nel 1495 s'era unito in matrimonio con una figlia di Andrea Trevisan, vedova di Tommaso Zane, nel 1525 consolidò il suo prestigio dando in moglie una delle figlie a Filippo Cappello. Al fidanzamento e alle nozze, celebrati in modo fastoso, intervennero moltissimi convitati di rango e il Sanuto ci ha lasciato la curiosa notizia che tra le altre cose venne servito "formazo piasentin su taieri con li meloni, cosa che più a noze" s'era mai vista dare. Il 4 apr. 1526 Luca Vendramin morì, e a Venezia si diffuse la voce che aveva disposto per testamento che nel giro di un anno i suoi eredi si dovessero ritirare dall'impresa. Era un momento che i banchi non godevano di buona fama, perché la "partita" da loro emessa s'era svalutata del 20% rispetto alla moneta metallica, e se ne attribuiva la colpa alla cattiva gestione e alla disonestà di chi ne reggeva le sorti. Per di più il banco Cappello-Vendramin si trovava in qualche difficoltà perché coinvolto nel fallimento di quello di Andrea Arimondo (1526), e infatti vediamo Silvano adoperarsi attivamente fra i capi dei suoi creditori (1527), ma il 9 marzo 1528 egli fece sapere che, d'accordo coi soci, intendeva chiudere la gestione dell'istituto, onorando in pieno i propri impegni.
L'annuncio venne dato con una solenne cerimonia. Dopo la messa, il C., vestito di velluto nero, e gli orfani del Vendramin, accompagnati da una corte di procuratori di S. Marco e di patrizi, si recarono al banco, dove "con trombe e pifari" proclamarono che era intenzione dei titolari di liquidarlo, e perciò invitavano tutti i creditori a presentarsi agli sportelli. Ciò tornava "a gran onor della Terra e suo", e a testimoniare che l'istituto era perfettamente in grado di adempiere ogni sua obbligazione erano state messe ben in vista le disponibilità di cassa, costituite da ducati d'oro in quantità e da sacchetti di altre monete. Non era presente Silvano perché malato, ma si diceva che volesse riprendere l'attività bancaria associandosi col genero. Qualche mese dopo, invece, ai primi di settembre, egli presentò garanzie per 25.000 ducati per riaprire il banco a nome proprio e dei figli Andrea, Giovan Battista e Paolo. Anche questa volta tra i fiduciari compare il C.: era stato per merito suo che Silvano aveva potuto liquidare l'impresa precedente perché, come sappiamo, aveva ricevuto la facoltà di disporre anche della sua quota e inoltre di tutti gli utili della attività mercantile della "fraterna" e delle entrate della tenuta di Vigodarzere, che specie in tempo di carestia erano state considerevoli.
L'inaugurazione della nuova gestione, il 1º ott. 1528, non fu meno solenne della cerimonia con la quale s'era annunciata la liquidazione della vecchia. Anche questa volta un corteo di gentiluomini accompagnò sotto il portico di Rialto Silvano e Andrea, vestiti il primo di velluto "alto e basso", il secondo di damaschino cremisi. La sede del banco era stata addobbata con tappezzerie e come al solito vi erano in bella mostra oro e monete. Le operazioni cominciarono subito.
Nel 1526 e nel 1527 Silvano era stato scrutinato quattro volte, tutte senza successo, per il Collegio dei sei al Consiglio dei pregadi, e sempre nel 1527 non era riuscito ad entrare nella zonta del Consiglio dei dieci. Il figlio primogenito Andrea, nato nei primi anni del secolo, raggiunse invece i suoi intenti spianandosi la strada col denaro. Il 3 febbr. 1527 fu eletto console ad Alessandria, per virtù di un'oblazione al fisco di 500 ducati e il 12 giugno 1529, insieme con altri sette nobili, entrò in Senato versandone 400. Nulla di preciso sappiamo delle vicende del banco, ma dopo il 1528 la situazione generale era molto migliorata e le quotazioni della "partita" erano ritornate alla pari, per quanto i banchieri lucrassero indebite tangenti sui pagamenti delle lettere di cambio, che certo minacciavano di provocare nuove cadute del corso della moneta bancaria.
Nell'autunno del 1529 l'azienda perse uno dei suoi titolari, Paolo, sulla via del ritorno da Costantinopoli, dove s'era recato per un viaggio d'affari. Il 26 ottobre giunse a Venezia la notizia che a quattro giornate da Ragusa la carovana della quale faceva parte, insieme con altri mercanti veneziani, fiorentini, genovesi, era stata assalita di notte da una banda di "martelossi", che le aveva inferto gravissime perdite. In un primo tempo sembrava che Paolo fosse stato soltanto ferito, ma l'8 novembre si seppe con certezza che era morto, ancora giovanissimo. Non passò molto che morì anche suo padre Silvano, nel 1532. Il C. gli sopravvisse fino al 29 ott. 1541, e anch'egli, come i fratelli, volle essere sepolto a S. Stefano, nella tomba materna, che era quella della famiglia di Lorenzo Soranzo.
Ormai da molti anni il C. s'era ritirato nella sua nuova casa di Murano e nel 1533 gli era toccata una triste esperienza, quando era stato duramente percosso da Marc'Antonio Priuli durante la trattazione di una lite davanti ai Signori di notte. Egli aveva sporto denuncia, ma in Quarantia l'accusato fu prosciolto, per quanto avesse infierito su un vecchio di settantadue anni, perché si riconobbe che era stato provocato con volgari insulti. Nello stesso anno era comparso in Quarantia anche Giovan Battista, secondogenito di Silvano e più giovane del fratello Andrea di circa tre anni. Era stato chiamato a deporre come teste a carico nel processo contro Maffeo Bernardo, titolare di un altro banco privato veneziano, e non c'è da stupirsi che la concorrenza con quello dei Cappello sia potuta degenerare in rivalità e inimicizia. Costui era accusato "de crimine lesae maiestatis", per certe affermazioni ingiuriose contro il doge e la Signoria durante un ricevimento dato dall'ambasciatore veneziano a Londra. Le dichiarazioni di Giovan Battista furono aspramente contestate dal difensore, il quale sostenne che non meritava credito perché notoriamente "inimicissimo" del suo patrocinato.Dopo la morte o il ritiro degli altri soci, l'azienda familiare poteva ormai contare soltanto su Andrea, che ne era a capo, curando in particolare la gestione del banco, e su Giovan Battista, impegnato di solito in viaggi commerciali. Il banco, che continuava ad operare sotto la ragione sociale di Silvano Cappello e figli, s'era venuto ormai collocando al primo posto tra gli istituti cittadini: il 15 luglio 1534, quando il Senato sottopose alla prescritta "prova" annuale i titolari dei tre banchi, solo i Cappello riuscirono a superarla, mentre Antonio Priuli ottenne l'approvazione soltanto alcuni mesi dopo. Andrea intanto seguitava la scalata alle cariche pubbliche, acquistandole col denaro. L'8 giugno 1537, durante la crisi finanziaria provocata dalla guerra coi Turchi, egli arrivò praticamente al culmine, ottenendo d'esser fatto procuratore di S. Marco de Ultra mediante una contribuzione di 13.000 ducati. L'Aretino può così citarlo tra i personaggi più ragguardevoli di Venezia, ma il banco era frattanto caduto in cattive condizioni. Il 23 ottobre esso riuscì a ottenere dal Senato una moratoria, che gli consentiva di sospendere per un anno la liquidazione dei crediti superiori ai 50 ducati. La richiesta veniva giustificata da una forte anticipazione di denaro e da grossi capitali investiti ad Alessandria, ma accogliendola a larga maggioranza si tenne conto soprattutto dell'opportunità di non pregiudicare la fiducia nel sistema bancario della città. Moratoria, va precisato, e non fallimento, come è invece parso al Lattes e al Ferrara: i Cappello riuscirono certamente a far fronte alle difficoltà e a riprendersi. Il banco sopravvisse almeno fino al 1546.
Se fossero sorti dei problemi di copertura vi avrebbe fatto certamente fronte il C., la cui situazione patrimoniale permaneva solidissima; ed egli era animato da un sentimento molto profondo dei legami familiari, senza contare che per la morte improvvisa di Silvano, padre dei titolari del banco, molti conti con loro erano rimasti aperti, specie quelli della fraterna compagnia. È il C., infatti, che provvede alla restituzione della dote alla cognata Marina, facendolo con larghezza perché le diede per intero i suoi 5.000 ducati, mentre il contratto nuziale prevedeva la riduzione di un terzo in caso di vedovanza; è probabile che avesse voluto considerare che per molti anni la somma era rimasta ad ingrossare il capitale sociale. Inoltre egli non aveva moglie né discendenti legittimi, ma solo un figlio naturale, Marino, al quale nel testamento del 13 giugno 1539 fu in grado di assegnare cospicui legati. Il C. si lamentava di esser stato tassato troppo, perché non aveva proventi d'attività commerciali o industriali né di pubblici uffici e perciò doveva limitarsi a vivere delle sue rendite, senza speranza di accrescerle. In realtà queste gli assicuravano entrate ricchissime. Nelle denunce fiscali presentate nel 1514 e nel 1521 egli figurava proprietario, sempre insieme col fratello, di un palazzo sul Canal Grande, di uno più piccolo a S. Samuele e di numerosi appartamenti e botteghe al centro della città, nonché di una grossa area fabbricabile a Murano, dove più tardi, nel 1536, erano sorte otto case. Le botteghe concentrate a Rialto erano state danneggiate dall'incendio, ma nel 1521 apparivano ripristinate. Dopo il 1514, su di un'area a S. Benedetto, il C. e Silvano avevano fatto costruire un edificio per il getto del piombo, dal quale ricavavano un buon affitto, e due case d'abitazione. Era di loro proprietà anche una vasta tenuta a Meolo, di 450 "campi" (circa 235 ettari), per metà di terreno arativo e per l'altra metà paludoso o a prato. Essa era stata comprata dal padre e dallo zio e arrotondata da loro con vari acquisti. Per anni aveva provocato liti coi conti di Collalto e con altri proprietari e vicini. Presso gli uffici fiscali i Cappello si lamentavano che essa era soggetta agli straripamenti del Piave, ma l'avevano difesa con argini e migliorata molto. Essi erano fra i maggiorenti del paese e la costruzione della chiesa di S. Giovanni, a Meolo, dovette molto a loro. Nella denuncia del 1521 non vediamo più comparire una piccola proprietà di 33 "campi" a Castelfranco che era posseduta nel 1514, né vi si accenna a quella di Vigodarzere, ma una grossa quota del patrimonio era investita nel debito pubblico, che per certi titoli nel 1534 offriva una rendita nominale dell'8%. Il testamento del C., benché non consenta una valutazione anche approssimativa dell'asse ereditario, esprime una situazione economica floridissima, non intaccata dalla crisi di liquidità che il banco di famiglia aveva traversato due anni prima, nel 1537: un elenco lunghissimo di lasciti, mille messe, da dire prima della sepoltura, pellegrini inviati a pregare a Roma, a Gerusalemme, a Santiago di Compostella, disposizione di provvedere ai legati soltanto con gli affitti degli immobili a Venezia e con la rendita dei titoli di Stato, senza intaccare il capitale, che doveva restare nella famiglia. Eredi erano istituiti in parti uguali gli orfani di Silvano e di Vettore, benché il prediletto sembri essere Andrea. In effetti non solo era rimasta aperta la gestione della fraterna compagnia con Silvano, ma anche i conti di quella iniziale alla quale partecipava pure Vettore erano tuttora in sospeso perché quand'egli era mancato i figli si trovavano in minorità: il testatore lasciava tutte le scritture che avrebbero potuto permettere la divisione, ma raccomandava di accordarsi fraternamente, senza ricorrere al giudice.
Le ultime volontà dettate dal C. sono una testimonianza tipica della mentalità mercantile patrizia di quest'epoca. In principio è il cristiano al cospetto della morte che parla a lungo, tuttavia dando la sensazione che le elimosine largite e le altre oblazioni abbiano anche esse un po' il carattere di investimenti, seppure per la salute dell'anima; più avanti subentra scopertamente il capitalista, con una regolazione fredda e minuta degli interessi patrimoniali: si diano in affitto i terreni di Meolo, in denaro o in natura secondo la convenienza, e si abbia l'avvertenza di computare a parte le abitazioni e le altre costruzioni rurali, in modo da realizzare un canone maggiore. E si faccia una stima delle piantagioni e degli attrezzi e strumenti, per averli migliorati alla fine del contratto. Tutto è lucidamente considerato e previsto, per sfruttare al massimo ogni possibilità di guadagno.
Dei figli di Silvano, Giovan Battista morì il 26 nov. 1557, "improvvisamente" annota il Barbaro; Andrea chiuse la sua esistenza il 1º febbr. 1565.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato,Terra, reg. 28, cc. 38v, 94; reg. 29, c. 172; Ibid., Archivio Notarile, f. 1209 (not. Antonso Marsilio,Test.), n. 353; Ibid., Dieci Savi alle Decime, b. 62 (15, 67), b. 90 (507), b. 91 (948); Ibid., M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, c. 250; M. Sanuto, Diarii, IV, Venezia 1880, coll. 126, 587, 617; V, ibid. 1881, col. 964; VI, ibid. 1881, coll. 40, 135, 137; VII, ibid. 1882, coll., 30, 42, 81, 289, 735; IX, ibid. 1883, coll. 10, 265; XI, ibid. 1884, col. 405; XII, ibid. 1886, coll. 89, 488, 494; XVII, ibid. 1887, col. 14; XIX, ibid. 1887, col. 268; XX, ibid. 1887, coll. 183, 451, 456; XXII, ibid. 1887, coll. 273, 678; XXIV, ibid. 1889, col. 321; XXV, ibid. 1889, col. 601; XXVI, ibid. 1889, col. 293; XXX, ibid. 1891, col. 439; XXXI, ibid. 1891, coll. 182-183; XXXIII, ibid. 1892, coll. 545-546; XXXIV, ibid. 1892, coll. 147, 237, 248, 284; XXXV, ibid. 1892, coll. 140, 467, 471; XXXVI, ibid. 1893, coll. 203, 349; XXXVIII, ibid. 1893, col. 375; XXXIX, ibid. 1894, coll. 118, 170; XLI, , ibid. 1894, col. 134; XLII, ibid. 1895, col. 430; X-LIII, ibid. 1895, coll. 143-144; XLIV, ibid. 1895, coll. 20-21, 134; XLV, ibid. 1896, coll. 561, 630; LXVI, ibid. 1897, coll. 86, 114, 127; XLVII, ibid. 1897, col. 63; XLVIII, ibid. 1897, coll. 442-443, 452-453; XLIX, ibid. 1897, coll. 7, 406; L, ibid. 1898, coll. 264, 477; LI, ibid. 1898, col. 133; LII, ibid. 1898, coll. 121-122, 201; LVI, ibid. 1901, coll. 116, 118; LVIII, ibid. 1903, coll. 248, 257, 429; Libri commemoriali della Rep. di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 19033 pp. 97, 116; P. Aretino, Il primo libro delle lettere, Bari 1913, pp. 166, 242, 342; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni venez., Venezia 1842, III, p. 399; IV, p. 157; E. Lattes, La libertà delle banche a Venezia dal sec. XIII al XVII, Milano 1869, p. 98; F. Ferrara, Gli antichi banchi di Venezia, in Nuova Antol., febbr. 1871, pp. 436-438, 442, 446; H. F. Brown, The Venetian printing press, London 1891, p. 401; F.-C. Lane, Venetian Bankers 1496-1533, in Venice and History, Baltimore 1966, p. 71; F. Braudel - A. Tenenti, Michiel da Lezze..., in Festschrift F. Lütge, Stuttgart 1966, pp. 47-48, 51, 54-56.