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CANOBIO, Antonio

di Guglielmo Gorni - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)
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CANOBIO (Canobius, de Canobio), Antonio

Guglielmo Gorni

Fu figlio di Giacomo, funzionario di Filippo Maria Visconti, e di Polonia Ligurni, e fratello di Bartolomeo. Nacque a Milano sul principio del sec. XV, dato che nel dialogo De amore, che il C. scrisse nel 1433, è associato a una congrega di interlocutori "adulescentes".

Il nome del padre è specificato dall'Argelati, che incorre tuttavia in errore quando crede il C. nipote di Paolo, fondatore delle scuole "canobiane" di Milano, vissuto oltre un secolo dopo. Il nome della madre si ricava da un'orazione in morte di lei del domenicano Gioachino Castiglione (Arch. di Stato di Parma, ms. 90).

Nominato segretario del Consiglio segreto a partire dal 1º genn. 1466, con stipendio mensile di 32 fiorini, già al tempo della composizione del De amore il C.risultava tuttavia in servizio presso l'amministrazione viscontea; al suo "magistratus" allude del resto una lettera indirizzatagli il 5 ott. 1450 dal Filelfo (Epistolarum familiarium libri XXXVII, Venetiis 1502, c. 48). Scrisse un carme esametrico sull'impresa di Gerba, compiuta nel 1432 da Alfonso d'Aragona; e coltivò interessi per l'arte oratoria, come comprovano l'invio, da parte dell'umanista cremonese Cosimo Raimondi, esule ad Avignone, dell'opuscolo De laudibus eloquentiae, e uno scambio di lettere con Bernabò Carcano, esortato dal C. a coltivare gli studi di retorica.

Il C. morì a Milano nel settembre 1469.

L'opera più interessante del C. è l'inedito trattatello De onore, conservato dai manoscritti 100 della Municipale di Lione, cc. 198-203 e M. 44 sup. dell'Ambrosiana di Milano, appartenuto già al poeta Lancino Curti, alle cc. 216r-224v. Con lettera proemiale del settembre 1433, è dedicato a Simonino Ghilini, influente segretario visconteo, designato dal C. quale proprio "director, adiutor ac benefactor". Il breve opuscolo tratta di una disputa "non illepida nec infaceta quidem", sorta qualche giorno avanti tra Giacomo Becchetto, Luchino Toscano, Obizzo Castiglione e Giacomino Vicino mentre attendevano, secondo le loro mansioni di funzionari della cancelleria, che il Senato di Milano concludesse la sua seduta pomeridiana. Il tema della discussione, cui assisté anche il C. senza prendervi parte, è duplice: "se un uomo possa amare una donna a cui non ha mai rivolto parola; e se sia possibile innamorarsi e disamorarsi di una donna a proprio piacimento". Le ragioni e le personalità degli interlocutori sono vivacemente, anche se sommariamente, illustrate nel dialogo: all'ingenuo elogio d'amore pronunciato da Giacomino e alla baldanza del "rusticus" Obizzo, si contrappongono la dottrina filosofica di Luchino e la saggezza dell'umanista Giacomo Becchetto, fiero oppositore dell'"amor venereus"; sul discorso di quest'ultimo il dialogo si conclude. È notevole che il discorso di Luchino sull'eluttabilità d'amore contenga un'effusa digressione sull'amore del Petrarca per Laura, "matrona patavina": si tratta di una significativa testimonianza della fortuna del Petrarca volgare nell'ambiente umanistico e cancelleresco milanese, prima che il Filelfo si accingesse a comporre, a Milano, il commento alle rime petrarchesche.

Nella lettera di dedica il C. accenna a gravose incombenze che lo sottraggono all'"otium" prediletto, e prega il Ghilini d'accettare l'opuscolo "quemadmodum cetera mea soles". Non si ha tuttavia notizia d'altri scritti del C., tranne il poemetto per Alfonso d'Aragona. Il carme si compone di 160 esametri, ed è contenuto anepigrafo nel ms. Ambros. H. 49 inf., alle cc. 170v-173r (inc.: "Si michi sufficerent vires ad bella canenda"). A quanto attesta la lettera d'accompagnamento a Giacomo Peregrì, consigliere regio, premessa al testo poetico, fu scritto subito dopo i fatti narrati. Si tratta in complesso di un'opera assai mediocre; importa semmai rilevare che sul racconto epico prevale il gusto della digressione oratoria, ben evidente nel lungo discorso di Alfonso alle truppe. Il C. compose forse altri carmi in onore d'illustri capitani del tempo, se ben s'interpreta la prosa scritta di seguito al poemetto nel manoscritto. nella quale il C., rivolgendosi a un "ductor" che non può essere Alfonso, gli annuncia d'aver celebrato in versi unasua recente vittoriosa impresa: forse si tratta di Niccolò Piccinino, luogotenente ducale, cui il C. indirizzò anche una lettera (Bibl. Apost. Vat., Vat. lat. 8914).

La lettera a Bernabò Carcano, e la risposta di questo, sono nell'Ambros. H. 48 inf., cc. 109-110. L'Argelati informa dell'esistenza di tre lettere del C. al Carcano, irreperibili nelle sedi da lui dichiarate; così non si ha traccia di corrispondenza epistolare con il Panormita né nell'Ambros. H. 49 inf., contenente però lettere di Cambio Zambeccari, il cui nome forse provocò l'equivoco per C., né altrove. Una sua lettera senza data "Iohanni Francisco Mirandulensi" è nel manoscritto lionese del De amore; una Praepositio pro oblatione Porte Ticinensis, del 1455, è conservata nel codice Vat. lat. 6898della Bibl. Apost. Vat.

Fonti e Bibl.: Notizie documentate sul C. sono in Gli atti cancellereschi viscontei, I, Milano 1920, p. 167; e particolarmente in E. Lazzeroni, Il Consiglio segreto o Senato sforzesco, in Arti e mem. del III Congresso storico lombardo, Milano 1939, p. 151n.; C. Santoro, Gli uffici del dominio sforzesco (1450-1500), Milano 1948, p. 31. Degli scritti del C. diede notizia per primo F. Argelati, Bibl. scriptorum Mediol., 1, 2, Mediolani 1745, coll. 271 s., 297 s.; ma è importante soprattutto lo studio di F. Novati-G. Lafaye, L'anthologie d'un humaniste italien au XVe siècle, in Mélanges d'archéol. et d'hist., XII (1892), pp. 47 s., 62 ss. Il poemetto fu edito da G. Romano, G. Barzizza all'impresa di Gerba nel 1432e unpoemetto inedito di A. C. sullo stesso avvenimento, in Arch. stor. sicil., n.s., XVII (1892), pp. 1 ss.; si vedano in proposito V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1933, p. 245, e A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano s.d., p. 106. Utili indicazioni in M. E. Cosenza, Dictionary of the Italian Humanists, I, p. 220 (di cui però non si condivide l'identificazione del C. con l'omonimo indicato da R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma..., I, Roma 1902, p. 126). Non risultano comprovate le ipotesi sul C. di G. Mercati, Canobi o Mantelli? Mantelli o Martelli?, in La Rinascita, V (1942), pp. 235 s. Per i manoscritti si confronti infine P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, adIndices.

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