CACCIA, Antonio
Nacque a Milano l'8 sett. 1801 da Giuseppe e Maria Brambilla, entrambi benestanti. Di vivace intelligenza ma insofferente della rigida disciplina dei collegi del tempo, frequentò varie scuole: il collegio degli oblati ad Arona, il convitto della Cascina del Piede a Nerviano sull'Olona (dove conobbe M. Sartorio, che nel 1825 sposò una delle sue sorelle), le scuole di S. Alessandro tenute dai barnabiti a Milano. A causa di una poesia in cui metteva in ridicolo un insegnante e lanciava frecciate all'indirizzo dell'Austria, fu espulso da queste e da tutte le scuole dell'Impero; continuò allora gli studi privatamente, sotto la guida del barnabita p. Valdani. Nel 1818 si impiegò come alunno nell'ufficio postale di Milano; ma non essendo un'occupazione confacente al suo carattere, e inoltre mal sopportando di far parte della burocrazia austriaca, nel 1825 lasciò l'impiego.
Per qualche tempo il C. si dedicò al commercio assieme al fratello Angiolo; ben presto, arrestato per trasgressione alle leggi sulla detenzione di armi, dopo aver scontato a Saronno due mesi di prigione, durante i quali trovò modo di tentare la fuga, fu costretto a espatriare. Si recò in Svizzera, quindi in Francia e infine in Inghilterra, a Londra, dove nel 1829 sposò la figlia di Thomas Lamb, deputato al Parlamento inglese, Sabina. A Londra il giovane esule si trovava in buone condizioni economiche, perché la famiglia gli inviava una rendita; poté quindi permettersi di soccorrere gli altri esuli, e lo fece, allora e negli anni successivi, con molta generosità.
Un'amnistia gli permise di rientrare per breve tempo in Italia. Ben presto, tenuto d'occhio dalle autorità austriache, il C. dovette espatriare nuovamente e si recò in Svizzera; scacciato anche da quel paese in seguito a pressioni austriache (pare che egli propagandasse con vari scritti i principi democratici), si recò per qualche mese a Parigi e quindi a Londra; rimase in Inghilterra, vivendo a Londra e nel Galles, fino al 1837. In quell'anno si recò a Bruxelles, dove rimase per 15 mesi, e dove ritrovò vecchi amici, quali il Modena e il Gioberti e un esule polacco, il Lelewel. Assai numerosi, del resto, erano i patrioti e i letterati che il C. aveva conosciuto durante le sue peregrinazioni, e con cui aveva talvolta stretto amicizia; tra questi G. Montanelli, P. Giannone, G. La Farina, G. Rossetti, F. Buonarrotti, U. Foscolo.
Nel 1839 il C. tornò ancora in Italia, e sino al 1843 si spostò continuamente da una città all'altra, in Lombardia e Toscana, riuscendo a eludere la vigilanza della polizia austriaca e continuando incessantemente la sua attività di cospiratore e di patriota, soprattutto per mezzo della stampa. Dal 1844 visse per lo più a Firenze.
Nel 1848, scoppiata l'insurrezione delle Cinque giornate, si recò a Milano e dal Governo provvisorio venne inviato a Rocca d'Anfo, nel Tirolo, come commissario di guerra, funzione che egli esplicò con grande zelo. Dopo il disastro di Novara si rifugiò, come molti altri patrioti, a Torino; inviato a Roma, insieme con Lorenzo Valerio, con l'incarico (non ufficiale) di fare da tramite tra il governo piemontese e quello rivoluzionario, ripartì senza avere ottenuto nulla, ma pieno di ammirazione per la fermezza dei triumviri. Si recò quindi a Genova, poi sul lago d'Orta; infine nel 1855 tornò a Firenze, profondamente deluso della condotta del governo piemontese, amareggiato di dover riconoscere che, sebbene il governo di Toscana fosse straniero e filoaustriaco, a Firenze si viveva meglio che a Torino. Le sue convinzioni politiche erano comunque nettamente repubblicane.
Nel 1859, ammalato, non poté in alcun modo partecipare alla guerra e poté solo consentire alla partenza per il fronte dei suoi due figli, Mario e Fabio. Il raggiungimento dell'unità italiana non gli recò alcuna soddisfazione. Profondamente scettico circa la natura del nuovo Regno, critico nei riguardi della nuova classe dirigente, il C. preferì non partecipare alla vita pubblica, tirarsi in disparte e sfogare la propria delusione nei suoi scritti. In questi anni si consolidò l'amicizia con F. D. Guerrazzi.
La notizia degli avvenimenti di Mentana, in cui vedeva il trionfo dei corrotti e spregevoli notabili del nuovo Regno, lo addolorò e lo indignò fino alle lacrime, tanto da aggravare le sue condizioni di salute, già molto compromesse. Morì a Firenze il 10 nov. 1867. Nell'epigrafe che dettò, il Guerrazzi sottolineò come il C. avesse "patito per l'Italia".
I continui viaggi avevano fatto sì che si fosse impadronito perfettamente della lingua inglese e di quella francese. Dall'inglese tradusse (in modo molto libero, badando più allo spirito che alla lettera del testo) i primi due canti del Don Giovanni di Byron, che vennero pubblicati a Torino nel 1833, con prefazione di C. Correnti. La traduzione si fermò però a metà del canto IV. Scrisse inoltre, tra il 1827e il 1849, varie poesie, da luisuccessivamente raccolte sotto il titolo di Miscellanee.
Nel 1850pubblicò a Torino le Lamentazioni di un gesuita, che finge di aver tradotto da un carmen polimetro in latino di un gesuita di Lucerna; si tratta naturalmente di un artificio per condurre una polemica antigesuitica e anticlericale.
Dopo la Convenzione di settembre il C. scrisse il suo ultimo polimetro, intitolato Scherzo serio, contro il moderatismo e il servilismo dei "falsi" liberali. Lasciò inoltre due volumi, in cui aveva raccolto massime di uomini sapienti, osservazioni filologiche, appunti di lettura, raggruppati sotto titoli diversi - Lingua, Politica, Religione, Filosofia, Belle Arti -, che costituiscono il frutto degli studi compiuti nel corso di tutta la sua vita e che dopo la sua morte restarono inutilizzati, come inutilizzato dagli studiosi rimase il suo ricco epistolario.
Bibl.: G. Novelli, Biografia di A. C., Firenze 1867; M. Sartorio, Della vita e degli scritti di A. C. da Milano, Genova 1870;G. Barbera, Memorie di un editore, Firenze 1883, pp. 65 s.; Diz. del Risorg. naz., II, p. 457.