ALBERTI, Antonio
Figlio di Niccolò di lacopo e di Isabella; la data della sua nascita è incerta; il Passerini, seguito dal Wesselofsky, indica l'anno 1356 o il 1358, ma in un codicillo del padre (morto il 7 ag. 1377) esistente fra i protocolli di ser Goro Sergrifi (26 genn. 1375) si dice di lui che avrebbe compiuto i diciotto anni nel mese di luglio del 1381.
Certamente Isabella, madre di A., era già morta nel 1364, quando Niccolò sposò Maddalena di Lapo Bombeni, che morì, pare, nell'anno stesso, se nel 1365 egli è citato come sposo di Adola Altoviti: Niccolò avrebbe quindi avuto tre e non due mogli, come afferma il Passerini, corretto dal Pellegrini.
Favorito dalla sua condizione sociale, l'A. poté procurarsi una vasta cultura umanistica e fu poeta e matematico; le grandi ricchezze del padre, la sua bontà e rettitudine politica attirarono attorno al figlio il generale favore dei Fiorentini. Di questa benevolenza fu un segno il fatto che il popoìo minuto lo armasse cavaliere nella giornata del 20 luglio 1378, facendo uso della conquistata sovranità. In quei giorni, l'A. era un fedele seguace del biscugino Benedetto di Nerozzo Alberti, e lo seguì nella reazione al governo dei Ciompi. Nel marzo-aprile 1382 fu, insieme con lui, eletto a far parte della Balia che annullò le concessioni già fatte ai Ciompi, e non esitò a ricorrere alle armi, unendosi ai suoi consorti, per soffocare la rivolta popolare. Nel settembre 1383, insieme con altri banchieri fiorentini, si fece garante della osservanza della pace di Torino da parte della Repubblica veneta. Fu priore di Libertà nel 1384, quando andava maturando la vittoria degli Albizzi nel contrasto politico con gli Alberti, già sostenitori dei Ricci ed ora loro continuatori nella rivalità con quelli. Da questa lotta rimase lontano, in un primo tempo, il ramo degli Alberti discendenti da Niccolò, e quindi anche Antonio, perché Maso degli Albizzi non osava attaccare apertamente il figlio di quell'uomo così universalmente amato dal popoìo; ma a poco a poco egli fu coinvolto nelle condanne che già nel 1378 cominciavano a colpire Benedetto e Cipriano. Nel 1389 fu tra i consoli della Zecca, ed usò come marchio dei formi d'oro un giglio. Fu questo anche l'anno del suo matrimonio (20 giugno) con Bartolomea degli Obizzi, dalla quale ebbe i figli Brigida, Bionda, Francesco e Maria.
Memore delle virtù e dello spirito di pietà del padre, l'A. contribuì con i fratelli alla donazione di due case alle monache gesuate (1393) e volle fondare in Firenze un monastero di brigidini, con permesso del papa Bonifazio IX del 26 genn. 1392. Nel 1395 il convento era consegnato a fra' Manno di Svezia, ricevente per l'Ordine, insieme con i beni dotali, costituiti dalle terre dell'A. poste nei distretti di Empoli e Monteluco. Si oppose a questa iniziativa il vescovo di Firenze, Onofrio, ostile alla regola brigidina che prescriveva la convivenza di frati e di monache nello Stesso convento, per cui l'A. chiese al papa di poter donare l'edificio ai camaldolesi o agli olivetani. Ma i brigidini ottennero dalla Repubblica la convalida della precedente donazione (3 dic. 1397), restando nel convento a dispetto del donatore. Approfittando della temporanea evacuazione dell'edificio da parte dei frati per la minacciata invasione di Gian Galeazzo Visconti, l'A. ne fece demolire una parte per renderlo inabitabile. Ma, dopo la sua condanna all'esilio (1401), i frati ritornarono nel monastero.
Già quando, nell'ottobre del 1393, l'A. faceva parte dei Dodici Buonomini, fu condannato al confino in Rodi Cipriano Alberti da una Balia che escluse dalle cariche pubbliche tutti gli altri della famiglia, pur facendo eccezione, per opportunità politica, a favore di Antonio; agli Alberti del ramo di Niccolò, tuttavia, non vennero affidati se non uffici ai quali si era eletti per sorteggio. Nel 1400 l'A. era dei Gonfalonieri delle compagnie quando fu scoperta, o si finse di aver scoperto, una congiura ordita dai fuorusciti a Bologna contro Maso degli Albizzi. Nuove proscrizioni colpirono altri membri della famiglia Alberti, ma non si osò colpire Antonio. Pochi giorni dopo, però, a un frate camaldolese accusato di connivenza con gli sbanditi, fu strappata con la tortura una confessione relativa a una presunta partecipazione dell'A. alla congiura.
Poiché era ancora in carica, egli non poté essere arrestato che alla fine del suo mandato. Tra i tormenti confessò quello che si volle da lui, pur essendosi protestato innocente poco prima, e, tra l'altro, riconobbe di aver tramato a favore di Gian Galeazzo Visconti. Questa confessione gli avrebbe procurato la morte se non fosse stata vietata dagli Statuti la condanna capitale di un magistrato condotto in giudizio prima che scadesse un mese dal termine dell'ufficio "maggiore" da lui ricoperto, come nel caso dell'A. Si evitò l'ostacolo condannandolo, il 14 genn. 1401, a pagare tremila formi d'oro entro il 25 successivo o seimila entro il Io febbraio, pena la morte. In quel giorno, infatti, scadeva il termine entro cui era impossibile la condanna capitale. Quando poi avesse pagato la forte multa, l'A. avrebbe dovuto recarsi in esilio per trent'anni a non meno di trecento miglia da Firenze. Pene più o meno gravi completarono la rovina degli Alberti, moralmente ed economicamente. Nell'infierire delle ulteriori persecuzioni l'A. fu accusato di aver rotto il confino, per essersi stabilito a Bologna, dove aveva cominciato ad insegnare algebra nello Studio. Esasperato dagli ingiusti provvedimenti presi ripetutamente a suo carico, si accostò deliberatamente ai congiurati, prendendo parte ai rinnovati tentativi di costoro, e fu ribandito nel 1411 e nel 1412; la sua testa fu messa a prezzo per duemila formi d'oro. Il 10 sett. 1415 l'A. però moriva ed era sepolto onorevolmente nella chiesa dei serviti a Bologna; la lapide sepolcrale fu distrutta in occasione di alcuni restauri fatti alla chiesa nel 1890. La sua innocenza, come quella degli altri membri della famiglia, fu riconosciuta dalla Repubblica nell'ottobre del 1428, nel corso della reazione contro la politica di Maso degli Albizzi.
A. fu poeta seguace di Fazio degli Uberti e del Petrarca; Leon Battista Alberti gli attribuisce una Historia illustrium virorum e le Contenzioni amatone, ossia l'insieme delle composizioni poetiche poi pubblicate dal Bonucci (Firenze 1865), dall'Andreis (Rovereto 1865) e dal Flamini (Pisa 1895); la Crusca ne ammise le rime fra i testi di lingua, ed il Crescimbeni ne lodò lo stile. Nel romanzo anonimo intitolato Il paradiso degli Alberti, poi attribuito dal Wesselofsky a Giovanni Gherardi da Prato, si descrivono le dispute di filosofia, di storia, di politica tenute nella villa presso il monastero dei brigidini. Gli amici dell'A. vi si riunivano per ascoltare l'organista cieco Francesco Landini, il matematico Biagio Pelacani, il tomista Pievano dell'Antella, partecipando alle discussioni animate dalla presenza di Coluccio Salutati.
Bibl.: L'elenco delle opere con bibliografia è in F. S. Zambini, Le opere volgari a stampa dei secc. XIII-XIV, Bologna 1884, coll. 15-16, 476 e 825; per le adunanze nella villa del "Paradiso", v. Il Paradiso degli Alberti. Ritrovi e ragionamenti del 1389, romanzo di Giovanni da Prato, a cura di A. Wesselofsky, Bologna p. 867, voll. 3; L. B. Alberti, I primi tre libri della famiglia, a cura di F. C. Pellegrini, Firenze 1911, pp. LXX-LXXII e passim, con relativa bibliografia; per le fonti cronistiche e documentarie: L. Passerini, Gli Alberti di Firenze, I, Firenze 1870, pp. 26-40 e 80-87, tav. I, che è corretto in alcune affermazioni dal citato Pellegrini. Sulle opere di A. si veda F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa 1891, pp. 264, 389-392, 458-459; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1938, pp. 20, 196; N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1942, p. 492; e sull'ambiente umanistico fiorentino cfr. A. Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Firenze 1902, in particolare le I, p. 174-176, 180, 182-184.