VOTTO, Antonino
– Nacque a Piacenza il 30 ottobre 1896 (il 31, stando all’autobiografia: Antonino Votto, 1999, p. 29), figlio primogenito di Leucio Salvatore, nato a San Salvatore Telesino, e della napoletana Antonia Penna.
Ebbe quattro fratelli, Roberto, Angela, Maria, Pariso (Padova, 17 maggio 1898-Firenze, 11 marzo 1965, cantante, dal 1928 segretario della neonata Stabile orchestrale fiorentina e poi sovrintendente del Maggio Musicale). Sposato con Lina Bordon, vedova Cleva (morta a Milano il 3 marzo 1980), non ebbe figli, ma Votto considerò tale Emilio Cleva, il figlio che Lina aveva avuto dal precedente matrimonio.
La famiglia seguiva i trasferimenti del reggimento Savoia Cavalleria di cui il padre di Votto era sottoufficiale armaiolo e a Firenze Votto fu avviato allo studio del pianoforte. Ammesso al conservatorio di Napoli, la città della madre, nella classe di Alessandro Longo, per l’anno scolastico 1905-06, ebbe come altri insegnanti Daniele Napoletano per l’armonia e Camillo De Nardis per la composizione. Diplomatosi nel 1915 con il massimo dei voti, fu richiamato in guerra. Iniziò quindi la carriera concertistica alla Società del Quartetto di Napoli e all’Accademia di S. Cecilia dove tenne un recital il 14 febbraio 1919. Desideroso di allargare i propri orizzonti, trovò attraverso Casa Ricordi un ingaggio come maestro sostituito al Politeama Rossetti di Trieste, nella cui compagnia di canto conobbe la futura moglie. Contemporaneamente gli venne offerta la cattedra di pianoforte nel conservatorio triestino ed entrò nel Quintetto (già Quartetto) Triestino capeggiato dal violinista Augusto Jankovič. Come maestro sostituto lavorò anche al teatro Verdi, dove all’inizio del 1920 fece il suo debutto sul podio in una matinée di Pagliacci. Conosciutovi il direttore Héctor Panizza, lo seguì come maestro sostituto nella tournée del 1921 al Colón di Buenos Aires, da cui si sviluppò un ulteriore tour con Votto direttore titolare a Rosario, Tucumán, Córdoba, Santa Fe e Paraná.
Al ritorno in Italia, alla fine del 1921, segnalato da Panizza, venne scelto come maestro sostituto da Arturo Toscanini alla Scala. Quegli anni, fino al 1929, in cui Toscanini guidò il teatro milanese, furono decisivi per la scelta di Votto di darsi definitivamente alla direzione, anche se lui si sarebbe ancora, talvolta, esibito come pianista, come per esempio nel Concerto BWV 1052 di Johann Sebastian Bach suonato a Milano nel 1944. Alla Scala fu maestro di palcoscenico e preparatore del cast nelle prove di sala, spesso subentrando dopo le prime recite ai direttori di cartello (Toscanini, Panizza, Gabriele Santini, Vittorio Gui), a partire da una Manon Lescaut pucciniana con Gilda Dalla Rizza e Aureliano Pertile che il 23 dicembre 1923 rilevò da Toscanini, e risultando per la prima volta direttore titolare nel marzo del 1927 per un balletto: Petruška di Igor′ Stravinskij. Lavorò con Toscanini alle prime di Dèbora e Jaéle (1922) e Fra Gherardo (1928) di Ildebrando Pizzetti, La cena delle beffe (1924) e Il Re (1929) di Umberto Giordano, Turandot di Giacomo Puccini (1926), I cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai (1925) e Nerone di Arrigo Boito (1924), in cui sedeva all’organo e al pianoforte (nella ripresa del 1928, dopo le prime recite, Toscanini gli lasciò la bacchetta). Nell’estate del 1928 diresse Nerone al castello di Udine, nel settembre tornò per Turandot al Rossetti di Trieste, nella stagione 1928-29 diresse i complessi della Scala in una tournée a Budapest.
Quando Toscanini lasciò l’Italia al principio degli anni Trenta, la reputazione di Votto direttore era oramai consolidata: fu al Covent Garden nel 1924, 1925 e 1933; al Liceu di Barcellona (L’amore dei tre re di Italo Montemezzi, 1930); in Olanda dal 1934 al 1937 per un tour operistico a Rotterdam, Utrecht, Leida, Amsterdam e Delft, e per concerti sinfonici con la rinomata Residentie Orkest dell’Aja; al Deutsches Theater di Praga, dove fu direttore principale per il repertorio italiano dal 1932 al 1936; a Ginevra, dove nel 1936 diresse un Falstaff verdiano con il baritono Mariano Stabile; nel 1939 al Cairo e ad Alessandria d’Egitto. In Italia negli anni Trenta diresse in teatri e sale che avrebbe continuato a frequentare per tutta la sua carriera: Rossetti e Verdi a Trieste, Opera di Roma, Fenice di Venezia (fu lui a inaugurare la prima edizione della Biennale con il concerto sinfonico del 7 settembre 1930, con lavori di William Walton, Gabriele Bianchi, Sergej Prokof′ev, Leone Sinigaglia, Antonio Veretti e Manuel de Falla), Comunale di Firenze e Maggio musicale fiorentino (da ricordare almeno al Maggio del 1956 un lodato Don Carlo verdiano), Arena di Verona, Regio di Parma, Massimo di Palermo, Casinò di Sanremo; orchestre EIAR (poi RAI) di Milano, Torino e Roma. Tornò alla Scala nel 1941 per Fra Gherardo e nello stesso anno, nel Conservatorio di Milano, divenne titolare della prima cattedra di direzione d’orchestra istituita in Italia: nel dopoguerra ebbe per allievi anche Claudio Abbado e Riccardo Muti. Per la sua classe stese una dispensa pubblicata postuma, Il direttore d’orchestra: consigli per i giovani che aspirano alla direzione d’orchestra (in Antonino Votto, 1999, pp. 117-135).
Nel dopoguerra gli ingaggi arrivarono anche dall’Opera di Lisbona (dal 1947 al 1952: diresse anche Orfeo ed Euridice di Christoph Gluck e Assassinio nella cattedrale di Pizzetti), dalla Wiener Staatsoper (si ricordano almeno Les contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach nel 1957) e dall’America, sempre con cast importanti, al Municipal di Rio de Janeiro e al Colón di Buenos Aires per la stagione 1950-51, e nell’autunno del 1960 e del 1961 all’Opera di Chicago; qui, inoltre, nel 1960, fu sul podio dell’orchestra sinfonica di Chicago per sostituire in due programmi il direttore principale Fritz Reiner, ammalato.
Il fulcro della sua attività era alla Scala. Votto fu uno dei direttori di punta dell’epoca segnata da registi di spicco come Luchino Visconti e Herbert Graf e dall’astro di Maria Callas, da lui già diretta fin da Turandot all’Arena di Verona nel 1948: con lei realizzò La vestale di Gaspare Spontini, Norma di Vincenzo Bellini e Poliuto di Gaetano Donizetti per le inaugurazioni scaligere del 1954, 1955 e 1960. Diresse sette serate inaugurali del 7 dicembre, ossia, oltre le già citate con la Callas, Aida di Giuseppe Verdi nel 1956, Turandot nel 1958, Otello di Verdi nel 1959 ed Ernani di Verdi nel 1969. Gravi problemi alla vista lo costrinsero a sospendere la carriera, che si chiuse con I puritani belliniani al Massimo di Palermo nel marzo del 1973.
Morì a Milano il 10 settembre 1985.
All’epoca del suo esordio non esisteva in Italia un percorso accademico per la direzione d’orchestra e il mestiere s’imparava sul campo, in un iter iniziato in orchestra oppure da maestri sostituti, come fecero Toscanini, Tullio Serafin, Antonio Guarnieri, Franco Ferrara. Raccogliendo una tradizione cui restò beninteso legato anche Votto, in questa visione ‘artigianale’ fu l’orgoglioso e dichiarato apprendista di Toscanini e continuatore del suo magistero, per quelle doti di vigore e nitidezza che la critica gli riconobbe fin dalle prime prove. Ma la sua carriera, costruita sulla base di solidi saperi musicali, si nutrì di una visione insieme rigorosa e pratica circa le esigenze della concertazione prima che della direzione, elaborata fin dagli esordi, e messa a fuoco durante gli anni con Toscanini. Ciò che Muti, nella propria autobiografia (Prima la musica, poi le parole, Milano 2012), definisce «la regola ferrea di Antonino Votto», ossia la spontaneità del braccio frutto della lucida organizzazione interiore della materia musicale nella sua toscaniniana «oggettività» (p. 47), si basava su un’elevata e rapida capacità di acquisizione della partitura e messa a fuoco dei suoi punti più problematici (il numero davvero cospicuo di lavori da lui diretti comprova a usura il possesso di tali abilità), donde la buona e razionale gestione delle prove, associata alla capacità d’istruire in prima persona i cantanti al pianoforte.
Predicò agli allievi un efficace ma controllato codice gestuale, preciso, alieno da divismi direttoriali (a tal riguardo le osservazioni nei Consigli sono spesso assai gustose). Operò infatti senza divismo ma con autorevolezza, nei rapporti con le orchestre, con i grandi solisti, con complessi e compagnie, di prima sfera e no, estendendo la sua alacre attività dalla Staatsoper di Vienna al Politeama di Lecce in base a quel detto (che la tradizione attribuisce a vari direttori, tra cui Toscanini) per cui non esisterebbero cattive orchestre ma cattivi direttori.
Praticò un vastissimo ed esteso repertorio operistico e sinfonico (da Wolfgang Amadè Mozart a Maurice Ravel e Stravinskij, con una salda centralità verdiana per ciò che riguarda il melodramma, ma all’occasione anche Wagner), punteggiato di radicate passioni – Giuseppe Martucci, Modest Musorgskij, Falla, Ravel, La Gioconda di Amilcare Ponchielli, Falstaff – e ampliato fin dai primi anni all’apostolato della cosiddetta generazione dell’Ottanta e dei propri contemporanei (fra cui Mario Castelnuovo-Tedesco, Felice Lattuada, Sinigaglia, Arrigo Pedrollo, Giulio Cesare Paribeni, Veretti, Riccardo Pick-Mangiagalli, Gino Gorini, Gianandrea Gavazzeni), e ai recuperi pre-filologici di musica ‘antica’ tentati in quell’epoca, da Antonio Vivaldi alla bachiana Cantata del caffè al Combattimento di Claudio Monteverdi (Venezia 1932). Alle prime assolute da lui firmate, Cagliostro di Pizzetti in forma scenica, L’ipocrita felice di Giorgio Federico Ghedini (entrambe date alla Scala, 1953), va aggiunto un numero rilevante di prime riprese italiane o scaligere o romane quali La vida breve di Falla (prima italiana, Scala, 1934), Arlecchino di Ferruccio Busoni (prima romana, Opera, 1942), La fiera di Soročincy di Musorgskij (prima italiana, Scala, 1942), Leonora 40/45 di Rolf Liebermann (prima italiana, Scala, 1953), Boris Godunov di Musorgskij, prima italiana nell’orchestrazione originale (Scala, 1956).
Fonti e Bibl.: G. Graziosi, V., A., in Enciclopedia dello spettacolo, IX, Roma 1962, pp. 1787 s.; V., A., in Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti. Le biografie, VIII, Torino 1988, p. 328; C. Marinelli Roscioni, Le otto stagioni di Toscanini alla Scala, 1921-1929, Roma 1993, ad ind.; A. V., Milano 1999; A. V.. Atti del Convegno internazionale di studi, Milano... 2019, a cura di D. Agiman - C. Toscani - G. Manca, in corso di pubblicazione.