COLLURAFI, Antonino
Figlio di Sebastiano, nacque nel 1585 a Librizzi, minuscolo centro della sottointendenza di Patti (prov. Messina), in una famiglia - quella dei Collura, il cui cognome si trasformò successivamente in Collurafi "per vezzo", come spiega un biografo ottocentesco del C. (vedi anche G. Galluppi, Nobiliario... di Messina, Napoli 1877, pp. 213, 233) - dalle modestissime condizioni, al punto da precludergli i primi rudimenti dell'istruzione. Una fortuna per il C. essere assunto al servizio del curato del luogo, ché questi - commosso dalla smania d'apprendere del fanciullo - non si limitò ad insegnargli a leggere e a scrivere, ma lo collocò in una scuola pubblica e, ammirato dei suoi rapidi progressi, lo destinò alla carriera ecclesiastica. Sì che il C., da lui favorito nel testamento, ebbe agio di proseguire - anche dopo la sua morte - gli studi nel seminario di Patti, dove si precisarono i suoi interessi per la teologia e la filosofia allargandosi, nel contempo, alle letterature antiche e moderne e alla storia sacra e profana. Conseguiti gli ordini minori, preferisce, fiducioso nel suo bagaglio culturale, cercare una sistemazione altrove. Imbarcatosi a Messina alla volta di Venezia, qui si afferma come precettore privato; e gli unanimi consensi ottenuti in ambienti aristocratici si riflettono nell'affidamento, da parte del Senato, dell'insegnamento di retorica nella scuola pubblica e nell'ulteriore apprezzamento dell'ascrizione tra i cavalieri di S. Marco stabilita con un diploma che suona roboante riconoscimento dei suoi meriti. A valorizzarli provvedono pure i suoi amici e allievi da Pietro Michiel a Vittore Contarini, da Ferrante Pallavicino - che colloca "sotto l'ombra" del suo nome la pubblicazione delle sue Varie compositioni (Venetia 1639) - a Giovan Francesco Loredan, le cui "compositioni" cosi "ripiene... di figure e di tropi retorici" risentono, a detta di Brunacci, dei frutti dell'insegnamento di Collurafi. Memore di questo, Loredan, oltre a lodarlo nell'epistolario, gli dedica il Cicerone dolente e uno dei suoi Scherzi geniali.
Pure il C., d'altronde, è presente nell'affollato palcoscenico della pubblicistica veneziana. Esordisce con uno smilzo e riassuntivo manualetto, la Perspicua totius dicendi artis... explicatio (Venetiis 1619), ove, in tre "libelli" (il primo introduttivo e definitorio, il secondo dedicato alla "dispositio", il terzo alla "elocutio"), s'ingegna - con la scorta dell'elaborazione aristotelica e ciceroniana - d'esporre chiaramente e ordinatamente "quidquid ad perfectum spectat oratorem". Unisce la sua voce al coro osannante - non senza grottesche esagerazioni - l'affetto, che tanto scalpore suscitò a Venezia e fuori, tra i patrizi Nicolò Barbarigo e Marco Trevisan con un Panegirico (Venetia 1626), che sarà più volte ristampato (oltre che nelle due edizioni dell'epistolario del C., nelle miscellanee L'amicitia incomparabile... celebrata... da molti... ingegni..., Venetia 1627, pp. 78-98 e I preludi delle glorie..., a cura di F. Pona, Venetia 1630, pp. 240-251).
L'autore è stupefatto che un vincolo saldissimo unisca il primo "di ricchezze non men che di virtù dovitiosissimo" al secondo "confinato tra le angustie della povertà". Ne scaturisce - fatto sbalorditivo per il C., che già aveva asserita l'impossibilità di un'autentira amicizia laddove sussista disparità patrimoniale - la miracolosa fusione tra un'"insolita benignità" ed un "inusitato riconoscimento" Barbarigo "partecipò la sorte" a Trevisan, questi gli consacrò la "vita". Una amicizia esemplare, vanto del patriziato, gloria di Venezia tutta, sulla quale il C. torna a discettare nella Lettera... in risposta al signor Girolamo Gambarozzi (s. l. né d., datata, comunque, 21 marzo 1629; e verrà ristampata nei Preludi... allestiti da Pona, alle pp. 233-239), dichiarandola superiore di gran lunga a quelle di "Theseo e Piritoo, di Pilade ed Oreste, di Pittia e Damone". Altro suo scrittarello celebrativo di poco conto La patienza dell'ill. ... Alvise Donato (Venetia 1626), seguito ben presto da una silloge di Lettere (Venetia 1627 e, in "seconda impressione", 1629, ove però non compare il manipolo di lettere pubblicate a Venezia nel 1628 quale "parte seconda" rispetto alla raccolta del 1627), ove il C. offre saggio della sua qualità di corrispondente capace d'esprimere "augurio", "biasimo", "complimento", "condoglienza", "consiglio", "consolatione", "essortatione", "lamento", "ringratiamento", "risentimento", "giustificatione", "offerta", "raccomandatione", "raguaglio", "scusa" e, pure, di rispondere a missive di siffatto tipo.
Più significativo il precedente Il nobile veneto (Venetia 1623), dedicato a quattro giovinetti suoi allievi, i fratelli Giovanni, Vettor, Marco e Giacomo Donà. "Bramoso della vostra riuscita, vi rappresento il vostro ritratto, acciò, mirandolo non facciate cosa indegna della vostra bellezza ed operiate conforme al vostro natale", dichiara l'autore impegnato ad "esprimere - pur nell'"angustia" dell'"ingegno" - la "grande immagine" dell'aristocrazia veneziana.
Confeziona uno stereotipo sbiadito, un concentrato generico di capacità e virtù: il nobile dev'essere colto, eloquente, poliglotta, in grado di trarre frutto dalla "grande lettione de' poeti" senza, peraltro, indulgere a verseggiare; conosca, altresì, a fondo le "historie", sia spruzzato di nozioni matematiche, belliche, filosofiche. Viaggiando sperimenti la varietà degli usi e dei costumi. Sia prudente, giusto, forte, temperante, bello, castigato, frugale. Un ritratto di maniera, dunque, poco inciso, poco individualizzato. Ma degno, peraltro, d'attenzione. Se tale è il dover essere proposto al patriziato, vuol dire che è ormai finita la tensione ideologica dell'interdetto, che è ormai svanito pure quel complesso spessore conferito alla milizia politica dalla tardo-rinascimentale meditazione parutiana. In effetti il trattatello del C. - che, pedagogo in voga, si preoccupa di scrivere ciò che il patriziato vuol leggere - non è riducibile a mera espressione personale: è rappresentativo d'un vistoso scadimento ideale, è sintomo di un appannamento d'identità, d'una perdita di mordente. La genericità del ritratto prodotto dal collage di citazioni tratte da autori antichi e moderni attesta lo stingersi della memoria storica, la rimozione della sua peculiarità, la obliterazione dei suoi momenti antagonistici. Trapelano, inoltre, tra le righe, involontariamente, dati di costume. Severissimo il C. col gioco, specie la "bassetta"; ma ciò prova la sua diffusione. Per essere eletto alle varie magistrature il nobile sappia "cattivare il senso e gli animi degli huomini"; ma la carriera richiede altresì una duttile capacità d'adesione alla molteplicità degli umori e dei caratteri e l'accettazione della prassi dell'"ambito o broglio", la quale "non ad altro che all'arte dell'uccellare par si rassomigli". Sintomatico anche questo: dietro la solenne professione di moralità la furbesca strizzata d'occhio. La liceità poi, peraltro subordinata al fatto non divengano assorbenti, dei "traffici" e delle "mercatantie" suona quasi come concessione indulgente; non c'è più l'orgoglio mercantile d'un tempo. Il vero nobile - a detta del C. - deve contare soprattutto su di una cospicua rendita fondiaria. Destinato, alla politica è il giovane patrizio; donde la preoccupazione del C. non lo tenti la poesia (lo ribadisce in una lettera a Loredan, ove proclama "lodevole" l'anteporre "eloquenza", abbisognando la Repubblica d'"oratori", non di "poeti"), la insistenza sua su di una preparazione estesa, ma insieme sorda ad esigenze d'approfondimento. Ed un'introduzione alla politica è offerta dall'accademia; non a caso il C. è "fondatore e rettore" di quella degli Informi, istituita nel 1627 (in casa d'un suo allievo, il quindicenne Alvise da Mosto, il quale tiene l'Oratione inaugurale, pubblicata nello stesso anno, e, di lì a poco, declamerà contro il suicidio di Catone l'Uticense). Proficuo addestramento alla vita pubblica secondo il C. sono le sedute dell'accademia, la cui impresa consisteva in un'orsa lambente degli orsacchiotti incoraggiati dal motto Dum mobilis aetas.
E forse temi e problemi dibattuti dagli Informi confluiscono ne L'idea del gentilhuomo di republica nel governo politico, ethico ed economico overo il nobile veneto (Venetia 1633), trattato in due parti, la prima semplice ristampa dello scritto del 1623 con dedica, comunque, alla Repubblica quasi a sottolinearne il carattere ufficioso, la seconda dedicata al discepolo Alvise da Mosto, con pretese di novità e approfondimento.
Lo "stile", che, a detta dell'autore, "ha più del sollevato e del metaforico della prima", mira ad accostarla al delicato "palato de' dotti", accarezzati anche con una più variopinta esibizione di citazioni. Sviluppati e sviscerati argomenti omessi nella prima: "la necessità del matrimonio" per il nobile col presupposto e corollario insieme che, "essendo più figliuoli in una casa", la possibilità delle nozze favorisca i "più eccellenti di virtù" e i "più alti d'intelletto"; "l'età più idonea" al connubio; le "prerogative" auspicabili nella consorte; il "tempo" e i "riguardi" acconci alla "procreatione" (capitolo che offre il destro al C. d'esprimere le sue opinioni in fatto di sessualità: sconsiglia il "continuato uso" dei rapporti, convinto che i "diletti di Venere" sono "tanto più grati quanto più rari" e subordinati, ovunque e comunque, alla riproduzione); i "precetti" regolatori della "vita" coniugale, primo fra tutti il rispetto reciproco; le "leggi" costitutive la "moglie dei nobile", vale a dire castità, fedeltà, modestia, obbedienza, sollecitudine; la "nudrice del nobile", a proposito della quale il C. - che, peraltro, perora l'allattamento materno - insiste per una scelta accuratissima condannando severamente quei genitori sconsiderati i quali affidano "la nobiltà e l'innocenza" del neonato al deturpante contatto d'una balia dall'"animo contaminato e vilissimo". Particolare attenzione va pure dedicata al "maestro" e alla "scuola"; e a questo punto il C., non dimentico della sua professione, mescola serietà e rivendicazione corporativa ché riserba arcigni rimbrotti a quanti, per risparmiare, ricorrono all'improvvisato "indottrinamento d'insufficiente maestro", acquistando, "a poco, ma pernicioso prezzo, l'ignoranza". L'allievo - asserisce - deve amare e rispettare il "precettore" (questi sia, beninteso, onestissimo, timorato di Dio, di "dottrina soda" e sperimentata), anzi "tenerlo come principe... riverirlo come padre non del corpo, ma dell'anima". Ultimo argomento gli "studi" del nobile, le "ricreationi", il "tempo" per indossare la "toga". Ne sbuca fuori non già il patrizio veneziano che a suo tempo era parso così tipico e diverso rispetto agli altri, ma un personaggio tranquillamente collocabile nella omologante pinacoteca della nobiltà neofeudale. Il C. riveste ideologicamente una trasformazione della fisionomia aristocratica ormai in fase avanzata e irreversibile: volgendosi dal mare alla terra il nobile veneziano s'è modificato, ormai, nella psicologia e nel comportamento.
Autore de I trionfi della virtù... (Venetia 1631) in occasione della "coronatione" del doge Francesco Erizzo, non per questo il C. si sente inibito ad osannanti avances nei confronti di principi e sovrani. Il suo acclimatamento lagunare è privo di intransigenze repubblicane. Ed indirizza all'imperatore L'aquila coronata overo la felicità sospirata dall'universo, alla maestà sempre augusta di.. Ferdinando III..., (Venetia 1637). in cui scusa l'inadeguatezza dell'esaltazione col fatto che, "essendo figlio del chaos delle meraviglie delle vostre imprese, non poteva non confondermi". Esibizione di "divotione" e d'"amore" che gli valse il titolo di conte palatino irrobustito dal dono dell'effigie imperiale incastonata tra dodici gemme. E si chiede, ove la letteratura si risolve in panegirico, a che pro rimanere a Venezia; e se non sia più munifica la corona regia. Di buon grado l'ideologo del gentiluomo veneziano lascia la sponda repubblicana per sistemarsi in monarchici lidi. Tornato in Sicilia, il C. si stabilisce a Palermo: nominato da Filippo IV "cronografo regio" e forte pure della nomina - di per sé riservata ai soli canonici - a cantore della cappella di S. Pietro di quel palazzo reale, il C. è accolto con rispetto dall'intellettualità locale facente capo alla Accademia dei Riaccesi. Agevolmente il mentore dell'aristocrazia veneziana assume le vesti dell'apologeta del re cattolico, senza sforzo il celebratore della Repubblica diventa un accreditato panegirista della maestà regia.
Primo frutto (nel quale, particolare curioso, cita, non si sa sino a che punto ingenuamente, De' discorsi politici e militari... usciti a Venezia nel 1630 sotto il nome d'Amadio Niecolucci, che altro non sono che quelli di Machiavelli) di siffatto mutamento una replica ad uno scritto di propaganda francese: trattasi, appunto, de I disinganni politici. Risposta a "I felici progressi dell'armi del re Christianissimo nelle provincie di Spagna, Fiandra, Borgogna ed Alsatia..."(Palermo1641), ove il C. sostiene che i cosiddetti successi francesi sono, in realtà, ridicoli "progressi del granchio". Segue L'occhio sopra lo scettro, o vero la prudenza regia delineata nell'idea della maestà del re... Filippo IV... (Madrid 1643). che esce, pure, contemporaneamente, in versione spagnola. Più tarda la narrazione de Il racquisto di Porto Longone e di Piombino fatto dall'arme... di Filippo IV... (Palermo 1650), cui s'aggiunge quella più impegnativa e diffusa de Le tumultuationi della plebe in Palermo (Palermo 1651).
È quest'ultima l'opera più importante del C., tuttora fonte da utilizzare per lo studio della rivolta. Pur improntata da faziosità antipopolare, resta, infatti, una versione minuziosa e sin meticolosa che insegue dettagliatamente lo scontento plebeo dai primi ribollimenti agli ultimi rantolanti sussulti del 1650, quando un certo Sirleti s'ingegna - pur di ridestarlo vigoroso - d'evocare, con arti magiche, "comete, fuochi e huomini armati a cavallo", accompagnati da "fremiti e urli strani". Spera, così, di rianimare i "seditiosi", di atterrire i "contenti del stato presente". È il C. ad affermare che Giuseppe Alessi, che egli giudica d'animo poco saldo, sarebbe stato estratto a sorte quale capo; la sua congenita moderazione s'evidenzia appieno nell'inchino rispettoso sottolineato dal C. - dinanzi alla statua di Carlo V. Né l'ottica aristocratica che ispira il racconto del C. gli impedisce di riferire come i nobili, scatenati in una sanguinaria caccia all'uomo, abbiano violato la immunità delle chiese. Forse anche per questo lo scritto risultò sgradito alle autorità infastidite sin dal titolo che, senza perifrasi, seccamente fissava la città nell'inquietante momento della sua turbolenta sollevazione.
A questo punto mancano ulteriori notizie sul Collurafi. Si sa che morì a Palermo il 27 maggio 1655.
Fonti e Bibl.: A. da Mosto, L'accademia. Orazione nell'aprirsi... degl'Informi..., Venetia 1627; Id., Declamatione contro la morte di Catone... nell'acc. ... rettore A. C., Venetia 1627; P. A. Spera, De nobilitate professorum grammaticae et humanitatis..., Neapoli 1644, p. 150; F. Mugnos, Teatro genealogico delle famiglie... di Sicilia..., I, Palermo 1647, p. 283; Le glorie degli incogniti..., Venetia 1647, p. 246; il C.figura nell'Indice de' letterati che... hanno nominato l'autore all'inizio di G. F. Loredan, Opere, I, Venetia 1653; Id., Opere, I, Venetia 1663, pp. 48-64; tre lett. del C. in Id., Delle lettere... parte prima, Venezia 1716, pp. 246, 284-285, 333; A. Santacroce, La secretaria d'Apollo..., Venetia 1654, pp. 165-166; G. Gualdo Priorato, Scena d'huomini ill. ..., Venezia 1659, pp. non num., ad vocem G. F. Loredan; G. Brunacci, Vita di G. F. Loredano..., Venetia 1662, pp. 17-18; A. Lupis, Vita di G. F. Loredano..., Venetia 1663, Diari... di Palermo, a cura di G. Di Marzo, III, Palermo 1869, pp. 210, 375 n. 1; IV, ibid. 1869, pp. X, 28, 249 n. 68, 261-262 n.; XV, ibid. 1875: pp. 187 n. 1, 188 n. 1; A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, I, Panormi 1708, pp. 44 s.; L. Moreri, Le... dictionnaire hist. ..., VI, Paris 1744, p. 797; X, ibid. 1746, p. 1115; C. G. Jöcher, Allgem. Gelehrten Lexicon..., I, Leipzig 1750, col. 2019; A. Zanon, Della utilità... delle accademie..., Udine 1771, pp. 287 s.; Biografia degli uomini illustri della Sicilia..., a cura di G. E. Ortolani, IV, Napoli 1821, pp. non num. (comunque alle pp. 81-84), ad vocem; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, IV, Venezia 1834, p. 653; Id., Saggio di bibl. ven., Venezia 1847, nn. 2395, 4099, 4240; P. Lanza, Considerazioni sulla storia di Sicilia..., Palermo 1836, pp. 75 s.; G. E. Di Blasi, Storia cron. dei vicerè... di Sicilia..., Palermo 1842, pp. 333-355 passim, specie in nota; Id., Storia... di Sicilia, III, Palermo 1864, pp. 161-182 passim, specie in nota; L. Ilari, La biblioteca... di Siena ..., II, Siena 1845, p. 63; I, La Lumia, Studi di storia sic., II, Palermo 1870, in nota alle pp. 407 s., 423-519 passim; Id., Storie sic., IV, Palermo 1883, in nota alle pp. 33-35, 54-184 passim; V.Palizzolo Gravina, Il blasone in Sicilia..., Palermo 1871-75, p. 151; G. M. Mira, Bibliografia siciliana..., I, Palermo 1875, pp. 240 s.; G. Nigido Dionesi, L'Acc. della Fucina di Messina..., Catania 1903, p. 224; A. Pilot, Ammaestramenti sul broglio..., in Fanfulla della domenica, XXXI (1909), nn. 40, 41 sempre alle pp. 2 s.; P. Molmenti, ... Venezia nella vita privata..., III, Bergamo 1929, pp. 340-341; M. Maylender, Storia delle Acc. d'Italia, III, Bologna 1929, p. 278; Cat. gén..., de la Bibl. nat., XXX, Paris 1929, col. 1166; A. Siciliano, Sulla rivolta di Palermo del 1647, in Arch. stor. per la Sicilia, IV-V (1938-39), pp. 184-295 passim, specie in nota; N. D. Evola, Ricerche... sulla tipografia siciliana, Firenze 1940, pp. 52 s., 70; British Museum, General Catalogue..., XL, London-Beccles 1940, col. 813; Autori italiani del'600, a cura di S. Piantanida-L. Diotallevi-G. C. Livraghi, Milano 1948-51, nn. 33, 3476 (qui si dice dedicata a C. l'edizione veneziana del 1652 dei Panegirici, epitalami, discorsi..., di F. Pallavicino; dedica che, però, non figura nell'esemplare posseduto dalla Universitaria di Padova, né nella edizione successiva del 1663); V. Titone, La Sicilia dalla dominazione spagnola all'Unità., Bologna 1955, pp. 99, 110; A. da Mosto, I dogi di Venezia..., Milano 1960, p. 581; I. Mattozzi, Nota su G. F. Loredan, in Studi urbinati, n. s. B, XL (1966), 2, p. 259 (erroneo il cognome Collurassi); M. Damonte, Fondo antico spagnolo della Bibl. univ. di Genova..., Genova 1969, n. 519 (errato il cognome Collufari); R. De Mattei, Dal Premachiavellismo all'antimachiavellismo, Firenze 1969, p. 262 n. 3; Id., Storia e politica tra il Cinque e il Seicento, in Storiografia e storia. Studi in on. di E. Dupré Theseider, Roma 1974, p. 874; I. Peri, Dal viceregno alla mafia, Caltanissetta-Roma 1970, pp. 206-240 passim in nota; Diz. crit. della lett. ital., a cura di V. Branca, II, Torino 1973, p. 445 (non però Collurassi); P. Burke, Venice and Amsterdam..., London 1974, pp. 64, 71, 74 107 s., 130-132, 140; S. Correnti, La Sicilia del Seicento..., Milano 1976, p. 158; S. Fugaldi, Descrizione dei mss. della Bibl. Fardelliana, Palermo 1978, p. 79; G. Benzoni, Gli affami della cultura..., Milano 1978, pp. 88, 121 s.; P. Ulvioni, Accademie e cultura..., Il caso veneziano, in Libri e documenti, V (1979), 2, pp. 45, 70 s.; S. Bertelli-P. Innocenti, Bibliografia machiavelliana, Verona 1979, pp. LXII, 415 (non però Collurati).