ANTONIANI
. S. Antonio il Grande (v.), che pure viene considerato a buon diritto come uno dei padri del monachismo, certissimamente non ha mai scritto una regola né dato una qualsiasi organizzazione federativa alle sue comunità. Fu questa opera di S. Pacomio; ma nemmeno di lui si può dire che abbia fondato un ordine nel senso dato nell'Occidente a questa parola. Tutti i monaci orientali (v. basiliani) formano monasteri indipendenti gli uni dagli altri, benché talvolta riuniti in una specie di confederazione che soltanto da lontano potrebbe dare l'idea di un ordine. Quello degli Antoniani è una creazione cattolica prettamente ideale del sec. XVI, che diventò una realtà molti anni dopo, e sempre soltanto presso i cattolici. Siccome in Occidente venivano computate quattro grandi Regole, di S. Benedetto, di S. Agostino, di S. Francesco e di S. Domenico, si credette che nell'Oriente fosse accaduto lo stesso, con le due Regole di S. Basilio per i monaci detti di "rito greco" e di S. Antonio per tutti gli altri. Anche varî ordini cavallereschi di cui si trova fatta menzione presso autori antiquati, come il Bonanni (Catalogo degli Ordini equestri e militari, Roma 1711) e il Moroni (Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, II, pp. 226-227), non sono mai esistiti.
Gli Antoniani, siano o no esistiti, vengono raggruppati in quattro classi: etiopici e copti, maroniti, armeni e caldei.
1. I primi, gli antoniani copti ed etiopici, non hanno mai formato un ordine, benché nell'Etiopia, verso la metà del sec. XIII, sia stata istituita la carica di Eqaghē, cioè l'equivalente dell'ἄρχων τῶν μοναστηρίων di Bisanzio, un capo supremo per tutti i monasteri dell'impero etiopico, mentre quello di Bisanzio non aveva autorità che sui monasteri dipendenti direttamente dal patriarca. Quando i primi monaci etiopici vennero a Roma, sotto Sisto IV (1471-1484), ricevettero dal pontefice il piccolo ospizio di S. Stefano, dietro la basilica di S. Pietro, che d' allora in poi assunse il nome popolare di S. Stefano dei Mori. I monaci venivano ammessi a celebrare nelle chiese di Roma, senza che, prima delle riforme tridentine, s'indagasse molto seriamente sulla purezza della loro fede: l'atto di ossequio verso il pontefice romano bastava a farli ritenere buoni cattolici. In quel monastero di S. Stefano dei Mori abitò durante il XVI secolo il celebre monaco etiopico Ṭasfā Seyōn, ben conosciuto dai cultori della lingua etiopica. Verso la fine del sec. XVII, siccome i monaci etiopici non venivano più a Roma dopo la rovina delle missioni cattoliche nell'Impero, l'ospizio, rimasto vuoto, fu concesso da Clemente XI (1705) ad un beneficiario della basilica di S. Pietro e diventò una cappellania; ma nel 1731 venne restituito da Clemente XII ai monaci copti ed etiopici "dell'ordine di S. Antonio", con obbligo di ricevervi i pellegrini della loro nazione e d'insegnare le lingue copta, etiopica e araba nel Collegio Urbano. Quando Benedetto XIV decise di stampare i libri liturgici del rito alessandrino copto, vi chiamò un ex-alunno di propaganda, Raffaele Ṭūḫī (1740), in seguito vescovo titolare di Arsinoe. Fu questi l'unico prelato ordinante del suo rito che abbia esercitato in Roma, dove morì nel 1772, dopo aver lavorato molto all'edizione dei libri liturgici della sua chiesa e copiato una grande quantità di manoscritti arabi (oggi nella Biblioteea Vaticana). Il monastero, chiuso nel periodo napoleonico, fu affidato da Benedetto XV nel 1919 ai cappuccini della provincia romana, poi a quelli della provincia di Milano, con l'incarico di dirigervi il Collegio etiopico. Ma non esistono tuttora monaci antoniani copti, e si può dire che non sono mai esistiti come tali.
2. Al pari di tutti gli orientali, i maroniti del Libano, antichi monoteliti, avevano numerosi monasteri tutti dipendenti dal loro patriarca e che spesse volte servivano di dimora ai vescovi non ancora bene assestati, o messi a capo di eparchie o diocesi regolarmente costituite. L'organizzazione fu compiuta soltanto nel sinodo libanese del 1736. Ma già dalla fine del sec. XVII tre giovani maroniti di Aleppo, Gabriele Ḥawā, ‛Abdallāh Qara‛li e Giuseppe al-Bātnī, incoraggiati dal patriarca Stefano ad-Duwayhī (1670-1704), tentarono di raggruppare tutti i monasteri libanesi in un solo ordine, a imitazione dell'Occidente. Siccome S. Antonio è veneratissimo nel Libano, scelsero la regola a lui attribuita, e fecero i loro voti nel 1700. Dai fondatori, la nuova congregazione venne denominata aleppina, poi libanese, ma parecchi monasteri rimasero indipendenti, e quelli della provincia del Kasrawān, che praticavano piuttosto la vita eremitica, formarono una congregazione a parte. Nel 1707, Clemente XI aveva dato agli aleppini libanesi la chiesa dei Ss. Pietro e Marcellino, da cui passarono a una cappella presso S. Pietro in Vincoli. Nel 1731, l'abate generale della congregazione, p. Michele Alessandro al-Ihdīnī, venne a Roma per ottenere la conferma pontificia: gli furono date costituzioni prese da un ordine italiano non ancora bene identificato, con poche modificazioni, e un'organizzazione del tutto occidentale, secondo le idee di allora: divisione dell'ordine in provincie, triennalità dei dignitarî, ecc. Sotto questa forma, gli antoniani furono approvati nel 1732.
Lo spirito campanilistico, sempre molto vivace nell'Oriente greco e asiatico, cagionò nel 1747 una vertenza tra i monaci di origine prettamente aleppina e quelli oriundi dal Libano stesso. Siccome non arrivavano a mettersi d'accordo, nonostante l'intervento di Roma nel 1757, si venne nel 1768 alla divisione, approvata da Clemente XIV nel 1770. L'antica congregazione libanese prese il nome di baladita, dall'arabo balad "paese", cioè il Libano, in opposizione alla aleppina, costituita da quelli che erano originarî di Aleppo. Le costituzioni e l'organizzazione delle due congregazioni sono però identiche. I monaci maroniti del Kasrawān si raggrupparono alla loro volta in congregazione attorno al monastero di S. Isaia o Mār Isha‛yā, con le medesime costituzioni, leggermente modificate. Clemente XII la approvò nel 1740. Così esistono presso i maroniti tre diverse congregazioni monastiche.
Una delle particolarità del monachismo dei maroniti era l'esistenza di monasteri doppî, talvolta misti: istituzione abbastanza antica, ben presto abolita in occidente, ogni qualvolta il monastero era veramente comune. Il sinodo libanese del 1736 prescrisse la soppressione di questi monasteri doppî, e proibì ai vescovi di abitare dentro monasteri di monache, ma ci volle tempo perché le sue decisioni venissero osservate. Soltanto nel 1816 un nuovo sinodo radunato nel monastero di Lūayzeh e approvato da Pio VII nel 1819, tradusse in atto la divisione e diede a ciascun vescovo una residenza fissa. L'osservanza regolare lasciava molto a desiderare; perciò la S. Sede si adoperò più volte per una riforma, dapprima mediante una visita dell'arcivescovo di Cipro monsignor Giuseppe Giagia‛, dal 1857 al 1874, poi nominando direttamente gli abati generali. Nel 1907 fu iniziata una visita più rigorosa, che durò tre anni, con risultato migliore.
I monaci conducono vita contemplativa. Mantengono alcune scuole elementari, e molti si dedicano sia all'insegnamento, nelle scuole dirette principalmente dagli europei, sia ad altri ministeri. Hanno finora conservato tutte le loro immense proprietà fondiarie, ed è stato calcolato che possiedono una terza parte della terra coltivata e coltivabile del Libano (cfr. M. Jouplain [Būlos Nagiā'im, maronita], La question du Liban, Parigi 1908, pp. 569-579). Non è stata pubblicata alcuna statistica ufficiale, ma da informazioni sicure risulta che, poco prima della guerra mondiale, si potevano contare per i baladiti 5 provincie, 61 case di ogni genere, 649 religiosi di cui 331 sacerdoti. I baladiti contavano in più 5 monasteri di mona che con 105 religiose. Gli aleppini, 2 provincie, 14 case, la cura del vicariatopatriarcale dei maroniti in Egitto, l'ospizio di S. Pietro in Vincoli a Roma e la chiesa maronita di Livorno, fondata nel sec. XVII, allorché quel porto era visitato da numerosi Orientali, ma rimasta oggi senza . fedeli. La congregazione contava 109 monaci sacerdoti, una quarantina di diverse categorie; nessuna monaca. La congregazione di S. Isaia contava 4 provincie, 13 case, 169 monaci sacerdoti, 21 altri, 32 monache e una procura a Roma, il villino Ubaid sul Gianicolo, con studentato oggi soppresso.
3. Il terzo ramo degli antoniani è quello degli antoniani armeni. Verso il 1705, quattro fratelli, armeni cattolici di Aleppo, Abramo ‛Aṭṭār Muradean, Giacomo Hovsepean, Giovanni e Mina, stanchi delle violente persecuzioni che il partito dissidente della loro nazione suscitava contro i cattolici, cercarono un asilo sul Libano, a metà indipendente sotto la dinastia degli Shihāb. Già sognavano di condurre vita religiosa: alla vista poi dei numerosi conventi maroniti spargi qua e là sulle vette dei monti, venne loro l'idea di fare altrettanto. Ottennero dalla nobile famiglia feudale degli shaikh al-Khāzen una grande area, presso il villaggio di Kraym, a 350 m. s. m., con un'ampia vista sulla magnifica baia di Giūniyeh, e ne entrarono in possesso nel 1721. Ben presto un secondo monastero fu edificato vicino a Bait Kashbō, nei dintorni di Ghazīr, e la congregazione, approvata da Clemente XIII nel 1753, ricevette a Roma il palazzo Cesi, a pochi passi dal Vaticano: il noviziato vi fu trasferito nel 1761 e lo studentato nel 1834. Fino al 1864, gli antoniani armeni resero grandi servizî alla Chiesa presso la loro gente. Ma, nel 1861, il katholikos di Sis e Cilicia per gli Armeni cattolici, Grigor Der Azdvazdzadurean, ebbe l'idea di rendere gli antoniani uguali ai mechitaristi (v.) col dar loro per abate generale un arcivescovo titolare col titolo di Antiochia di Siria da conferirsi in perpetuo, e col rendere la carica vitalizia. A tale dignità fu eletto nel 1864 Sukias Gazandgean; la congregazione di Propaganda Fide, poiché questa misura contrastava con i principî in base ai quali si reggevano le comunità monastiche occidentali, dichiarò nel 1866 che l'abate generale continuerebbe a governare il suo ordine soltanto finché la S. Sede non decidesse altrimenti. Ma il Gazandgean non comprese che si trattava di una misura transitoria e di un esperimento. La ritenne invece un'offesa fatta alla sua persona, e se ne risentì tanto più vivamente, in quanto anche il titolo di arcivescovo di Antiochia gli era stato contestato (Antiochia essendo sede patriarcale, non arcivescovile, e non mai appartenuta agli Armeni). Scoppiate appena le lunghe vertenze che seguirono la promulgazione della costituzione Reversurus (v. armena, chiesa), il Gazandgean prese partito per i ribelli.
In tale atteggiamento fu sostenuto dall'ambasciatore di Francia presso la Sublime Porta, Bourrke, e più tardi, all'epoca del concilio vaticano, dai vescovi francesi della minoranza. Seguirono visite apostoliche e altre misure energiche per salvaguardare il principio di autorità; ma gli antoniani di Roma, avendo appellato alla protezione dell'ambasciatore di Turchia, Rustem bey, e credendosi del tutto sicuri della protezione dell'ambasciatore di Francia presso il papa, De Banneville, che di fatto diede loro il suo appoggio finché durò il potere temporale, furono colpiti da una sentenza d'interdetto tanto locale quanto personale. Fu soppresso il convento di Roma, e ben presto anche quello di Kraym. Il passaggio di un membro della congregazione, Malachia Ormanean, alla comunione gregoriana dissidente, l'atteggiamento apertamente ribelle di molti altri, non consigliavano a Roma l'indulgenza. Gli antoniani armeni sono oggi ridotti al loro convento di Orta Köi nei pressi di Costantinopoli, con pochi religiosi sopravvissuti a tante bufere, e una bellissima biblioteca. Ma la proibizione di ricevere novizî non è stata finora revocata, e gli sconvolgimenti politici hanno ritardato vieppiù una decisione definitiva.
4. Il quarto ramo degli antoniani è costituito dagli antoniani caldei. La vita monastica, così fiorente nel passato presso i cristiani dell'antico impero dei Sāsānidi, era caduta in una completa decadenza dall'epoca della conversione dei Mongoli all'islamismo nel sec. XIV, e soprattutto dopo le lunghe guerre tra la Persia e l'Impero ottomano, che durarono per tutto il sec. XVII e parte del XVIII. Sul principio del sec. XIX, un caldeo di Mārdīn, Gabriele Dembō, fece durante una malattia il voto di consacrarsi alla vita religiosa, se ricuperasse la salute. Esaudito, pensò di entrare in un ordine occidentale, ma un missionario, da lui consultato, gli fece capire che sarebbe stato più utile alla sua nazione se avesse cercato di ristabilirvi la vita monastica. Recatosi nel Libano, Gabriele compì il noviziato presso gli antoniani maroniti, e così più tardi gli antoniani caldei presero anch'essi le costituzioni degli antoniani libanesi, con varie modificazioni. Messi in possesso delle rovine dell'antico monastero nestoriano di Rabbān Hormizd, vicino ad Alqōsh nei dintorni di Mossul, ne presero il nome, senza che né essi né Propaganda, allorché diede la sua approvazione alla nuova congregazione (nel 1830, poi nel 1844), si fossero accorti che quel Rabbān Hormizd era nestoriano. Sì grande era la penuria di uomini capaci nel clero caldeo di quei tempi, che ben presto buona parte dei vescovi furono assunti dai membri della congregazione di Rabbān Hormizd o S. Ormisda, e che quasi tutti gli altri dovettero accingersi alla cura pastorale. Fu la rovina della vera vita regolare. Questa circostanza, e il fatto che parecchi monaci si erario compromessi nelle vertenze tra la S. Sede e il patriarca Giuseppe VI ‛Audo a proposito della questione del Malabar (v. caldea, chima), necessitarono una riforma, che fu intrapresa nel 1881, abbandonata, poi ripresa. Oggi, il noviziato si trova nel convento di Mār Ghiōrgiōs, vicino a Mossul, e lo studentato in quello della Madonna delle Semenze nei dintorni della medesima città. La congregazione conta una trentina di membri e sembra avviata ad un lento rifiorimento.
5. Sono designati con lo stesso nome di antoniani, benché non seguano la regola di S. Antonio eremita, anche due congregazioni occidentali. La prima, fondata nel Delfinato in seguito al voto di un gentiluomo liberato dalla peste (o "fuoco di S. Antonio") dopo aver venerato anche reliquie del santo, fu approvata da Urbano II durante il concilio di Clermont (1095); Onorio III, poi Bonifacio VIII regolarizzarono questi fratelli ospitalieri, che nel 1297 si trasformarono in canonici regolari di S. Agostino (v. agostiniani). Vestivano di nero, con la croce di S. Antonio (una Tau greca) in azzurro. Ebbero parecchi monasteri in Francia, in Italia e nella Spagna, posti alle dipendenze dell'abbazia madre di S. Antonio (diocesi di Vienne, Delfinato). Appartennero a quest'ordine alcuni prelati insigni, tra cui il card. De Tournon e il matematico Jean Baurel. Riformato nel 1630, fu soppresso e incorporato da Pio VI (1778) nell'Ordine di Malta. Una seconda congregazione di S. Antonio fu fondata nelle Fiandre nel 1615 e sottoposta anch'essa alla regola di S. Agostino e alla giurisdizione del provinciale degli agostiniani belgi da Paolo V. Anche un ordine militare, in onore di S. Antonio, fu istituito, nel 1382, da Alberto di Baviera.
Bibl.: Per gli antoniani copti, v. etiopica, chiesa. Per gli antoniani maroniti, è necessario ricorrere, senza parlare dei documenti pontifici stampati nelle grandi raccolte, ad opere arabe che sono piuttosto compilazioni che storie trattate criticamente: Emanuele Ba‛bdāt̄, Ta'rīkh ar-rahbāniyyah al-anṭūniyyah (Storia dell'ordine di S. Antonio; per i monasteri della congregazione di S. Isaia), Beirut 1896; L. Blaybel, Ta'rīkh ar-rahbāniyyah al-lubnāniyyah al-mārūniyyah (Storia dei monaci maroniti libanesi), Cairo 1924-25, voll. 2, e anche la compilazione, sempre utile, benché senza critica, del vescovo maronita di Beirut, monsignor Giuseppe Dibs: Ta'rīkh Sūriyā (Storia della Siria), VIII, Beirut 1905, pp. 591 segg., 768 segg. La rivista dei gesuiti di Beirut, al-Mashriq, ha pubblicato numerose monografie dei monasteri maroniti del Libano e del Kasrawān.
Per gli antoniani occidentali, v. P. H. Hélyot, Histoire des ordres religieux, II, Parigi 1722, p. 110 segg.; J. Besse, in Dict. de théol. cathol., I, ii, col. 1454.