DE RIBERA, Antonia
Ignota è la sua data di nascita (probabilmente da porsi intorno al 1610) né sappiamo dove nacque, da chi e come fu cresciuta, salvo che era di nazione spagnola e che giunse in Italia, anzi a Napoli, in qualità di attrice, presumibilmente verso il 1630. Vi giunse certamente al seguito di una delle compagnie drammatiche iberiche che con crescente e vario successo presero a lavorare nella capitale del Vicereame a partire dal primo ventennio del sec. XVII e che affollarono i maggiori teatri della città; da quello dei Fiorentini (o, per l'appunto, della "commedia spagnola") a quello di S. Bartolomeo. Qui, e particolarmente nel primo, si esibivano a partire dal 1619 le compagnie di Francisco de León, di Sancho de Paz, di Baltasar de Barrios e del grande Francisco López con un repertorio drammatico particolarmente incentrato sul cosidetto teatro di "capa y espada".
È nota l'importanza che ebbe tale fervore teatrale, di alto livello tecnico e di fastosa spettacolarità, per l'incontro del gusto e del costume spagnolo con quello napoletano, e non è certo qui da sottolineare quanto tali manifestazioni fossero favorite e protette dalla corte ispanico-partenopea. Dal 1625 si ha notizia della rappresentazione al S. Bartolomeo del Convidado de piedra di Tirso de Molina recitato da Gregorio Laredo e Pedro Osorio. Il lavoro fu riproposto più tardi dal celebre Roque de Figueroa nel 1636 a Roma e a Napoli stessa con clamoroso plauso, e di qui diffuso in Francia e in Europa.
La D., però, non faceva parte di questa famosa équipe di attori, perché già nella metà del 1635, e cioè alcuni mesi prima dello sbarco del De Figueroa in Italia, ella era al centro di una delle più tempestose vicende amorose di quel secolo, che colpì profondamente la coscienza dei contemporanei.
In quel tempo era viceré di Napoli don Manuel de Acevedo y Zúffiga, sesto conte di Monterey, distintosi in Napoli per la straordinaria passione teatrale, già notata dai cronisti napoletani e forestieri non senza una certa riprovazione. Quando il Monterey s'invaghì della commediante spagnola, la D. era già amante del romano Pompeo Colonna (del ramo di Zagarolo), principe di Gallicano, e sposo di Francesca Iñigo d'Avalos. Per sottrarla al Colonna il viceré colse il pretesto di difendere l'onore della di lui moglie ed impose al principe Pompeo di separarsi dalla bella attrice sotto pena di un'ammenda di 10.000 scudi. Alla D. propose poi, in segreto, di lasciarsi sorprendere in flagrante col suo innamorato al fine di carpire a lui l'ingente contravvenzione e compensare lei con una munifica percentuale. La D. finse di accondiscendere alle carezzevoli proposte del viceré ma, avvertito l'amante, fuggì con lui nottetempo su di una feluca che li condusse fino a Livorno, dove poteva proteggerli l'autorità di don Pietro de' Medici, governatore della piazza navale toscana.
L'arrivo a Livorno del Colonna con la D., celata sotto vesti maschili e col nome di don Antonino, ricevette effettivamente la familiare accoglienza del Medici, stante l'antica amicizia delle due casate, ma con questo atto s'interponeva un imbarazzante ostacolo alla politica di alleanze recentemente intrapresa dal granduca Ferdinando II verso il Vicereame, e proprio grazie alla persona del Monterey. "Lo mosse a questa determinazione la buona corrispondenza che teneva col Vice Re di Napoli Conte di Monterey, Ministro di molta esperienza negli affari esteri d'Italia e non predominato da quella fierezza ed orgoglio con cui i di lui antecessori avevano sempre oltraggiato Casa Medici. L'amicizia da esso professata verso il Gran Duca, e la stretta corrispondenza passata fra loro non tanto per materie di Stato, quanto per le scambievoli soddisfazioni dei loro capricci avevano fatto obliare a Ferdinando i torti ricevuti dalla Nazione Spagnola, e lo avevano reso più pieghevole alle proposte del Re Filippo". Chi parla è Riguccio Galluzzi, storiografo elogiativo ma lucido del Granducato. Non si deve dubitare che nel riferimento alle "scambievoli soddisfazioni dei loro capricci" sia fatto implicito richiamo al caso della De Ribera. A partire dal luglio del '35, infatti, l'impegno di don Pietro è concentrato in una strategia avvolgente che condurrà alla separazione del principe Colonna dall'attrice spagnola. Furono mobilitate contemporaneamente la segreteria della casata, nel controllo costante sugli sviluppi della situazione, nonché la sorveglianza del nobile Ludovico Ridolfi che, da Napoli, garantiva la continuità delle notizie sull'umore ombroso e risentito del viceré. Un cospicuo fascicolo epistolare, oggi conservato all'Archivio di Stato di Firenze, è il frutto dell'impegno politico e diplomatico toscano che si consumò nel giro breve di due mesi tra Napoli, Livorno e Firenze.
Tra le innumerevoli missive che riferiscono sulla vicenda dei due amanti (senza alcuno scarto stilistico rispetto alle altre notizie circa i risvolti della guerra dei Trent'anni) restano soltanto tre gli autografi della coppia protagonista: due biglietti di Pompeo Colonna ed una lettera, in spagnolo, della De Ribera. Sono gli atti conclusivi della loro drammatica avventura. Pompeo Colonna, recatosi a Firenze dal granduca per un'udienza privata, dichiarava con quei due biglietti, che con il suo allontanamento da Livorno aveva inteso "spogliarsi della persona di Donna Antonia". La lettera della D. è supplicante; si rivolge a don Pietro Medici, chiedendo di lasciarle rivedere il nobile principe "per un'ultima finezza" e poi si fosse pure disposto di lei come si voleva. A giudicare da una relazione segreta di un fidato servo mediceo, l'incontro avvenne nei pressi di Pisa: forse la D. sperava di convincere il Colonna a non cedere nuovamente ai consigli concilianti del Medici e a non permettere che lei venisse abbandonata nelle mani del viceré. Avvenne, invece, che nonostante qualche oscillazione, il principe di Gallicano accettò la proposta medicea inviando al viceré i patti per la restituzione della D.: annullamento della contravvenzione rimasta in pendenza sul patrimonio colonnese, nonché il perdono e la libertà per tutti. Ludovico Ridolfi fece sapere che il viceré accettava quelle condizioni e che la "fastidiosa commedia di Donna Antonia" poteva così aver fine.
Si trovavano in quei giorni a Livorno delle galere spagnole sulla via del ritorno per Napoli: don Melchiorre Borgia sperava di poter prendere la D. e condurla a Napoli e a questo scopo sia il Borgia sia il Medici non si peritarono di recarsi personalmente all'alloggio della spagnola e sperando di convincerla a salpare, ma tutto senza alcun risultato.
Certo esacerbata dal cedimento del Colonna, la D. era ormai aliena da qualsiasi ragionevole accomodamento. Le era toccato di vivere realmente una vicenda degna delle scene cui essa era abituata e in quegli ultimi giorni di solitudine volle concludere col tono eroico dell'atto teatrale. Così rispose alle promesse e alle preghiere del Borgia e del Medici che mai di sua volontà sarebbe tornata dal Monterey e che se poi l'avessero costretta a partire "non li mancava un coltello o la libertà di gittarsi in mare prima che andare". Sdegnosamente e con amarezza aggiungeva che non mancandole il denaro, voleva goderselo senza fare più la commediante "né la donna di piacere a nessuno"; anzi, avrebbe mutato vita prendendo il velo e chiudendosi in un monastero. Non erano parole vane: nell'accenno alla monacazione la D. stava indirizzando l'esito della propria sorte verso la leggenda del mondo teatrale spagnolo. Altre grandi attrici iberiche prima di lei e come lei avevano suscitato la commozione del pubblico abbandonando la scena per il chiostro: Francisca Baltasara, Isabel Hernández, Josefa Lobaco e altre ancora. La Baltasara fu iltitolo di una fortunata commedia spagnola, scritta a tre mani proprio nel periodo degli accadimenti italiani della D., da Francisco de Rojas Zorrilla, Luis Vélez de Guevara e Antonio Coello.
Il carteggio medicco non consente di procedere oltre nella ricostruzione dei fatti: le ultime notazioni riferiscono, con un certo allarme, della sparizione della donna. Essa si rifugiò a Roma protetta dalla grande nobiltà barberiniana: trascorse gli ultimi mesi del 1635 ed i primi tre del 1636 in luoghi sacri e, come riferisce una cronaca teatrale cittadina, il 5 apr. 1636 prese il velo sotto il patrocinio del Potentissimo cardinale A. Barberini (di parte filofrancese e quindi assai ostile al Monterey): "Donna Antonia di Ribera, spagnuola, comica celebre che li mesi addietro da Napoli venne in Roma dopo essere stata tre mesi nel luogo di queste donne dette di Casa Pia et doi mesi in un altro luogo pio in Trastevere, giovedì della passata, alla presenza di molta nobiltà, si vestì monaca con grandissima generosità et con fervore di spirito non ordinario ed anche professò secondo l'instituto in questo Monastero di S. Giacomo della Lungara fatto a tutte spese del Sig. Card. Barberino, che n'è protettore, dal quale fu celebrata la messa et data la comunione alla detta donna et altre monache, che sono dell'Ordine di S. Agostino, e si pose nome Suor Francesca di Gesù Maria".
Morta al mondo nel monastero romano, la fama della commediante spagnola sopravvisse, come pare, nella letteratura teatrale della grande scena barocca romana. Fu Ezio Levi a collegare la clamorosa conversione della D. con la storica rappresentazione della Comica del cielo, opera di G. Rospigliosi, papa Clemente IX (1667-1669), con musiche di Antonio Maria Abbatini e messinscena di Lorenzo Bernini, che si tenne a palazzo Rospigliosi nel 1668. In verità il testo era già stato scritto in Spagna quando il Rospigliosi era nunzio apostolico presso la corte di Madrid e dove certamente assistette alla ricordata commedia spagnola La Baltasara, testo esemplare della Comica del cielo. Pur tuttavia il caso della D. influi certamente sulla decisione del Rospigliosi, già pontefice, di farla rappresentare in Roma ove il ricordo della celebre attrice conferiva all'opera lo spessore drammatico di un evento realmente accaduto.
Il Rospigliosi, d'altronde, era stato assai vicino ai personaggi coinvolti nella celebre vicenda: era il segretario privato del cardinal Barberini negli anni della monacazione della D. e certo conosceva assai bene Pompeo Colonna per il tramite di un'altra grande donna del teatro romano. Era, costei, la cantante Eleonora Baroni, nel salotto della quale si riuniva la nobile società romana appassionata di musica e di teatro. In suo onore i due illustri signori composero versi elogiativi, stampati a Bracciano in una preziosa miscellanea del 1639.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Mediceo 4144, cc. 263-390; Applausi poetici alla gloria della signora Leonora Baroni, Bracciano 1639, pp. 185, 234; G. Rospigliosi, La comica del cielo, ovvero la Baltassara, Roma 1668; R. Galluzzi, Istoria del Granducato di Toscana..., Firenze 1781, III, pp. 481-84; A. Ademollo, La Leonora di Milton e di Clemente IX, in Gazz. di Milano, XI (1885), pp. 313 s.; Id., I teatri di Roma nel secolo decimosettimo, Roma 1888, pp. 22, 98 s.; G. A. Andriulli, L'amore di una commediante spagnola del sec. XVII, Firenze 1904; H. A. Rennert, The Spanish stage in the time of Lope de Vega, New York 1909, p. 122; E. Cotarelo y Mori, Actores famosos del siglo XVII: Sebastiàn de Prado y su mujer Bernarda Ramirez, in Boletin de la Real Academia Española, II (1916), p. 281; E. Levi, Lope de Vega e l'Italia, Firenze 1935, pp. 23, 26; B. Croce, I teatri di Napoli, Bari 1947, p. 77; L. von Pastor, Storia dei papi, Roma 1961, XIV, 1, p. 546.