SANSEVERINO, Antonello
– Primogenito di Roberto (conte di San Severino – dal cui toponimo la casata aveva tratto il nome – e Marsico, poi principe di Salerno) e di Raimondina Del Balzo Orsini, figlia del duca di Venosa, nacque intorno al 1460.
Ricevette la prima educazione presso la corte paterna, florida di letterati, artisti e musicisti grazie al rinnovamento culturale promosso da Roberto negli anni Sessanta. In seguito alla sua morte, ne ereditò (1474) lo ‘Stato’, ma essendo ancora minorenne fu posto sotto la tutela della nonna paterna Giovanna. Al padre succedette (1475) anche nel prestigioso ufficio di grande ammiraglio del Regno, che, oltre a un lauto stipendio, garantiva ampi privilegi giurisdizionali e fiscali. Solo nel giugno del 1477, tuttavia, Sanseverino compì la cavalcata rituale in Napoli per la presa di possesso dell’ufficio: la cerimonia preluse a un viaggio via mare in Spagna al fianco dell’erede al trono Alfonso e ad altri importanti baroni per condurre da re Ferrante la sua futura sposa, Giovanna d’Aragona.
Nel 1480 prese in moglie Costanza, figlia del duca di Urbino Federico da Montefeltro (dalla quale ebbe poi nel 1485 Roberto, primogenito ed erede). Le nozze, oltre a conferirgli indubbio prestigio e a imparentarlo con Roberto Malatesta e Giovanni Della Rovere, che avevano anch’essi sposato figlie del duca, rafforzarono il suo legame con gli interessi della monarchia; un legame ulteriormente consolidato in quello stesso anno dal matrimonio tra la sorella minore e un figlio naturale del re, Ferdinando conte di Arena. Tra il 1480 e il 1481 fu impegnato militarmente contro i turchi nella guerra d’Otranto. Salpato da Napoli al comando di un grosso contingente di galee e navi, fronteggiò infatti il nemico presso l’isola di Saseno e nella baia di Valona.
Il Liber rationum del 1483 consente di accertare la consistenza dello ‘Stato’ di Sanseverino, formato dalle seguenti località, città e terre: Rocca Imperiale, difesa di Tresaie, Noia, Colobraro, Garaguso, Atena, Polla, Salerno, Castellabate, Sala, Marsico, San Severino, Agropoli, difesa di San Teodoro, Cilento. La gran parte delle entrate (provenienti dalle rendite agrarie e dai ricavi dell’allevamento) era assorbita da spese correnti (lavori, salari, manutenzione), ma un sostanzioso impegno finanziario era costituito dall’armamento di galee (in parte ammortizzato da assegnazioni e prestiti) e dalla cura di fortificazioni e difese terrestri, che Sanseverino teneva sempre in efficienza. Nei feudi l’amministrazione fu affidata anche a competenti ufficiali stranieri, come esattori e fattori legati ai banchieri fiorentini Strozzi. In effetti il controllo sugli aspetti economici e finanziari fu rigoroso. Raffaele Colapietra (1999) ha visto nella gestione di Sanseverino un modello di «ruralizzazione tardofeudale», che investì in particolar modo il Cilento: ad Agropoli, ad esempio, egli concesse (1483) capitoli che rappresentano un evidente tentativo di circoscrivere l’iniziativa locale. Forti invece le resistenze a Salerno, dove l’attività commerciale e finanziaria si mantenne fiorente – alla fiera del 1478 presero parte ancora molti operatori, anche forestieri –, supportata oltretutto dalle politiche della monarchia.
Furono diversi i motivi che, nella prima metà degli anni Ottanta, contribuirono a far maturare l’avversione di Sanseverino nei confronti della monarchia aragonese: dagli ingenti prestiti richiesti da una Corona in continuo stato di belligeranza, alle pesanti ingerenze del sovrano nei suoi possedimenti, fino alla generale politica accentratrice della dinastia che, attraverso i ruvidi modi del duca di Calabria Alfonso II – celebre l’oltraggio ai baroni durante il suo ingresso trionfale a Napoli, il 3 novembre 1484 –, giunse a minacciare la demanializzazione dei feudi posti a trenta miglia dalla capitale.
Un dispaccio al duca di Milano dell’oratore sforzesco a Napoli Branda Castiglioni racconta, ad esempio, di un acceso confronto avvenuto tra re Ferrante, Antonello e Girolamo Sanseverino già nel settembre 1482. Quest’ultimo, spalleggiato dal principe di Salerno, si era lamentato per la perdita di reputazione, per lo svuotamento delle sue casse da parte del re, per l’essere come «destenuto et confinato» (Branda Castiglioni al duca, Napoli, 14 settembre 1482, in Archivio di Stato di Milano, Sforzesco Potenze estere, Napoli, 240, s.n.) a corte, non potendo provvedere ai suoi feudi. Un elemento fondamentale del disagio era infine l’impossibilità di tenere milizie baronali, sancita dalla riforma militare del 1464. Alle proteste, il sovrano avrebbe risposto con dure accuse e minacce nei confronti di entrambi i baroni, tacciati di voler fomentare una ribellione (ibid.). È chiaro come ormai i rapporti fossero a un punto di non ritorno e la casata Sanseverino si sentisse in serio pericolo.
Nel maggio del 1485, mentre in un clima tesissimo il re procedeva ad arresti e confische, a Salerno Giovanni d’Aragona, altro figlio del sovrano, prese parte (29 maggio) al battesimo del primogenito di Antonello, indirizzando al principe offese più o meno dirette e forse manifestando, in un colloquio segreto con il gran siniscalco Pietro de Guevara, i piani ostili di Ferrante contro i baroni.
Riunitisi poco dopo in un convegno a Melfi, Sanseverino e altri nobili congiurati elaborarono una prima strategia, giungendo a sollecitare l’intervento di papa Innocenzo VIII e del condottiero Roberto Sanseverino. Nei mesi successivi, in cui il fronte eversivo tenne sotto scacco il re con un abile temporeggiamento, Antonello si mostrò il più fermo nelle posizioni antiaragonesi, rifiutandosi di aderire alla pace di Miglionico e imprigionando a Salerno il secondogenito di Ferrante, Federico, cui fu offerta la successione al trono. Qui congregati, con il papa schierato dalla loro parte, i baroni innalzarono dunque le insegne della Chiesa come primo atto di ribellione (19 novembre 1485), dando inizio alla guerra.
Fin dall’inizio delle operazioni belliche, mentre Sanseverino tentava inutilmente d’impadronirsi dei territori regi a sud-est, gli Aragonesi concentrarono il loro attacco su San Severino, roccaforte del potere principesco, presa la quale si sarebbe aperta la via per Salerno. Il castello cadde dopo un lungo assedio sotto i colpi delle truppe di Marino Brancaccio (16 luglio 1486). Fece seguito la resa di molte altre fortezze della pianura sanseverinese e dopo la pace firmata tra Ferrante e il pontefice (11 agosto 1486, resa pubblica a Napoli il 14 settembre) si consegnò anche l’ultima rocca di Sanseverino nella piana di Nocera, San Giorgio. Nonostante la pressione militare e diplomatica del re per indurlo alla resa, Sanseverino – alla luce anche dell’arresto a Napoli di Antonello Petrucci e del conte di Sarno Francesco Coppola (13 agosto 1486), indice della volontà di far giustizia dei traditori – si riunì con gli altri baroni ribelli a Lacedonia (Avellino), dove giurò solennemente di continuare la resistenza. Ma ormai, in virtù dell’azione disgregatrice del re, il fronte dei baroni era prossimo a sfaldarsi, e tra i mesi di settembre e novembre le continue defezioni, tra cui quella dei principi di Bisignano e di Altamura (Girolamo Sanseverino e Pirro Del Balzo), lasciarono Antonello isolato, esposto all’offensiva di Alfonso duca di Calabria. Ultimo a sostenere la ribellione, si decise infine a trattare: a fine novembre si recò quindi nel campo di Alfonso e si accordò con lui per la consegna delle sue fortezze, in cambio del mantenimento dello ‘Stato’. Ma dopo aver personalmente consegnato alcune località a Marino Brancaccio, con evidente temporeggiamento, Sanseverino si rifiutò di procedere oltre e si asserragliò a Salerno, da dove trattò per ottenere un salvacondotto verso Roma.
Si recò comunque a Napoli (6 gennaio 1487) per ordine del re, allo scopo di prestargli omaggio e assistere alla cavalcata del duca di Calabria; ma dalla capitale partì di nascosto verso Roma. Ricevuto e ospitato onorevolmente, Antonello Sanseverino riprese ben presto a congiurare contro il re, che lo dichiarò nuovamente ribelle e dispose la confisca dei suoi feudi (maggio 1487). I tentativi di organizzare la fuga della famiglia dal Regno furono inoltre scoperti, e Roberto, il piccolo figlio (due anni) di Antonello fu imprigionato in Castel Nuovo (12 giugno). Nell’occasione furono arrestati anche i principali baroni, tra cui il principe di Altamura, Pirro Del Balzo, e Girolamo Sanseverino. Sentendosi ormai insicuro anche a Roma, dove l’influenza dei suoi sostenitori cominciava a scemare, Antonello lasciò nottetempo la città (26 giugno) e riparò a Venezia.
Due anni dopo – prendendo occasione dalla scomunica e dalla deposizione di Ferrante disposte da Innocenzo VIII – si recò in Francia, alla corte di Carlo VIII, per ordire da lì, con altri esuli, le trame per un rientro nel Regno. Già dall’inizio del 1490 i fuoriusciti presentavano la conquista di Napoli come un’impresa possibile, fornendo informazioni utili per la sua realizzazione. Fu però a partire dal 1493 che l’influenza di Sanseverino crebbe notevolmente: strinse infatti il suo legame con Étienne de Vesc, fra i principali sostenitori di un intervento francese in Italia, e contemporaneamente sollecitò l’azione del re di Spagna contro Napoli.
Nel corso dei preparativi per l’invasione, nell’estate del 1494, a lui fu affidata una parte della flotta francese, che trasportava alcune migliaia di uomini e gli esuli napoletani, con il compito di agire direttamente contro il Regno. Giunto a Genova nell’agosto 1494, Antonello salpò tra fine ottobre e inizio novembre, ma la spedizione non risultò mai determinante, poiché rallentata da tempeste e segnata da un’incapacità organizzativa che Philippe Commynes non mancò di sottolineare. Sanseverino giunse dunque in Napoli a conquista francese avvenuta, il 7 marzo 1495, ricevuto con grandi onori.
In primo luogo, si recò a riprendere possesso dei suoi feudi di Salerno e San Severino, confermatigli da Carlo VIII, e poi tornò a Napoli per dirigere l’assedio di Castel dell’Ovo, che si arrese il 20 marzo. Il sovrano francese assegnò anche in moglie una figlia del duca di Montpensier Gilberto di Borbone, suo viceré, al primogenito di Sanseverino, Roberto (inizialmente detenuto a Ischia dove re Ferrante si era ritirato, e poi rilasciato come atto distensivo). Sanseverino salpò comunque poco dopo (11 giugno) al comando di una nutrita flotta per tentare la presa dell’isola, ma fu duramente respinto dalla tenace difesa aragonese.
Nel mese successivo Antonello organizzò la difesa contro la flotta di re Ferdinando II che assediava Napoli, ma non poté evitare lo sbarco e fu costretto ad asserragliarsi in Castel Nuovo. Una tregua nel successivo lungo assedio (4 ottobre 1495) gli consentì di lasciare il castello su navi francesi e di recarsi nelle sue terre. Qui fu impegnato in una dura resistenza; fuggì poi (primavera 1496) da Atella assediata, e intavolò trattative con Prospero Colonna, inviato dal sovrano aragonese (Agropoli, giugno 1496).
Durante le trattative il principe avanzò proposte inaccettabili: riottenere i suoi domini, ma senza dover prestare omaggio innanzi al re, restare fedele soltanto fino a che il sovrano francese non avesse tentato una nuova spedizione nel regno, potersi recare alla corte di Francia in caso di rottura delle trattative.
Costretto alla resa dopo la presa di Atella (21 luglio), San Severino e Salerno, Antonello incontrò il re a Somma: non riottenne i suoi domini, ma si accordò forse per esulare in Francia, ed entrò a Napoli il 3 ottobre 1496. Morto il giovane Ferdinando II, Sanseverino fu tra i primi ad acclamare come successore e accogliere nella capitale lo zio di questi, Federico, al quale giurò fedeltà il 23 ottobre.
Il nuovo re lo reintegrò nei suoi possedimenti e nella carica di grande ammiraglio, concedendogli un assegno annuo di 7000 ducati. Si progettò anche un matrimonio tra la secondogenita di Federico e il primogenito di Antonello. Ben presto, tuttavia, diversi fattori contribuirono a rimettere Sanseverino in contrasto con la monarchia: fra questi un attentato al principe di Bisignano (23 ottobre), la spedizione di Federico contro Gaeta e soprattutto il rifiuto del re di restituire integralmente le fortezze cilentane.
Nel novembre del 1496, in un clima di grande sospetto, Antonello lasciò Napoli, si fortificò nelle proprie terre e ignorò nei mesi successivi le proposte di conciliazione (nonché di ripresa del progetto matrimoniale) da parte del re, presentategli – prima e dopo la sua clamorosa assenza dalla cerimonia di incoronazione (10 agosto 1497) – da diversi emissari. Orientatosi alla guerra, e fiducioso nelle proprie forze, dopo le minacce egli aprì le ostilità con il sacco della dogana regia di Salerno (24 settembre 1497) e fu immediatamente dichiarato ribelle dal re (28 settembre).
La campagna militare fu subito favorevole al re (resa di Salerno, 15 ottobre), che dopo aver preso Polla e Sala assediò Teggiano (Vallo di Diano), dove Sanseverino era asserragliato con forze esigue, ma deciso a resistere a oltranza (3 novembre). L’assedio si protrasse per un mese e mezzo, peraltro non senza trattative diplomatiche e proposte di accordo, che prevedevano per il ribelle la garanzia milanese, pontificia e soprattutto veneziana, oltre a un indennizzo. La capitolazione avvenne il 17 dicembre.
A metà gennaio 1498 Antonello consegnò i suoi castelli e, ottenuto il denaro pattuito, dalla Lucania si spostò a Trani, sulla costa pugliese, controllata dai veneziani; di lì il 10 febbraio si recò a Senigallia, presso il cognato Giovanni Della Rovere. Ivi morì circa un anno dopo, il 27 gennaio 1499.
La figura di Antonello Sanseverino è senza dubbio paradigmatica di una complessa fase di transizione per il Regno di Napoli. Con la fine del principato di Taranto e del suo titolare Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, egli ereditò dal padre lo status de facto di ‘primo barone’, ma in un contesto molto diverso da quello che, sotto re Alfonso il Magnanimo, aveva determinato il consolidamento di un amplissimo potere feudale. A partire dalla fine della guerra di successione, che ne sancì l’ascesa al trono contro un largo fronte di baroni ribelli, Ferrante d’Aragona perseguì, infatti, con decisione una politica accentratrice volta al superamento del modello monarchico-feudale, con riforme e interventi in vari ambiti strategici (militare, giurisdizionale, economico); una spinta propulsiva inedita, questa, accentuata ancor più all’inizio degli anni Ottanta del Quattrocento, che non poteva dunque non confliggere con un’ancora forte autocoscienza signorile, manifestata emblematicamente dalla potente casa Sanseverino.
Antonello, suo principale esponente, incarnò più di tutti il ‘tipo’ dell’irriducibile barone ribelle, capace, attraverso un’azione politica su scala internazionale e un saldo controllo territoriale, di proporsi come ago della bilancia per le sorti del Regno. Anche le basi per sostenere questo ruolo, tuttavia, crollarono progressivamente nell’ultimo scorcio del Quattrocento: la ‘restaurazione feudale’, per la quale Sanseverino e altri signori avevano inizialmente appoggiato la successione di re Federico, si rivelò inattuabile fino in fondo, e l’ultima ribellione del principe di Salerno divenne un affare interno, isolato, perché di fronte all’avanzare delle grandi potenze il peso del baronaggio regnicolo, sia come garanzia difensiva sia come chiave d’accesso al Regno, risultava ormai inevitabilmente ridimensionato.
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