PETRUCCI, Antonello
PETRUCCI (de Petruciis), Antonello (Antonello d’Aversa). – Nacque presso Teano, nel secondo decennio del Quattrocento. Figlio (secondo Tristano Caracciolo) di contadini prossimi all’indigenza, fu presto posto a servizio del notaio aversano Giovanni Ammirato, che gli fornì una prima istruzione «in lettere et in buoni costumi» (C. Porzio, La congiura de’ baroni del Regno di Napoli contra il re Ferdinando primo e gli altri scritti, a cura di E. Pontieri, Napoli 1964, libro I, p. 15). Da Aversa – toponimo d’ora in avanti associatogli – il giovane approdò poi a Napoli al seguito di Giovanni Olzina, amico di Ammirato e segretario di Alfonso il Magnanimo. Qui, affidato al magistero di Lorenzo Valla, ebbe «spazioso campo di essercitarsi» (Ibid., p. 16), giungendo a guadagnarsi un posto nella scrivania regia. Olzina lo scelse altresì come intermediario presso il sovrano, all’occorrenza commettendogli di servirlo in sua vece. Il prolungato e diretto contatto con la corte garantì quindi a Petrucci una certa ascesa professionale: ottenne infatti gli uffici di sigillatore e precettore dei diritti del grande sigillo pendente, nonché di guardiano dei porti regnicoli e misuratore delle vettovaglie che uscivano dal Regno via mare.
Intorno alla metà degli anni Cinquanta Petrucci prese in moglie Elisabetta Vassallo – non, come alcuni hanno sostenuto, una rampolla degli Arcamone, con i quali pur s’imparentò attraverso il matrimonio di sua sorella con Anello. Nonostante la numerosa prole, composta da cinque figli maschi (Francesco, Giovanni Antonio, Giovanni Battista, Tommaso Anello e Severo) e almeno due femmine, non fu secondo il Caracciolo un’unione serena: provenendo la sposa da nobile famiglia, sarebbe infatti emersa nel rapporto tra i due l’aspra competizione allora in atto fra la vecchia aristocrazia e l’emergente ceto funzionariale. Al marito di umili natali, Elisabetta avrebbe dunque imposto con durezza i propri costumi e la propria autorità.
Con la successione al trono di Ferrante (1458), la carriera di Petrucci subì un’ulteriore spinta propulsiva. Rimossa gran parte degli ufficiali di provenienza iberica, il nuovo sovrano scelse di riorganizzare la segreteria avvalendosi principalmente del fidato Maso di Girifalco, siciliano ‘allevato’ a Napoli, e di Petrucci – che sommò quindi la nomina a segretario, con stipendio di 20 once, all’ufficio di credenziere della dogana di Napoli. Nel luglio del 1458 Fermano da Recanati attesta tanto l’italianizzazione della segreteria, quanto l’effettiva concentrazione delle sue funzioni nelle mani dei due uomini: «questo signore non fa contu de segretario nullo se non de taliani», scrive, «et de taliani non ci è altri che facia faciende che Mase de Jerifalco et Antonello de Aversa» (Fermano da Recanati a Bartolomeo, Capua 18.VII.1458, in Dispacci sforzeschi da Napoli, II, a cura di F. Senatore, Salerno 2004, p. 43, n. 12 ). L’iniziale preminenza del segretario siciliano nel maneggiar «le cose de Stato» durò ben poco, e già a dicembre Petrucci appariva come colui «che triumpha» al cospetto di Ferrante (Marino da Verona a Bartolomeo da Recanati, Andria 26.XII.1458, ibid., p. 183).
Negli anni seguenti, turbati dalla guerra di successione (1459-64), Petrucci svolse un servizio costante al fianco del re, il quale non mancò d’affidargli delicati incarichi diplomatici e poteri di rappresentanza: in particolare, una missione a Cerignola per trattare un accordo con il ribelle principe di Taranto (1462), nonché in precedenza l’intercessione presso il Panormita affinché non cedesse alle lusinghe di Giovanni d’Angiò (1460-61). Alcuni anni dopo (1467-68), fu Petrucci a ricevere, in luogo del sovrano, il ligio omaggio dei capitani di Ortona, Termoli e Reggio. Specchio del simbiotico rapporto creatosi tra Ferrante e Petrucci è il celebre aneddoto (peraltro di incerta veridicità) riportato dal D’Aloe, nel quale il re è descritto come intento a vegliare sul segretario dormiente, alleviandogli il riposo con un ventaglio.
Durante il conflitto Petrucci consolidò e accrebbe la sua posizione, cumulando numerosi uffici e remunerazioni: nel 1459 il cavalierato, la nomina a conservatore dei registri della segreteria regia, con stipendio di 36 once, e la riconferma a sigillatore e percettore del sigillo; nel 1460 la presidenza della Camera della Sommaria, con 50 once annue; nel 1462 la luogotenenza del gran cancelliere e infine, due anni dopo, la conferma del guardianato dei porti, il raddoppio dello stipendio da segretario e le nomine a conservatore del sigillo e a portiere della cancelleria.
Grazie ai cospicui proventi d’ufficio e ai beni concessigli nel frattempo dalla corona, il segretario optò per una vasta serie d’investimenti che doveva immetterlo a pieno titolo tra le fila del baronaggio regnicolo.
Esordì dunque comprando, tra il 1464 e il 1465, il casale di Cannole in Terra d’Otranto e la contea di Policastro, alla quale aggregherà poi Gioi, Novi e Magne (1479). Nel corso degli anni Sessanta gli acquisti proseguirono con Rofrano, Calvi (1465), Pomigliano d’Atella e Aprano (1467); e s’incrementarono ancor più nel decennio successivo, quand’egli prese Toritto in Terra di Bari (1470) e il mero e misto impero sui casali di San Giovanni a Piro, Torre Orsaia, Bosco e San Mauro (1471). Infine, nei primi anni Ottanta, comprò la baronia di Cucco, le terre di Marzano, Marzanello, Parete e Anfiano in Terra d’Otranto (1480), seguite dalla contea di Carinola (1482).
Mentre espandeva i suoi domini dal Cilento alla Puglia, Petrucci si radicava a fondo nel tessuto socio-economico della capitale. Oltre al palazzo nel prestigioso seggio di Nido – l’acquisto del nucleo principale risale al 1463, con ampliamento dieci anni dopo – eletto a dimora di famiglia e luogo d’azione politico-diplomatica, accumulò negli anni un immenso patrimonio immobiliare, giungendo a possedere nella sola Napoli più di sessanta edifici tra abitazioni, botteghe e magazzini.
Facendosi carico di una rilevante attività mecenatesca, si garantì anche un fitto reticolo d’influenze nel panorama culturale. Fra i personaggi a lui legati, figurano Francesco Del Tuppo e Cristiano Proliano, precettore dei suoi eredi. Fu egli stesso convinto umanista: l’educazione ricevuta, l’appartenenza all’Accademia Pontaniana insieme a due dei figli, e ancor più la nutrita collezione di opere presenti nella sua biblioteca – numerosi i testi latini e greci –, dimostrano senza dubbio un sincero interesse per le lettere e i classici.
Fra l’inizio degli anni Settanta e degli Ottanta il segretario fu all’apice del prestigio. A testimoniarlo non solo l’ulteriore cumulo di cariche – mastro d’atti (1470), notaio della credenzeria della dogana grande di Napoli (1474) –, ma anche le puntuali attestazioni degli oratori presenti alla corte napoletana, i quali ne percepivano l’influenza sugli affari del Regno. Nel 1471 il Barbaro riporta le parole di Diomede Carafa: «Quando lo secretario over mi ve lo dice, reputate la regia Maestà ve lo dicha» (Napoli 13.XI.1471, in Dispacci di Zaccaria Barbaro, a cura di G. Corazzol, Roma 1994, p. 56); e dieci anni dopo il Pandolfini sollecita Lorenzo de’ Medici a guadagnarsi i favori di Petrucci in quanto «è quello fa ogni cosa et può col re» (Pierfilippo Pandolfini a Lorenzo de’ Medici, Napoli 3.XII.1481, Archivio di Stato di Firenze, Carte Medici Tornaquinci. Carteggio, III, 1, ff. 84r-85v). Indispensabile per condizionare la politica di Ferrante, o anche solo per ottenere un’udienza, Petrucci riceveva dunque numerose tangenti, che ammendava con generosi doni al sovrano, in occasione di feste o ricorrenze, e con cospicui prestiti alla corona – tra il 1461 e il 1480 la somma ammonta a circa 11.900 ducati.
Il potere del segretario non fu però incontrastato: già negli anni Settanta si attestano le prime tensioni, all’interno della corte, fra Petrucci e un influente nucleo di opposizione facente capo ai Carafa, e in particolare al citato Diomede, conte di Maddaloni, fermo a difesa del suo ruolo contro l’ascesa di un funzionario d’inferiore lignaggio.
Come argine alle insidie del conte di Maddaloni – che nel 1472 giunse a minacciare «in gran parte la reputatione al secretario cum farli dar per compagno ad expedir molte cosse» (Napoli 29.X.1472, in Dispacci di Zaccaria Barbaro, cit., p. 409) il nipote Alberico – Petrucci poté contare anch’egli su una solida rete di sostegno parentale, imperniata in primo luogo sui due figli maggiori, introdotti nella cancelleria e immessi nella feudalità – a Francesco aveva trasmesso la contea di Carinola e a Giovanni Antonio quella di Policastro. Altro supporto giungeva poi dal diplomatico Anello Arcamone, cognato e «allevo» di Petrucci, in seguito considerato anche suo possibile successore, e dal legame con la potente famiglia Orsini: dopo il matrimonio tra sua figlia Eleonora – per la cui dote acquistò una baronia nel Teramano – e il figlio del conte di Manoppello, Pardo Orsini (1480), Petrucci lo rafforzò con l’unione fra la sorella di questi e il suo primogenito Francesco.
Alla metà degli anni Ottanta, l’ostilità dei Carafa si saldò tuttavia con quella dell’erede al trono Alfonso, incrinando un già fragile equilibrio e mettendo Petrucci nella condizione di temere per sé stesso, per i suoi averi e la propria famiglia. Il duca di Calabria imputava al ricco segretario, il quale ormai aveva «più stato che ’l conte de Mathalona» (Giovanni Lanfredini a Lorenzo de’ Medici, Napoli 23.VII.1484, in Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, I, a cura di E. Scarton, Salerno 2005, pp. 287-288), malversazioni a danno delle casse regnicole, nonché una nefasta influenza sulla strategia di Ferrante durante le guerre d’Otranto e Ferrara. Cessata quest’ultima, nel gennaio del 1485 i suoi propositi d’inquisire e deporre Petrucci si fecero dunque concreti, e si giunse fino alla rimozione dall’effettivo esercizio delle sue funzioni: «le cose del Regno passavano per le mane del signore secretario», scrive Branda Castiglioni, «tutte gli sonno levate» (Branda Castiglioni a Gian Galeazzo Maria Sforza, 12.I.1485, in Archivio di Stato di Milano, Fondo Sforzesco, Potenze Estere, Napoli, 245, s.n., cit. in E. Scarton, La congiura dei baroni del 1486-87 e la sorte dei ribelli, in Poteri, relazioni, guerra nel regno di Ferrante d’Aragona. Studi sulle corrispondenze diplomatiche, a cura di F. Senatore - F. Storti, Napoli 2011, p. 246) .
Nonostante fosse già pochi mesi dopo scagionato dalle accuse e «riprestinato in tanta gratia et favore» (Giovanni Lanfredini a Lorenzo de’ Medici, Napoli 17.VIII.1485, in Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, II, a cura di E. Scarton, Salerno 2002, p. 236). Petrucci non poteva considerarsi fuori pericolo; né sarebbero bastati i tentativi d’imparentarsi, per mezzo del secondogenito e di una figlia ancora nubile, con Organtino Orsini, Pietro Lalle Camponeschi e Nicola Orsini. Per far fronte alla futura successione del duca egli cercò allora l’appoggio – in sodalizio con Francesco Coppola e altre eminenti personalità, e con l’adesione dei figli Francesco e Giovanni Antonio – di quei baroni che sempre più si sentivano minacciati da Alfonso e dalle politiche accentratrici della dinastia, con la quale erano da tempo in rotta.
Sono ancora molti i dubbi sulle dinamiche del suo coinvolgimento nella congiura del 1485: alcune ricostruzioni lo vogliono inizialmente incerto, incalzato però dalla pressione del primogenito, di Coppola e dei baroni; altre, invece, lo vedono assieme al conte di Sarno principale architetto del progetto eversivo, nonché istigatore dei ribelli, ideatore del piano di cattura ai danni del sovrano presso Sarno (ottobre-novembre) e del tentativo di sostituire il principe Federico d’Aragona al duca di Calabria. Di certo Petrucci provvide precocemente ad avviare contatti col papa e a fornire ai nemici del re preziose informazioni. Con i baroni agì poi in piena sinergia a partire dalle trattative a Miglionico, durante le quali ingannò a più riprese il sovrano circa la possibilità di raggiungere un accordo.
Petrucci poté godere della fiducia di Ferrante sino a quando i baroni non diedero ufficialmente inizio alla ribellione (19 novembre 1485) durante una sua missione a Salerno presso i principali artefici della congiura, i Sanseverino, che finsero di prenderlo prigioniero assieme al principe Federico e a Giovanni Pou.
A smascherare il doppio gioco furono l’avventata fuga dalla capitale del primogenito Francesco e il matrimonio del figlio Giovanni Antonio con la figlia di Barnaba Sanseverino, che Petrucci dichiarò esser stato costretto ad accettare. Tornato a Napoli dopo un’evasione, Petrucci trovò dunque ad attenderlo la dissimulazione del re che dopo aver «ripristinato el signor secretario e figluoli nella cancelleria et nello stato loro» – tanto da far sperare al Lanfredini ch’egli potesse divenir «maggiore che prima» (Giovanni Lanfredini ai Dieci di Balia, Napoli 18.XII.1485, ibid., p. 445) – si finse promotore di una pacificazione con i Carafa per mezzo di unioni matrimoniali (agosto 1486). Conscio però d’essere in bilico, Petrucci si prodigò nel dimostrare la propria fedeltà, offrendo di muover guerra al principe di Salerno e contribuendo al supporto finanziario della corona. Al contempo, tentò d’intessere ulteriori alleanze – ambì a ottenere per il primogenito una condotta presso Virginio Orsini – e soprattutto di consolidare il fronte con Pou e Coppola, spingendosi a perorare il matrimonio tra il primogenito di Coppola e la nipote del re (ciò che secondo il Lanfredini gli costò la definitiva rottura con Ferrante, avvalorando l’esistenza di un sodalizio eversivo). Il 13 agosto 1486, dopo la fine del conflitto tra il re e il papa, ebbe termine ogni finzione: in occasione del matrimonio sopra menzionato, Petrucci e la moglie, il conte di Sarno e altri furono arrestati a Castelnuovo. Il segretario fu imprigionato in attesa di giudizio nel «furno» del castello, seguito dai due figli maggiori e dalla consorte – unica fra le donne dei congiurati a finire i suoi giorni in reclusione.
Il re confiscò i beni dei prigionieri, emanando bandi di vendita ancor prima del termine del processo. Dopo due mesi di interrogatori e torture (ma inizialmente i Petrucci rinunciarono a difendersi), arrivò (13 novembre 1486) la condanna a morte per tradimento; la clemenza del re, cui i tre Petrucci si erano rimessi, non arrivò mai. Petrucci fu decollato l’11 maggio 1487, sei mesi dopo l’esecuzione dei figli, e sepolto a San Domenico, nella cappella che aveva acquistato all’apice della sua fortuna.
La vicenda di Petrucci – trasformatosi «da strumento della volontà regia in suo oppositore» – costituisce dunque un perfetto paradigma delle complesse dinamiche socio-istituzionali caratterizzanti il regno di Ferrante.
Nella biografia del segretario occupa un ruolo importante, sino al drammatico epilogo, il primogenito Francesco. Nato intorno alla metà del Quattrocento, ricevé un’educazione umanistica, ma a differenza del padre e dei fratelli minori non fu mai accademico pontaniano. Nonostante gli incerti esordi – nel 1480 rinunciò all’ufficio di conservatore del regio sigillo –, beneficiò dell’ascesa del padre, divenendo coadiutore nella cancelleria regia. La strategia matrimoniale della famiglia lo condusse a sposare Sibilla Orsini, figlia del conte di Manoppello, che gli diede un figlio nell’ottobre del 1485. Nella gestione della contea di Carinola, di Marzano, Marzanello e del casale di Aprano, donatigli dal padre nel 1484, Francesco mostrò notevole iniziativa, compiendo bonifiche e impiantando una cavallerizza e allevamenti bovini; ma tali attività lo posero in forte contrasto con re Ferrante, che vedeva minacciati i suoi interessi in quelle terre. Quando il duca di Calabria esplicitò la volontà di scardinare il potere dei Petrucci e di requisire i feudi posti a 30 miglia da Napoli (fra cui quelli citati), Francesco – cooptato dal conte di Sarno – divenne dunque «sollicitissimo» cospiratore della congiura contro il re, sfruttando a vantaggio dei ribelli l’accesso alle informazioni più riservate. Stando a diverse fonti (tra le quali un criptico sonetto del fratello Giovanni Antonio), fu anzi lui a istigare il padre; e quando i baroni, radunati a Salerno, innalzarono i vessilli pontifici come atto di aperta ribellione (novembre 1485), Francesco lasciò Napoli e si rifugiò al castello di Carinola – che aveva ben fortificato –, gettando forti sospetti sulla complicità dell’intera famiglia. Catturato e condotto a Napoli, fu poi riammesso nelle sue funzioni e feudi, cadendo nella trappola del sovrano. Cercò invano una via d’uscita, in una condotta presso Virginio Orsini, ma nell’agosto 1486 seguì la sorte del padre e del fratello: arrestato a Carinola, fu imprigionato e condannato per tradimento. Considerato dal re «el pegio de tuti», fu giustiziato l’11 dicembre, ed ebbe – unico fra i congiurati – il corpo squartato e gettato fuori città.
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