SALIBA (o Risaliba), Antonello e Pietro de
SALIBA (o Risaliba), Antonello e Pietro de. – Antonello e Pietro de Saliba (o Risaliba), entrambi pittori, sono stati due dei tre figli documentati (il terzo, Luca, era orafo) di Giovanni de Saliba, originario di Noto e abile intagliatore, associato a tutta la produzione siciliana di gonfaloni e icone del grande Antonello da Messina per l’importante apparato ligneo ad essa connesso, e di Orlanda, sorella del pittore. Solo per Antonello si ha un’indicazione abbastanza precisa della data di nascita: affidandolo per quattro anni come apprendista con atto notarile del 21 gennaio 1480 al cugino pittore Jacobello, figlio del celebre cognato defunto l’anno precedente, il padre lo dice di età tra i tredici e i quattordici anni, e dunque nato nel 1467 (La Corte Cailler, 1903, XXII, pp. 439 s.). Che Pietro fosse maggiore del fratello si può solo dedurre dal fatto che padre e madre facevano già parte della carovana di famigliari, ‘serviciales’ e arnesi con i quali Antonello doveva raggiungere Amantea e di lì con un brigantino rientrare a Messina nel gennaio del 1460, reduce da un viaggio di ignota ma probabilmente lontana destinazione, evidentemente di lavoro. La stessa esistenza di Pietro e la sua stretta appartenenza alla famiglia di Giovanni de Saliba sono rimaste sconosciute fino al recupero del suo nome e di quello del padre nei documenti pubblicati da Federigo Alizeri già nel 1870, ma rilevati da Enrico Brunelli solo nel 1906, inerenti a un’importante commissione assunta da Pietro in subappalto a Genova nel 1501, della quale non resta traccia. Di conseguenza, mentre dalle fondamentali ricerche di Gioacchino Di Marzo e di Gaetano La Corte Cailler nell’archivio notarile messinese (1903), distrutto dal terremoto del 1908, sono emersi dati essenziali alla ricostruzione cronologica della figura e delle opere del grande Antonello, ivi compresa la certezza della sua morte nel febbraio del 1479, in precedenza supposta di una quindicina d’anni più tarda, e con essa notizie dell’esistenza del figlio ed erede Jacobello, anch’egli pittore, ed infine della lunga e operosa attività locale del nipote Antonello de Saliba dal 1497 al 1534 (Molonia, 2016), il «Pietro Risaliba pictor» che risultava aver ricevuto nello stesso 1497 a Messina la commissione di uno scomparso gonfalone per Santa Lucia del Mela non venne associato alla famiglia nel grado di parentela a lui spettante. Lo stesso è successo del ‘Petrus Messaneus’ la cui firma era stata rilevata da Joseph Archer Crowe e Giovanni Battista Cavalcaselle (1876) nella Madonna con il Bambino tuttora nell’oratorio di S. Maria Formosa a Venezia, e che Giovanni Morelli (1880) aveva visto apposta anche su una «Madonnina» di proprietà della vedova del marchese Arconati-Visconti a Milano (ma probabilmente Abbiategrasso). Sicché, riassestatisi i dati relativi al maggior Antonello sulla base dei documenti rintracciati, e risultato evidente il protrarsi a Venezia, oltre la data della sua morte, dell’attività di una bottega impegnata in repliche seriali dei suoi ultimi prestigiosi dipinti (S. Sebastiano, pala di S. Cassiano, Cristo alla colonna, Cristo morto compianto dagli angeli) mentre si aggiornava con vario esito anche sul generalizzato utilizzo di modelli di Madonne con il Bambino belliniane, dono augurale in occasione di nascite, se ne avvantaggiò la figura dell’omonimo nipote, ritenuto il responsabile dei risultati più rilevanti di quell’impresa postuma che in area veneta, o da lì provenienti, portavano la firma «Antonellus Messaneus» o «Messanensis» o «Mesanius» (mai seguita dal patronimico), ma apparivano qualitativamente non adeguati al più famoso titolare di quel nome. È accaduto così per la Pietà con tre angeli di palazzo ducale a Venezia ricordata già da Francesco Sansovino (1581) come opera del celebre Antonello, e tale ritenuta ancora dal Cavalcaselle (1871) quando ebbe modo di esaminarla in cattive condizioni nel museo di Vienna dove era stata trasferita e rimase per oltre un secolo dopo la caduta della Repubblica di Venezia, ma poi riferita da Adolfo Venturi (1915) all’omonimo nipote e tale rimasta; così per la Madonna con il Bambino, proveniente da casa Avogadro a Treviso, passata dalla grande collezione di Edward Solly alla collezione di Federico Guglielmo III di Prussia e quindi nella Gemäldegalerie di Berlino (inv. n. 13), dove è andata distrutta nel 1945; così per il Cristo alla colonna giunto alle Gallerie dell’Accademia di Venezia da casa Manfrin, dal Cavalcaselle (1871) ritenuto pur esso del maggior Antonello, ma in seguito posto a dubbioso confronto con la versione della collezione Cook a Londra (oggi del Louvre e non più discusso capolavoro degli ultimi tempi del capostipite), che, pur apprezzato quanto si merita, era stato già dirottato da Constance Ffoulkes (1895, pp. 80-82) verso Andrea Solario, e tale era ritenuto ancora nel 1953 da Roberto Longhi quando il confronto si era già allargato alla versione acquistata dall’Institute of arts di Detroit, pubblicata da Wilhelm Valentiner (1935) con riferimento al parere di Lionello Venturi che fosse il prototipo più antico di Antonello, da lui stesso ripreso nella più drammaticamente concentrata versione Cook (si veda anche Lauts, 1940).
Il recupero di Pietro attraverso il testo dell’Alizeri (1906) fu subito collegato al «Petrus Messaneus pinxit» apposto alla malandata Madonna con il Bambino dell’oratorio di S. Maria Formosa a Venezia, già segnalata dal Cavalcaselle insieme alla migliore versione non firmata del Museo civico di Padova (Raimond van Marle nel 1934 ne avrebbe poi indicato il prototipo nella Madonna Wittgenstein di Giovanni Bellini) e al Cristo alla colonna del Museo di Budapest, indicato da Adolfo Venturi (1900) come una replica andante della tavola già Manfrin passata alle Gallerie dell’Accademia, traendone argomento (1915) per stabilire l’inferiorità del pittore nei confronti del fratello, ribadita da Longhi ancora nel Frammento siciliano (1953) con cui accompagnò l’importante mostra di Antonello aperta a Messina in quell’anno, consuntivo degli studi sul pittore del precedente mezzo secolo, con una sezione dedicata al seguito famigliare tra Venezia e Messina. Della trasferta a Venezia si è supposto promotore e guida il figlio ed erede Jacobello, impegnato subito dopo la morte del padre a portare a termine commissioni locali già da lui ricevute e in parte già pagate, tra le quali si colloca la Vergine con il Bambino dell’Accademia Carrara di Bergamo con la firma commovente e insieme promozionale «Jacobus Anto.lli filiu(s) nõ humani pictoris me fecit» e la data 1480. L’ipotesi è apparsa suffragata dall’assenza di Jacobello alla stesura dell’atto del 7 dicembre 1481 con cui la madre, risposatasi lo stesso anno della morte di Antonello con un notaio, restituiva al figlio quella terza parte dei beni di cui Antonello l’aveva lasciata beneficiaria a condizione che rimanesse vedova. Ma nel Diario (1893-1918) attivamente tenuto da Gaetano La Corte Cailler, e pubblicato solo in anni recenti (1998-2003), l’appassionato ricercatore d’archivio annota e riferisce a Di Marzo (1903, p. 78) di aver ritrovato notizie di Jacobello fino al 1482 e in seguito anche il testamento della vecchia madre di Antonello (La Corte Cailler, II, 2002, p. 614) dettato in data 3 marzo 1488, dal quale trascrive solo che la testante, abitante presso la vedova di Giordano, fratello di Antonello, vi affermava che Jacobello e Giordano erano già morti, senza precisare da quando.
Si sono riaperti a questo punto i termini della questione anche in vista del fatto che nella ricostruzione del ‘dopo Antonello’ è del tutto mancata l’adeguata considerazione del pittore ‘antonelliano’ al quale dai tempi di Francesco Susinno (1724), primo biografo dei pittori messinesi ma noto agli studi solo a partire dal recupero moderno del suo manoscritto e dalla sua stampa nel 1960 a cura di Valerio Martinelli, era andata una valutazione positiva senza riserve, pienamente condivisa dal Di Marzo: vale a dire Salvo d’Antonio, figlio di Giordano e cugino dei fratelli Saliba, del cui Transito e Assunzione della Vergine del duomo di Messina, eseguito tra il 1509 e il 1510, sono superstiti solo una buona fotografia scattata poco prima del 1908 e un frammento con la firma, ma che fu oggetto del più deciso apprezzamento del Di Marzo, e da Longhi giudicato «uno splendido compendio di tanta cultura italiana di quegli anni» (1953, p. 41). Fatti i conti anche con quel matrimonio di Giordano che nel 1461 era stato ragione di uno scontro con Antonello che l’aveva assunto come aiutante, Salvo, al tempo di quel prestigioso traguardo, si avviava verso i cinquant’anni ed aveva alle spalle una continuità di commissioni, falcidiate da eventi o dispersioni, per le più importanti chiese della città, quasi in esclusiva, documentata a partire dal 1493 ma certamente anche più antica: solo a lui può infatti addebitarsi l’imponente Madonna del Rosario del Museo regionale di Messina, scampata in pessime condizioni dai ricorrenti terremoti, e che, a detta di una circostanziata iscrizione trascritta dalle fonti, e posta in origine sotto la straordinaria ancorché disastrata veduta della città dipinta alla base della grande tavola decurtata nelle sue traversie, una processione di popolo, invocando la protezione della Vergine sulla città, aveva portato il 16 luglio 1489 alla sua destinazione originaria, l’antica chiesa di S. Benedetto concessa anni prima ai domenicani (Sricchia Santoro, 1986 e 2017). Quell’importante dipinto, che presuppone un’autonoma esperienza veneziana ma non può essere dell’allora già defunto Jacobello e tanto meno, come è stato supposto, del suo discepolo Saliba prima della partenza per Venezia, pone in effetti Salvo in posizione privilegiata per essere l’effettivo responsabile del traino a nord dei due cugini e dello stesso loro avvio al riutilizzo di modelli e cartoni, nonché del nome della gloria di famiglia apposto nei ‘cartellini’, dove «de Saliba» non compare mai.
È stato già rilevato (Sricchia Santoro 1987 e 2017) che la Pietà con tre angeli di palazzo ducale a Venezia, firmata «Antonius Mesanensis», implica una rielaborazione non indifferente del prototipo di Antonello nel Museo Correr, della quale deve essere ricondotto a Salvo l’impianto e l’avvio, e così lo sviluppo del Cristo alla colonna del Louvre (già coll. Cook) nella versione oggi del Museo di Detroit, con l’ampliamento del busto e l’approfondimento dello spazio definito da una parete in curva dietro la colonna, che è a sua volta la premessa sia della versione già Manfrin delle Gallerie dell’Accademia, ulteriormente ingrandita nelle misure per dar luogo al gioco della corda avvolta anche intorno al braccio e poi gettata sulla spalla sinistra, sia del più tardo e pesantemente chiaroscurato Cristo alla colonna di Pietro acquistato sul mercato antiquario dal Museo di Messina, che si suppone proveniente dalla chiesa veneziana di S. Giorgio in Alga. Nel cartellino della tavola già Manfrin si legge «Antonellus Messaneus me pinxit», ma già Pietro Paoletti nel 1903 notava che solo le due ultime lettere dell’«Antonellus» sono originali e di fatto la prima parte del nome è stipata in uno spazio troppo ristretto in confronto alla spaziatura dei caratteri nel restante dell’iscrizione, bastante però per accogliervi «Petrus», un nome già proposto da Morelli (1880) senza seguito anche per la già citata e perduta Madonna con il Bambino di Berlino, dichiarando falsa la firma appostavi. Evidentemente l’affermazione di Morelli si basava sulla conoscenza della «Madonnina» Arconati-Visconti, che non sembra essere stata ‘vista’ da altri: in ogni caso è dalla comparsa a un’asta Sotheby’s tenutasi a Firenze il 12 maggio 1975 di quest’ultimo dipinto, raffigurante la Vergine con il Bambino benedicente e un devoto, palesemente di ispirazione belliniana, e con un ‘cartellino’ attaccato illusivamente con uno spillo alla veste della Madonna firmato «Petrus Messaneus», che il problema delle spettanze tra i due fratelli ha cominciato a profilarsi nella sua ambiguità (Previtali, 1983-84) e nel proliferare di firme di tempo incerto. Ripresa da Rosanna De Gennaro (1988-89 [1990]), la questione ha comportato lo spostamento sul nome di Pietro, per evidenti concordanze formali e stilistiche, della Madonna con il Bambino e s. Giovannino dello Sheldon Museum of art di Lincoln (Nebraska), già attribuito da Longhi al fratello Antonello ravvisandovi un modello di riferimento toscano, che la studiosa ha individuato nel dipinto di Lorenzo di Credi oggi nel Nelson Atkins Museum di Kansas City, verosimilmente realizzato o portato a Venezia dal pittore fiorentino, incaricato dal Verrocchio nel 1488 di seguire l’ultima fase dei lavori per il monumento di Bartolomeo Colleoni. Ma, a sua volta, il dipinto di Lincoln richiede il trasferimento a Pietro della Vergine in adorazione del Bambino, già Locker Lampson, passata da Christie’s nel 2001 con l’attribuzione al solito Antonello minore (Sricchia Santoro, 2017), in effetti la migliore delle infinite repliche della composizione malamente ripresa anche in Sicilia.
All’apice di questa necessaria revisione sta la Vergine in trono con il Bambino ricavata dalla parte centrale dell’allora integra Pala di S. Cassiano, oggi nel Museo del Ducato di Spoleto, rintracciata sorprendentemente a metà ’800 a Montesanto Vigi, piccolo borgo del territorio spoletino, ma che un recente ritrovamento ha consentito di collegare al testamento dettato il 3 aprile 1497 da un Gentile di Battista da Montesanto, cittadino ed abitante di Fabriano (Felicetti, 1998, p. 226, doc. 368), in cui il testante si propone di costruire una cappella accanto alla tomba dei suoi figli nella chiesa di Montesanto e di collocarvi la «cona» acquistata a Venezia e nel frattempo collocata nella sua casa di Montesanto. Nel ‘cartellino’ all’«Antonellus Messaneus pinxit» sottostà una piccola lacuna, completata con un 1494 in un acquerello di dubbia finalità che ne sarebbe stato tratto a suo tempo (Di Marzo, 1903, pp. 52 s.; Sricchia Santoro, 2017, pp. 323 s.), mentre l’adattamento della celebrata ‘Sacra conversazione’ veneziana a un più modesto altare devozionale comporta nuovamente varianti di impegno, anche nella forma e nell’ornato del trono e nell’autonoma trama pittorica della veste della Vergine, che confinano il contributo del minore Antonello alla modesta centina con i tipici angioletti scarsi di capelli che si ritrovano costantemente nelle sue successive opere messinesi. Se ne ricava uno stacco netto rispetto al dipinto che attesta il rientro della bottega in patria, cioè la Vergine con il Bambino del Museo di Castello Ursino a Catania firmata per la prima volta «Antonellus M…enius D’ Saliba hoc pe..fecit opus 1497 die 2° Julij», che è il prototipo, desunto con palesi difficoltà di resa formale dalle esercitazioni veneziane e specificamente da un modello prossimo alla Vergine con il Bambino già a Berlino, di una sequenza di opere – in massima parte di destinazione periferica, e perciò sottratte in maggior misura all’imperversare degli eventi a Messina – condotte almeno fino al 1517 da Antonello de Saliba in collaborazione con il padre intagliatore, morto in quell’anno, ma poi proseguita fino al 1534, sequenza nella quale già Di Marzo evidenziava i limiti di un’inerte ripetitività e di un tirare artigianale di pratica sul piano formale e pittorico. Brunelli (1904), con qualche maggiore condiscendenza nel giudizio, vi ha solo potuto aggiungere ulteriori numeri: la poverissima Pietà con due angeli inserita al sommo del polittico oggi nel duomo di Taormina (1503-04) dice tutto della marginalità dell’autore rispetto alla versione di palazzo ducale a Venezia e lascia il maggior pregio, in quella e in altre opere, all’intaglio del padre.
Diverse appaiono invece, pur nella loro non facile delimitazione per il moltiplicarsi delle repliche, (come quelle del S. Sebastiano a mezza figura e con ampia capigliatura moderna, a partire dall’esemplare dell’Accademia Carrara di Bergamo), le risorse di Pietro, che sembra muoversi accanto a Salvo già nella resa pittorica un po’ fosca e impastata della Pietà con tre angeli di palazzo ducale e poi nel problema aperto posto dalle versioni del Cristo portacroce, a mezza figura e con il volto sofferente e implorante rivolto al riguardante, inedita iconografia nei tardi anni Ottanta, forse estrapolata dalla grande incisione con la Salita al Calvario di Martin Schongauer. La versione più antica parrebbe quella su fondo scuro nota solo dalla scadente fotografia del catalogo di vendita della collezione di Paul Delaroff (Parigi, 1914), dove è riferita ad Antonello, alla quale è ancora molto vicina quella con fondo di paesaggio già a Roma nella collezione Paolini, pubblicata da Bernard Berenson e poi da Giovanni Previtali come opera di Jacobello, ma che ne supera i tempi e potrebbe spettare ancora a Salvo, mentre appare giustamente riferita a Pietro già da Roberto Paolo Ciardi (1965, p. 39), su suggerimento orale di Edoardo (Wart) Arslan la versione della collezione Cagnola alla Gazzada con un interessante fondo di città.
Prima del rientro in Sicilia la ‘bottega’ dei due fratelli deve aver ancora ricevuto l’insolita commissione della grande Crocifissione per l’altare maggiore della chiesa di S. Agostino a Bovolenta nel padovano, che raffigura ai piedi del Crocifisso la Vergine, tutti gli Apostoli, S. Agostino e forse anche il committente, opera ritrovata da Mauro Lucco (1979) in condizioni disastrate cui il restauro ha potuto porre scarso riparo, e attribuita a Jacobello. La condotta pesantemente discontinua della tavola, particolarmente avvertibile nella goffa resa pittorica dei personaggi della parte sinistra, nella Maddalena in primo piano, negli angeli in volo, potrebbe ben rappresentare sia le difficoltà di una collaborazione dei due fratelli nel grande formato, sia poi la provvisorietà del reinserimento in Sicilia nel 1497 di Pietro, stretto fra l’affermazione di Salvo e i gonfaloni del padre e del fratello.
Il contratto per il perduto polittico firmato a Genova nel 1501 con Leonoro dell’Aquila nativo di Finale, che accenna a lavori precedenti già apprezzati in loco e coincide nei suoi tempi con un’occasione importante quale la visita del re di Francia alla città e anche proprio alla chiesa della Consorzia dei Forestieri, cui l’opera era destinata, richiedeva con la raffigurazione dei confratelli ai piedi della Vergine, quattro santi (uno per ognuna delle quattro nazioni della Consorzia), i ritratti del governatore della città, Filippo di Cleves, e della moglie in preghiera, l’Apostolato nella predella; il compenso pattuito era alto. Anni dopo Leonoro contrattò di persona la vendita del polittico; di Pietro, invece, non si hanno ulteriori notizie. Forse Genova era la tappa di un progetto di ritorno nel Veneto che evidentemente comportava un percorso attraverso il territorio padano e la presa d’atto della svolta culturale maturata del secolo: non si vede altra spiegazione per la novità rappresentata dal S. Jacopo a figura intera pubblicato a suo tempo da Berenson (1957) come opera di Antonello de Saliba, e poi più volte e ancora l’11 luglio 2002 presentato da Sotheby’s con la stessa impropria attribuzione, le cui misure (cm 71x46) farebbero pensare al pannello superstite di un Apostolato, sull’esempio di quello realizzato da Salvo per la cattedrale di Siracusa, ma ormai rispondente alle sollecitazioni di un’altra cultura a cui va evidentemente collegato anche il Ritratto di poeta del Museo Puškin delle belle arti di Mosca. A questo punto le tracce di Pietro si perdono: nel 1517, quando a Messina i fratelli Antonello e Luca si appellano a un lodo per contrasti sulla divisione dell’eredità paterna, né Pietro né suoi eredi sono ricordati.
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