DE ANTONIO, Antonello (Antonello da Messina)
Nato a Messina da Giovanni, "mazonus", e da una Garita, verso il 1425-430, ha operato gran parte della sua vita nella città natale, dando la testimonianza più alta dell'incontro in area mediterranea tra cultura pittorica di radice fiamminga e cultura prospettica italiana.
Quasi tutte le notizie relative alla vita e all'attività del D. sono il risultato di una paziente e abbastanza recente ricerca filologica e archivistica che ha integrato quanto fonti diverse avevano tramandato di un suo breve e operoso soggiorno veneziano tra il 1475 e il 1476, ben documentato anche da opere datate e firmate. Ciò nonostante la ricostruzione della sua attività precedente, almeno fino al 1470, si presenta fortemente problematica a causa della distruzione delle opere menzionate dai contratti ritrovati e degli scarsi punti di appoggio e di riferimento offerti da una collocazione geograficamente e culturalmente così aperta ed eccentrica quale quella in cui visse ed operò il pittore.
Dai documenti messinesi, scoperti e pubblicati a seguito di una campagna di intense ricerche condotte agli inizi di questo secolo dai siciliani Di Marzo 0903) e La Corte Cailler (1903), poco prima che il terremoto distruggesse quasi integralmente gli archivi, abbiamo notizia del nonno, Michele, proprietario di un brigantino, e dei genitori, che sopravvissero al figlio; ma la più preziosa e unica indicazione sugli inizi del pittore viene da una nota dell'umanista napoletano Pietro Summonte che, sollecitato dal veneziano (e buon intenditore di cose d'arte) Marcantonio Michiel a scrivere una relazione sulle vicende artistiche di Napoli (1524), menziona il D. come discepolo del napoletano Colantonio. E poiché lo stesso Summonte fornisce anche notizie chiarificanti sulla formazione di Colantonio e sulla decisa apertura verso la pittura fiamminga determinatasi a Napoli negli anni del dominio di Renato d'Angiò e di Alfonso d'Aragona (1438-458), di cui le opere superstiti di Colantonio sono buona conferma, ne deriva di conseguenza un quadro indicativo dell'orientamento iniziale dello stesso Antonello.
Un quadro che può ben sostituirsi a quel viaggio in Fiandra e a quel rapporto diretto con van Eyck con cui il Vasari (1568) aveva cercato di spiegare la componente fiamminga delle opere veneziane del pittore messinese, ma che resta impossibile sul piano cronologico e non giustificato dalla tecnica, solo mediatamente derivata da modelli nordici. Convergevano infatti, a Napoli, sia gli apporti fiammingo-borgognoni del cosidetto "Maestro della Annunciazione di Aix" ormai identificato con il pittore e miniatore Barthélemy d'Eyck che doveva aver già seguito Renato d'Angiò e fu importantissimo per Colantonio, sia la semplificata assimilazione iberica di modelli fiamminghi portata subito dopo dal pittore di Alfonso d'Aragona jacomart Bai;o, sia, ancora, la sollecitante presenza di opere dei più noti maestri.fiamminghi, Jan van Eyck, Rogier van der Weyden, che Alfonso d'Aragona raccoglieva con grande interesse. Un contesto dunque di preminente accento oltremontano, appena venato da qualche eco della spazialità e della sintesi formale Portate da Firenze a Roma soprattutto dall'opera dell'Angelico poco prima della metà dei secolo e rispecchiato assai fedelmente dal fondamentale altare di Colantonio per la chiesa francescana di S. Lorenzo, oggi conservato nei suoi elementi principali a Capodimonte.
Quando il D. sia entrato nella bottega di Colantonio non è ben precisabile se sitiene conto del fatto che la sua data di nascita viene fissata intorno al 1430 sulla base di un collegamento fra la sicura data di morte, 1479, e il Vasari che lo dice morto a quarantanove anni, ma è fonte non attendibile in materia anche per persone di sua diretta conoscenza.
I primi documenti messinesi c'le lo riguardano ffirettamente sono contratti del 1457: e in essi egli appare già come "magister", con bottega propria e almeno un apprendista alle sue dipendenze, mentre si impegna a dipingere per una confraternita di Reggio Calabria un gonfaIone analogo ad un altro precedentemente dipinto per una confraternita della sua città e che sarà preso varie altre volte a modello diversi anni dopo. Questi gonfaloni, costituiti da una tavola dipinta sulle due facce e inserita entro una grande struttura lignea intagliata inseribile in un'asta processionale, sono perduti; ma dai relativi documenti si deve dedurre un'attività già ben avviata e una notorietà che aveva superato i confini della città e che potrebbe spostare all'indietro, anche prima della metà del secolo, l'arrivo a Napoli del giovane D. per un apprendistato che fu certamente di lunga durata e di solido fondamento, dato il prestigio subito dopo goduto dal pittore.
Di qui l'ipotesi (Sricchia, 1981) che egli potesse aver già parte nella "cona" francescana di Colantonio: in particolare nei Beati francescani, oggi dispersi in varie collezioni, che si disponevano lungo i montanti laterali di quell'altare e che ne costituiscono la nota più sottile e "moderna" per una apertura culturale fra novità nordiche e italiane già messa in relazione (Longhi, 1953; Bologna, 1977) con le esperienze italiane di Fouquet.
Anche la Annunciata dei Musei civici di Como, di stampo colantoniano, ben Si inquadra in una ricostruzione ragionata del primo emergere dei pittore con la sua sottile mescolanza di tratti fiammingo-iberici e di più lucido senso formale (Bologna, 1977).Essa dovrebbe precedere di poco una Vergine leggente della collezione Forti a Venezia, di provenienza siciliana, impostata iconograficamente e tecnicamente più alla fiamminga, che si pone, anche con i particolari degli angeli che la coronano e del gioiello di perle posato Sul mantello all'altezza del braccio, come un trait-d'union con opere più tarde e più sicure del maestro. E su questa base sembra orientabile verso il D. (catal., 1981) anche la piccola, ma straordinaria, Crocefissione già Henschel ed oggi nella collezione Thyssen-Bomemisza a Castagnola (Lugano). Già riferita a Colantonio (Longhi, 1953; Bologna 1977),essa mostra una capacità di adeguarsi alle finezze di un modello eyckiano accompagnata ad una spazialità di impronta italianeggiante, che non ha confronti nel maestro più anziano e tanto meno in area spagnola (Sterling, 1971).
Queste poche tavole che individuano una penetrante assimilazione mediterranea delle novità della pittura di Fiandra -diffuse sia attraverso la mediazione francoprovenzale che attraverso esemplari importati nel Sud aragonese sull'onda di un entusiasmo ben testimoniato dalle biografie di van Eyck e di Rogier van der Weyden scritte a Napoli da Bartolomeo Facio prima del 1456 - rappresentano quanto meno con molta verosimiglianza il cammino del giovane D. negli anni del suo primo affrancarsi nell'ambito della cultura che le opere di Colantonio suggeriscono e del suo primo operare in patria intorno a quei gonfaloni di cui il tempo, i ripetuti sconvolgimenti tellurici e l'incuria hanno fatto tabula rasa.
Ad esse si può aggiungere solo l'immagine turrita del S. Zosimo già nella cattedrale di Siracusa ed oggi nell'arcivescovado, non del tutto autografo nelle condizioni in cui ci è giunta, ma impensabile fuori della diretta area culturale del messinese nei tratti forti del volto e nel connubio tutto particolare dell'impianto solido e maestoso, con un'iconografia di area iberico-napoletana a metà secolo.
Una svolta importante nello svolgimento del D., ma ancora una volta esclusivamente affidata alla ricostruzione critica, resta semicelata nel documento notarile del gennaio 1460, redatto a Messina, con cui il padre del pittore affitta un brigantino con sei uomini a bordo per andare a rilevare ad Amantea, sulla costa calabra, il figlio che doveva rientrare da non si sa dove (era prevista un'attesa di otto giorni ed eventualmente anche di più) insieme con la moglie, il figlio, il fratello (probabilmente da identificare con Giordano, che un documento dell'anno seguente [Perroni Grande, 1923], indica come suo apprendista), la sorella, il suocero, vari famigli e gli arnesi di lavoro. Sulla base delle novità che si riscontrano in opere ormai ben acquisite al catalogo del D., quali la Vergine leggente della Walters Art Gallery di Baltimora e la celebre Crocefissione del Museo di Bucarest (già a Sibiu), si può ritenere che quel viaggio l'abbia messo in diretto contatto con l'ambiente provenzale, con le opere di Barthélemy d'Eyck e di Quarton sparse fra Aix ed Avignone.
È evidente infatti in questi lavori del D. un sensibile accordo con i modi con cui la cultura toscana già passata al filtro della sintesi formale e della luce meridiana di Piero della Francesca, era stata recepita nell'area della Francia meridionale, nei domini di Renato d'Angiò, che proprio tra il 1458 e il 1461 spostava la sua residenza ad Aix e richiedeva le prestazioni degli scultori Francesco Laurana e Pietro da Milano impegnati fino allora, cioè fino alla morte di Alfonso d'Aragona (1458), nei lavori dell'arco di Castelnuovo a Napoli.Nel quadro di questi rapporti anche il viaggio del D. acquista una motivazione credibile, mentre ne risultano meglio giustificate sia le novità stilistiche della Vergine di Baltimora, luminosa e altera nel mantello spezzato da lunghe pieghe geometrizzate ma pur sempre ornato "alla fiamminga" da perle di lucidi riflessi, sia il gran paesaggio marino che si apre dietro alla Crocefissione di Bucarest.
Esso rappresenta chiaramente il porto falcato di Messina ma sarebbe impensabile senza quel gran precedente che è la distesa marina dietro la Crocefissione di Conrad Witz oggi a Berlino-Dahlem, così importante anche per Quarton e per il braccio di mare che questi a sua volta spalanca dietro al Crocefisso nella parte bassa della celebre Incoronazione della Vergine di Villeneuve-lès-Avignon. D'altra parte a questi accenti quartoniani si affianca la stupenda articolazione dei corpi avvinti alle croci che sottintende un giro di orizzonte più ampio, un interesse in singolare coincidenza con l'insistere su valori di nitidezza fiamminga dello stesso Piero della Francesca che è documentato a Roma nel 1459.
Queste caute sperimentazioni di una misura formale nuova entro un contesto improntato dai valori e da un assetto spaziale di ancora evidente ascendenza fiamminga, devono aver caratterizzato ancora a lungo le opere del D. dopo il viaggio del 1460: del resto in buon accordo con il prestigio di cui l'arte "ponentina" godeva non più solo a Napoli o a Ferrara, presso gli Estensi educati a Napoli, ma un po' dovunque, come dimostrano l'invio a Bruxelles presso van der Weyden del pittore degli Sforza, Zanetto Bugatto, la richiesta di opere di Petrus Christus, e più tardi le commissioni urbinati a Giusto di Gand. Anche la Madonna con il Bambino della National Gallery di Londra presenta una situazione di bellissimo compromesso fra due versanti culturali. Ma una testimonianza ben più importante, almeno per la complessità dell'insieme, doveva venire dalla grande "cona" di S. Nicola e storie della sua vita con ricca cornice lignea tardogotica della chiesa di S. Nicola dei gentiluomini a Messina, distrutta nel terremoto del 1908.
La sua datazione cade quasi certamente dopo il 1463, dopo cioè una più antica versione di un S. Nicola in cattedra richiesta dalla Confraternita di S. Nicola alla Montagna nota solo attraverso copie assai odeste. Della "cona" restano oggi i disegni annotati con osservazioni penetranti che ne trasse verso il 1860 il Cavalcaselle, raccolti entro un suo taccuino conservato nella Biblioteca Marciana (Moretti, 1973), e una copia ancora quattrocentesca nella cattedrale di Milazzo (catal., 1981, p. 91), non del tutto fedele, come dimostrano gli appunti e i disegni ora citati, e tuttavia preziosa per restituire almeno mentalmente il complesso con le relative storie. Solo intuibile è invece dalla copia di Milazzo la ricchezza nordica dei paesaggi in cui erano ambientate una buona parte delle Storie di s. Nicola, forse non troppo diversa da quella delle due danneggiatissime tavolette di Reggio Calabria (Museo della Magna Grecia), provenienti non si sa da quale complesso, con un S. Gerolamo penitente e una frammentaria Visita dei tre angeli ad Abramo. Una copia di quest'ultima, di mano del provenzale josse Lieferinxe conservata nell'Art Museurn di Denver, Col., e una derivazione dal prototipo antonelliano dei santo in cattedra nel S. Marco al centro del trittico giovanile del ligure G. Mazone a Liverpool (Walker Art Gall.), sono chiari indizi dell'allargarsi della notorietà del D. e verosimilmente della presenza di opere sue sul versante ligure-provenzale.
Con l'assetto ancora solo marginalmente sensibile alla costruzione prospettica di queste opere contrasta però decisamente il mirabile rigore formale del celebre Cristo benedicente della National Gallery di Londra di ormai radicale fede pierfranceschiana e quindi la data 1465 che l'opera porta in un finto cartellino dipinto sul parapetto: vi si legge il nome di Antonello e quell'anno scritto per esteso ma con qualche scorrettezza insidiosa, seguito dall'indicazione ben nitida dell'indizione VIII, che non corrisponde al 1465 ma al 1475.
A questa incongruenza, già osservata al tempo dell'acquisto, a Genova, della tavola nel secolo scorso, si aggiungono i vistosi rifacimenti in funzione di una più precisa impostazione prospettica cui l'immagine fu sottoposta in corso d'opera. Anche la qualità vellutata della materia pittorico è più vicina a quella delle opere veneziane del pittore. Ne è nata di conseguenza la questione della data effettiva di esecuzione del dipinto con la proposta di dare credito all'indizione (Previtali, 1980) ritardando così agli anni Settanta il pieno inserimento del pittore messinese nefl'area di quella rigorosa cultura di radice pierfranceschiana che, in effetti, affronta proprio in quel decennio, da Urbino a Ferrara a Padova a Mantova, sperimentazioni di più articolata e illusionistica applicazione della "perspectiva artificialis".Proprio nel 1465, dopo due acquisti di immobili a breve distanza in contrada dei Sicopanti, il nome del D. sparisce per vari anni dai documenti messinesi: lo si ritrova solamente nel 1471 a Noto, impegnato con un gonfalone andato perduto, nel 1472 di nuovo a Messina intento a dipingere un polittico, disastrato ma ancora fortunatamente esistente (Messina, Museo regionale) per le suore del convento di S. Gregorio e subito dopo un altro grande polittico, perduto, per la chiesa di S. Giacomo a Caltagirone, di cui si suppone potessero far parte anche le tre cuspidi con Dottori della Chiesa conservate nel museo di Palermo. Quel silenzio dei documenti, dati i ripetuti sconvolgimenti cui Messina e i suoi archivi furono soggetti, può non avere nessun particolare significato, ma il rinnovamento culturale di cui il D. dà segni evidenti a partire dall'Ecce Homo del Metropolitan Museum di New York, che portava la data 1470 sul cartellino (Zeri-Gardner, 1973. p. 2), dà a quel silenzio un valore non trascurabile. Il pittore deve essersi allontanato di nuovo dall'isola, entrando in contatto più diretto con i portatori di una cultura che aveva avuto fino a quel momento per lui un interesse limitato. P, quanto si desume non solo dalla serie, anche iconograficamente inedita degli Ecce Homo (tutti firmati) di New York (1470), di Genova (Galleria Spinola; non datato), di Piacenza (Collegio, Alberoni; 1473), della collezione Ostrowski (1474; andato perduto a Vienna, durante la seconda guerra mondiale: n. 27 del catal. 1981), incentrati su un progressivo approfondimento del disporsi in tralice e dello scorciare di integri volumi che il pennello "fiammingo" restituisce ad una sottile verità di apparenze, ma anche dall'impostazione prospetticamente unitaria del polittico a due ordini delle monache di S. Gregorio, consegnato nel 1473. la cui semplificata essenzialità aggiunge tuttavia altri elementi di appoggio alla datazione ritardata del Cristo benedicente di Londra.
Anche un altro campo sembra affrontato solo ora dal D. su sollecitazione esterna, quello del ritratto nel quale - a partire dal ben noto esemplare di Cefalù (Museo della Fondazione Mondralisca), unico presente in Sicilia e il più antico di quelli noti - si pone chiaramente in concorrenza con Petrus Christus ma tentando di coniugare la verità fisionomica con una più sottile penetrazione psicologica e una nobile ma quasi aggressiva flerezza, che rispecchia altri ideali di immagine umana.
Alcuni di questi ritratti (quattordici in tutto sono perveauti) sono stati certamente eseguiti in questi anni di permanenza in Sicilia ma, salvo quello di Cefalù, sembrano tutti destinati a committenti non locali di passaggio. È sintomatico che il biografo degli artisti messinesi, Francesco Susinno, attento raccoglitore di ogni memoria locale, non trovasse agli inizi del Settecento neppure un ritratto da citare in loco, benché avesse notizia dal Vasari di quelli che esistevano a Venezia, e la stessa cosa vale per gli Ecce Homo.
Questi ritratti, insieme con le piccole tavole alla fiamminga come il S. Girolamo della National Gallery di Londra, che al tempo del Michiel (1521-43) era in casa Pasqualino a Venezia, dovettero essere la carta vincente del D. e il motivo primo del suo trasferimento nella laguna.
La guastissima Annunciazione di Palazzolo Acreide oggi nel Museo Bellomo di Siracusa (contratto dell'agosto del 1474), fu l'ultimo impegno del D. prima della partenza, e il suo mirabile equilibrio di incastri prospettici esaltati dalle molteplici fonti luminose e di nordica ricchezza di particolari di interno e di paesaggio ne fa il più esatto punto di riferimento cronologico anche per il citato e celebre S. Gerolamo londinese, non di rado ma incomprensibilmente proposto per anni giovanili.
Non è noto chi specificamente favorisse il trasferimento del D. a Venezia, che forse doveva essere definitivo ed ebbe invece una durata di meno di due anni per ragioni altrettanto ignote.
È stato proposto (Puppi, 1893) che il protettore del pittore fosse fin dall'inizio quel Pietro Bon che gli commissionò a Venezia nell'agosto del 1475 la sua opera più celebre, un altare per la chiesa di S. Cassiano, e che avendo ricoperto l'incarico di console a Tunisi, si trovava nelle condizioni migliori per venir a conoscere durante uno scalo a Messina, teppa abituale, le qualità del pittore. Ma un altro possibile canale è quello della cerchia di siciliani, uomini di lettere ma anche. di non scarsi interessi artistici, residenti fra Padova e Venezia, fra i quali era quel Matteo Colazio che nel 1475 esaltava l'opera del D. per S. Cassiano in una solenne lettera in latino indirizzata ad un "Antonio Siculo" e poi premessa ad una sua Lausperpectivae pubblicata con altri scritti di retorica nel 1486.
In ogni caso il D., forse accompagnato già dal figlio Iacobello che pochi anni dopo ne erediterà la bottega e gli impegni, si trovò ad affrontare a Venezia un numero davvero eccezionale di commissioni: ritratti di personaggi di alto livello sociale come il Condottiero del Louvre, datato 1475, e particolarmente in vista nell'ambito del più esigente collezionismo come quelli di Michele Vianello e di Alvise Pasqualino, ricordati dal Michiel con la stessa data 1475 ma oggi non più individuabili tra i ritratti rimasti (molti dei quali hanno subito una decurtazione per ragioni commerciali nella parte inferiore, dove abitualmente appariva la firma entro un cartellino), tavolette "ponentine" come la Crocefissione di Anversa (Musée Royal des Beaux-Arts), pur essa del 1475, e il già citato S. Girolamo di Londra, due grandi altari per le chiese di S. Cassiano e di S. Giuliano.
Di questi ultimi, quello di S. Cassiano per Pietro Bon, già ai primi del Seicento ridotto in cinque frammenti, passò a Londra e subito dopo a Bruxelles nella collezione dell'arciduca Leopoldo Guglielmo d'Austria, ma già con attribuzione al Bellini, per giungere poi a Vienna dove tre pezzi soli (Kunsthistorisches Museum) sono stati ricuperati e riconosciuti dal Berenson (1917) come parte della pala celebrata dalle fonti antiche, del secondo, smembrato anch'esso già nel Cinquecento, resta solo il pannello con il S. Sebastiano di Dresda (Staatliche Gemäldegalerie), pur esso ritenuto del Bellini finché non lo restituirono al D. Crowe e Cavalcaselle (1876, pp. 120 s.). E in effetti il coinvolgimento profondo nel mondo belliniano che spira da queste opere è tale da giustificare le confusioni di un'epoca che ignorava del tutto i precedenti messinesi del D. e la consistenza della sua figura artistica, né poteva dar corpo, dopo tante e precoci dispersioni, ai riconoscimenti che gli avevano tributato il Vasari (1568), il Sansovino (1581), indicando nel suo arrivo a Venezia e nelle opere che vi realizzò il momento di una svolta decisiva nella storia della pittura veneziana.
Un rapporto concorrenziale con Giovanni Bellini emerge già dalla Pietà del Museo Correr che riprende lo splendido pensiero della Pietà di Rimini (Museo civico) del veneziano in termini di nuova ombrosa intensità pittorica, di più caldo sentimento e di incredibile eleganza compositiva.
Bellini rivelava al D. tutto un mondo nuovo di immagini che questi fu rapidissimo ad assimilare e a sviluppare per suo conto giungendo già nella pala di S. Cassiano, quale è possibile ricostruirla nel suo insieme per varie vie (Teniers, 1660; Wilde, 1929; Robertson, 1977) a dare un esempio nuovissimo di grande "Sacra Conversazione" piramidata con la Vergine sollevata alta sul trono e i santi disposti spaziosamente ai lati di esso come in un proscenio, solenni nei paramenti splendenti.
Più tardi un analogo rapporto di dare e avere si impone con la Pietà del Museo del Prado the intreccia un dialogo fitto con il modello belliniano della Pinacoteca Vaticazia, già cimasa della pala di Pesaro.
Di altri profondi e innovatori contatti con l'ambiente padovano e con l'influenza che vi avevano esercitato i complessi studi prospettici di Piero della Francesca anche atttwerso le celebrate ma perdute tarsie dei coro de; Lendinara ammirato dal Colazio (1486), sono testimonianze di livello altissimo il S. Sebastiano di Dresda, già in S. Giuliano, l'Annunciata di Palermo (Galleria regionale della Sicilia), il ritratto Trivulzio di Torino (Museo civico).
Nel marzo del 1476 il D. riceveva da Galeazzo Maria Sforza duca di Milano l'invito a sostituire a corte il ritrattista Zanetto Bugatto, morto da poco, con promesse di vantaggioso trattamento. Il pittore dovette recarsi a Milano prontamente, latore di una lettera di Pietro Bon che chiedeva di poterlo trattenere a Venezia una ventina di giorni per le rifiniture alla pala di S. Cassiano che "serà delle più eczellenti opere de penelo che habia Ittalia e fuor d'Ittalia" (Beltrami, 1894). Non si sa che seguito abbia avuto l'invito: nel 1562 il messinese Maurolico, pur non mostrandosi informato sulla specifica attività del pittore, affermava che il - D. "etiam. Mediolanii fuit percelebris". In ogni caso nel settembre dello stesso anno il D. era di nuovo a Messina, forse per sistemare definitivamente i suoi affari, ma nel dicembre lo Sforza veniva assassinato. L'anno successivo diversi contratti anche con committenti catanesi dimostrano che il pittore era stabilmente rientrato nella sua città dove sarebbe morto di lì a poco nel febbraio del 1479.
Messa a confronto con l'assenza delle opere menzionate nei contratti siciliani, la conservazione di un cospicuo numero di opere riferibili all'ultimo lustro della sua vita (oltre a quelle citate, altri ritratti, la Crocefissione della National Gallery di Londra, la Annunciata delle Staatsgemáldesamnùungen di Monaco, il Cristo alla colonna della collezione Cook a jersey, la cosiddetta Madonna Benson della National Gallery di Washington) che non poterono essere tutte eseguite durante il breve soggiorno veneziano, suggerisce che anche in Sicilia il grosso della sua attivita negli anni Settanta fosse ormai destinato ad una clientela non locale (veneziana soprattutto e forse anche milanese) con la quale la bottega ereditata dal figlio lacobello mantenne legami più o meno diretti replicando fra l'altro frequentemente le opere più famose del maestro. Morto precocemente anche Iacobello, questa attività ripetitiva passò ai nipoti Antonello e Pietro de Saliba (o Risaliba), figli di una sorella del D. e di Giovanni de Saliba che aveva collaborato alle opere del cognato come intagliatore; ma solo il figlio del fratello Giordano, Salvo d'Antonio, fu capace di ricevere e di far fruttare degnamente l'eredità. culturale dello zio.
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