Antitrust
Il processo di liberalizzazione e le privatizzazioni nei Paesi sviluppati hanno attribuito una maggiore centralità all'intervento antitrust, che, nel frattempo, ha esteso il suo ambito di applicazione a molti Paesi in via di sviluppo e dell'ex Unione Sovietica. All'inizio del 21° sec. la politica della concorrenza rappresenta un corpo di principi relativamente omogeneo che informa una parte considerevole delle economie di tutto il mondo. Essa si articola in tre principali aree: il controllo preventivo delle concentrazioni, il divieto di intese restrittive della concorrenza e la restrizione di abusi di posizione dominante. L'intervento antitrust per le concentrazioni rappresenta un controllo ex ante finalizzato a impedire quelle operazioni che risultano idonee ad aumentare la probabilità di collusione o che permettono alle imprese di aumentare unilateralmente i prezzi. Il divieto d'intese collusive tra le imprese, oltre a essere la ragione storica dell'introduzione della prima normativa antitrust (Sherman act), ne costituisce il principale campo di applicazione. La repressione degli abusi di posizione dominante configura una politica ex post mirante a impedire le pratiche escludenti messe in atto da imprese dotate di potere monopolistico. Tale tipologia d'intervento si sovrappone in qualche misura a quella dell'intervento strettamente regolamentare, che agisce in via preventiva. L'intervento pubblico nei confronti delle imprese monopolistiche si prefigge due obiettivi: il contenimento dei profitti monopolistici e la minimizzazione delle barriere all'entrata di tipo strategico, quelle cioè dovute a specifiche condotte messe in atto dalle imprese monopolistiche. Ne deriva una sorta di specializzazione tra i due tipi di interventi pubblici: la regolamentazione propriamente detta si occupa prevalentemente del primo obiettivo, l'a. persegue il secondo.
Contenuti dell'intervento antitrust
I contenuti dell'intervento a. nei vari contesti nazionali appaiono di solito combinati con altre finalità d'intervento pubblico. Per quanto concerne gli Stati Uniti l'esigenza di tutelare le imprese di piccole dimensioni ha per lunghi periodi caratterizzato la politica della concorrenza, mentre quella perseguita nell'Unione Europea è risultata spesso condizionata dall'esigenza di integrare il mercato comune. Anche per i Paesi che per ultimi hanno introdotto nei loro ordinamenti un intervento a., soprattutto quelli appartenenti all'ex Unione Sovietica, la commistione tra a. e intervento regolamentare, se non addirittura pianificatorio, è apparsa inizialmente assai stretta.
La globalizzazione, il processo di privatizzazione e di deregolazione delle economie ha alimentato una domanda d'intervento antitrust alla quale questo non si è sottratto. Ciò è stato reso possibile da un impiego estensivo dell'analisi economica. La cosiddetta scuola di Chicago (F. Easterbrook, R. Posner, R. Bork), che si è affacciata sulla scena americana nel corso degli anni Settanta del 20° sec., aveva rappresentato una decisa sterzata dell'a. verso questa direzione. Non che l'analisi economica non fosse stata fino ad allora impiegata nella valutazione dei casi antitrust: per es., nel dibattito degli anni Quaranta-Cinquanta sul basic point pricing (una particolare forma di discriminazione di prezzo adottata da imprese oligopolistiche), che aveva coinvolto alcuni degli economisti allora più noti. È inoltre indiscussa l'influenza che nei primi decenni del secondo dopoguerra hanno esercitato gli economisti della Harvard University. Ma vi erano alcune zone dell'intervento antitrust, relative soprattutto alle concentrazioni e alle restrizioni verticali, che continuavano a essere valutate in modo essenzialmente formalistico. La scuola di Chicago aveva inoltre profondamente contrastato un approccio antitrust particolarmente sospettoso delle grandi dimensioni aziendali. Merito indiscusso di questa scuola è stato, dunque, quello di aver attirato l'attenzione sulla necessità di basare la politica della concorrenza su solidi argomenti deduttivi tratti dall'analisi economica. Tale scuola però non era soltanto questo. Essa infatti si muoveva tenendo ferma una premessa ideologica di un radicale laissez faire che implicava un sostanziale ridimensionamento dell'attivismo delle autorità antitrust, con la significativa eccezione della lotta ai cartelli. Questo pregiudizio ideologico è apparso evidente quando, a partire dagli anni Ottanta del 20° sec., gli economisti hanno cominciato a produrre altri modelli nei quali si evidenziavano le ripercussioni negative, in termini di benessere collettivo, di strategie di impresa (per fare un esempio, quelle relative alle restrizioni verticali) giudicate benevolmente dai teorici di Chicago.
Pertanto con il tempo si è ben compreso che la contrapposizione tra i due approcci, detti Chicago e Post-Chicago, non riguardava tanto le finalità ultime dell'intervento antitrust, che ambedue queste scuole riconducevano alla massimizzazione del benessere del consumatore, né la centralità dell'analisi economica, ormai largamente condivisa, bensì quelle che si potrebbero definire le premesse ideologiche. La scuola di Chicago ha una marcata fiducia nel funzionamento dei meccanismi automatici di correzione laddove coloro che variamente gli si contrappongono ritengono che le distorsioni del mercato richiedano, per essere corrette, un'attiva politica della concorrenza.
Anche grazie alla scuola di Chicago e al dibattito che ne è seguito l'associazione tra politica della concorrenza e analisi economica è ormai divenuta così stretta da portare taluni a sostenere che l'a. costituisca una mera branca dell'economia. Decisivi, per tale evoluzione, sono risultati i recenti progressi della disciplina economica nel campo della teoria dei giochi e delle tecniche di analisi empirica. In particolare la teoria dei giochi ha svolto un ruolo di primo piano in tutte le principali sfere d'intervento antitrust: nel controllo delle concentrazioni la teoria dei giochi ha dato rigore ai modelli economici impiegati per predire gli effetti sui prezzi causati dal venir meno della concorrenza tra le imprese che si uniscono; nella valutazione delle intese ha consentito di chiarire le condizioni che rendono possibile la formazione e la stabilità dei cartelli.
Ma è soprattutto in relazione agli abusi di posizione dominante che la teoria dei giochi ha fornito nuovi strumenti per comprendere le principali strategie adottate dalle imprese per escludere i concorrenti. Il secondo decisivo aiuto che l'analisi economica ha fornito all'attività antitrust riguarda l'impiego di tecniche di stima quantitativa. Finora queste si sono rivolte soprattutto alla simulazione, in termini di prezzi e di posizionamento dei prodotti, degli effetti delle concentrazioni. Sono state proposte anche metodologie di valutazione preventiva tese a stimare la probabilità che taluni comportamenti d'impresa obbediscano a logiche di cartello. Le stime quantitative sono assai sensibili alle assunzioni che vengono premesse all'analisi. Ciò ha dunque condotto, seguendo la giurisprudenza Daubert (il nome deriva da una nota decisione della Corte suprema americana), a prestare una particolare attenzione nel controllare che quelle adottate siano effettivamente appropriate al caso in questione. Il riferimento è al caso, peraltro non di a., Daubert contro Merrel Dow Pharmaceuticals, rispetto al quale la Corte suprema, con sentenza del 1993, ha stabilito che le testimonianze degli esperti che vengono citati in giudizio possono essere ammissibili solo se scientificamente valide e se "sufficientemente connesse con i fatti del caso".
Ovviamente l'impiego di metodi economici nell'ambito delle situazioni di a. pone un problema di bagaglio di conoscenze richieste a chi, a vario titolo (autorità indipendenti, giudici), spetta il compito di valutare i casi. Negli Stati Uniti da tempo le autorità antitrust (Federal Trade Commission, Dipartimento di giustizia) si sono dotate di nutriti staff di economisti guidati, a rotazione, da accademici. Inoltre il profilo formativo dei nuovi antitrusters sempre più contempla l'abbinamento di studi di diritto e di economia. In Europa sia la Commissione sia diversi Stati nazionali hanno recentemente istituito la figura del chief economist con compiti di supervisione della qualità dell'analisi economica applicata ai vari casi.
L'area che ha comunque mostrato il maggiore dinamismo nei tempi più recenti è risultata quella relativa alla lotta contro la collusione. Sono stati smantellati numerosi cartelli, tra i quali vanno segnalati per importanza quelli relativi ai prodotti chimici (vitamine e lisina). Tali progressi sono stati resi possibili dall'esteso uso di programmi di clemenza, i quali implicano un sostanziale annullamento di pena (pecuniaria e detentiva, per i Paesi che la contemplano) per i soggetti o le società che per primi si autodenunciano per l'appartenenza a un cartello. Nel contempo la deterrenza contro comportamenti anticompetitivi è stata sensibilmente rafforzata. Il livello delle sanzioni, soprattutto per fenomeni collusivi, ha raggiunto valori assai elevati sia negli Stati Uniti sia in Europa.
Cooperazione internazionale
La maggiore integrazione economica internazionale come anche l'estensione del controllo antitrust a economie che in precedenza non lo contemplavano hanno posto all'ordine del giorno un problema di cooperazione e di coordinamento internazionale. I numerosi nuovi organismi antitrust che hanno cominciato a operare a cavallo della fine dello scorso secolo hanno generalmente risorse scarse e poco esperte. È assai sentita dunque l'esigenza, da parte dei policy makers e di coloro che a vario titolo sono implicati nei casi antitrust (imprese multinazionali, studi legali, società di consulenza) di far progredire queste nuove realtà, al fine di creare un ambiente relativamente omogeneo con il quale confrontarsi. Inoltre, soprattutto con riferimento alla lotta contro i cartelli, si avverte una diffusa esigenza di coordinamento e di scambio di informazioni allo scopo di migliorare la capacità di detenzione delle condotte anticoncorrenziali. Infine, molti dei più importanti interventi antitrust degli ultimi anni, nel campo delle concentrazioni, delle intese e degli abusi, hanno riguardato contemporaneamente più giurisdizioni. È potuto quindi accadere che un'operazione (o una condotta) valutata benevolmente in un Paese sia invece stata considerata contraria al buon funzionamento di un mercato in un'altra giurisdizione. Il caso più emblematico di questo contrasto di orientamenti è quello relativo all'operazione di concentrazione tra General Electric e Honneywell vietata dalla Commissione europea e invece approvata dal Dipartimento di giustizia americano. Tale operazione creava un problema di natura essenzialmente verticale e conglomerale, essendo la General Electric un primario produttore di turbine a reazione e la Honeywell uno dei principali fornitori di apparecchiature elettroniche per aerei. La Commissione ha giudicato tale profilo assai rilevante al contrario del Dipartimento di giustizia che, come in casi analoghi, non ha riscontrato sostanziali profili concorrenziali nella presenza di una medesima impresa in più punti della stessa filiera.
Gli anni a cavallo dell'inizio del 21° sec. hanno visto il fiorire di numerose iniziative volte a ridurre la distanza tra le diverse giurisdizioni, armonizzandone i principi sostanziali. A fianco di iniziative bilaterali che hanno mostrato un notevole attivismo soprattutto degli Stati Uniti, con importanti accordi con la Comunità europea, il Canada e l'Australia, si è consolidato il ruolo dei centri deputati alla cooperazione multilaterale (OCDE, Unctad, WTO). Ma la principale novità riguarda la creazione di due importanti momenti di confronto, uno mondiale e l'altro europeo. L'ICN (International Competition Network) è un network informale, alcuni lo definiscono virtuale, che abbraccia le ormai circa cento autorità antitrust di tutto il mondo. Esso è un mero luogo in cui si scambiano esperienze e dove vengono predisposte raccomandazioni in merito ai contenuti delle norme antitrust e alle cosiddette best practices. La mancanza di un potere d'imposizione ha costituito la principale ragione del suo successo. Ciò ha infatti favorito l'adesione delle varie agenzie antitrust e ha permesso una discussione assai libera sugli argomenti più controversi. Stimolate da questo ampio confronto molte autorità antitrust hanno poi adeguato la propria normativa e le prassi applicative seguite. I temi che hanno ricevuto più attenzione hanno riguardato il controllo delle concentrazioni, la cooperazione in tema di intese, il potere di segnalazione e i rapporti tra regolazione e concorrenza. L'Italia ha avuto un ruolo di rilievo in questo network a partire dalla sua prima conferenza che si è tenuta a Napoli, nel 2001, a opera delle 14 autorità antitrust che lo hanno fondato.
L'ECN (European Competition Network), che è stato istituito nel 2003, ha una struttura meno informale. Questo perché i suoi compiti trascendono la mera cooperazione e riguardano anche lo scambio di informazioni, l'allocazione, tra la Commissione e le varie autorità nazionali, dei casi riguardanti la disciplina comunitaria (artt. 81 e 82 del Trattato) e l'uniforme applicazione della stessa. Più in particolare l'ECN regola l'attribuzione dei casi controversi tra le singole autorità nazionali, pool di più autorità nazionali e la Commissione stessa. Il meccanismo di allocazione dei casi è basato sia sull'area geografica dove sono localizzati gli effetti dell'infrazione concorrenziale e dove sono ubicate le imprese che la provocano sia sull'importanza dei principi da essa sollecitati: un caso denotato da una particolare novità rispetto alla consolidata giurisprudenza dovrebbe essere pertanto generalmente avocato dalla Commissione. Inoltre, esclusa la possibilità che l'uniforme applicazione del diritto comunitario sia assoggettata al controllo di corti comunitarie di appello, perché ciò entrerebbe in conflitto con gli ordinamenti costituzionali degli Stati membri, è la Commissione stessa a ricoprire il ruolo di garante dell'uniforme applicazione del diritto.
Principali novità riguardanti l'Unione Europea e l'Italia
Soprattutto nel corso dei primi anni del nuovo millennio, sotto la guida del commissario M. Monti, si sono avuti significativi cambiamenti dell'a. comunitario che hanno riguardato sia l'indirizzo di policy sia il modello organizzativo. Dal punto di vista dei contenuti e degli orientamenti di policy si è assistito a un deciso allineamento con gli Stati Uniti. Sostanzialmente è stato adottato lo stesso standard di valutazione delle concentrazioni (divieto delle concentrazioni che 'significativamente impediscono l'effettiva concorrenza'), il quale consente di vietare anche quelle concentrazioni che possano determinare un significativo aumento dei prezzi a causa della presenza di un oligopolio concentrato d'imprese. Invece l'originario standard, che pure è rimasto in vita come caso particolare, consentiva solo di vietare una concentrazione che potesse creare o rafforzare un monopolio (posizione dominante). Sempre similmente agli Stati Uniti, la normativa comunitaria si è dotata di strumenti particolarmente efficaci per combattere i cartelli e gli abusi di posizione dominante, quali i programmi di clemenza e la possibilità di imporre misure strutturali per ripristinare sufficienti condizioni concorrenziali. Più in generale la politica della concorrenza europea ha mostrato un accentuato processo di convergenza con quella americana sia rafforzando in misura significativa il ruolo dell'analisi economica nell'ambito del processo decisionale sia privilegiando la lotta ai cartelli, che, come recita una recente e assai importante sentenza (Trinko) della Corte suprema americana, costituisce il "male supremo per l'antitrust".
Con tale decisione la Corte suprema ha, tra l'altro, sostenuto che una violazione della regolamentazione, da parte di un'impresa in posizione dominante, non necessariamente si configura come un'infrazione della normativa antitrust. Un'evidenza assai eloquente della decisa accentuazione anticartellistica della politica della Commissione è rappresentata dal livello delle sanzioni comminate per fenomeni collusivi nel periodo 2000-2003: esse sono state pari a 3330 milioni, più di tre volte il valore relativo all'intero periodo 1988-1999. Anche il supposto contrasto con gli attuali orientamenti statunitensi in tema di abusi di posizione dominante e di concentrazioni conglomerali non deve essere eccessivamente enfatizzato. La decisione che la Commissione ha assunto nei confronti di Microsoft, rea di aver abusato del suo potere di mercato ostacolando l'interoperabilità di sistemi concorrenti con il suo sistema operativo e legando a questo un altro software applicativo (Windows media player), sebbene criticata dagli esponenti delle agenzie antitrust americane dell'amministrazione Bush, era sostanzialmente coerente con due importanti casi americani che avevano interessato la stessa Microsoft nel corso degli anni Novanta. Vale inoltre la pena di ricordare che nel vietare la concentrazione General Electric/Honeywell, la Commissione ha subito la decisiva influenza di teorie elaborate da economisti americani. Notevole importanza hanno anche avuto i cambiamenti che sono stati apportati al processo decisionale in seno alla Commissione. Differentemente dagli Stati Uniti, dove i casi antitrust vengono decisi da una Corte, la Commissione svolge un duplice ruolo vale a dire quello di pubblica accusa e quello di giudice, con l'inevitabile rischio di conflitto fra i due ruoli.
Al fine di minimizzarlo, la Commissione ha ridisegnato interamente il suo processo decisionale. Dell'istituzione della figura del chief economist, che risponde direttamente al commissario della concorrenza, si è già detto. È inoltre stata istituita un'apposita funzione (peer review) che è interna alla Commissione con il compito di controllo della solidità delle argomentazioni giuridiche avanzate dai teams istruttori che seguono i casi.
In Italia, caratterizzata da un'analoga sovrapposizione di ruoli, il problema era stato affrontato sin dai primi anni di vita dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato. A esso si è data soluzione separando nel modo più netto possibile il momento istruttorio, che ricade sostanzialmente sotto la responsabilità diretta della struttura, e il momento decisionale che è di competenza del collegio giudicante. Se dunque sotto questo profilo, grazie ai cambiamenti apportati dalla Commissione, la realtà nazionale si presenta più simile a quella comunitaria, si deve nel contempo osservare che, sul piano dei contenuti più strettamente di policy, non sono stati ancora tradotti nell'ordinamento nazionale i cambiamenti recentemente intervenuti in ambito comunitario. Mancano programmi di clemenza, non sono previste misure strutturali per ripristinare condizioni di sufficiente concorrenza e lo standard di valutazione delle concentrazioni è rimasto ancora quello basato unicamente sul rafforzamento o sulla creazione della posizione dominante. Nel tempo si è dunque andato in parte perdendo quello che aveva costituito il tratto caratteristico della nostra normativa nazionale, cioè il totale allineamento sui principi comunitari.
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