NICCOLO V, antipapa
NICCOLÒ V, antipapa. – Pietro Rinalducci (Rainalducci) nacque attorno al 1258 a Corvaro, castrum nel contado di Rieti, variamente denominato nel Medioevo (Corbarium, Corbarum, Corvaio, Corbara).
Le notizie sulla famiglia e sui primi anni di attività sono rare e incerte. L’unica informazione anteriore al 1285 riguarda il suo matrimonio con Giovanna di Matteo e il successivo scioglimento di tale vincolo. Nel 1285 entrò nell’Ordine francescano e fu assegnato alla custodia di Rieti. Fu quindi trasferito a Roma, nella comunità del convento dell’Ara Coeli, di cui fece parte fino alla elezione al soglio pontificio.
In quegli anni, sotto la pressione del papato, l’Ordine era agitato dallo scontro sull’interpretazione del messaggio di s. Francesco e sulla conseguente definizione dell’identità dell’Ordine stesso, che sfociò nell’aspra contrapposizione tra il pontefice residente ad Avignone, Giovanni XXII, e il generale Michele da Cesena, il quale nel 1321 si era pronunciato nel dibattito teologico sulla povertà del Cristo e degli apostoli sostenendo l’opinione per cui essi non avevano goduto di nessun diritto di proprietà, né singolarmente né collettivamente. Prima che il papa definisse ufficialmente la questione, il capitolo generale dell’Ordine, riunito a Perugia nel 1322, sentenziò in presenza di Michele l’ortodossia della sua posizione. Il pontefice invece dichiarò eretica la proposizione con la bolla Cum inter nonnullos del 12 novembre 1323.
In tale contesto Rinalducci ebbe probabilmente un certo ruolo, dal momento che si guadagnò una reputazione di coerenza e dedizione al messaggio francescano, interpretato nella sua accezione più spirituale: «magnus praedicator […] vir mirae abstinentiae, paupertatis Evangelicae, et religiose obedientiae, qui multos in viam salutis reduxit» (Wadding, 1733, p. 78). Fu anche questa reputazione a determinare la sua scelta per l’elezione papale.
L’elezione e il pontificato di Niccolò V sono strettamente legati allo scontro tra l’imperatore Ludovico IV di Baviera e Giovanni XXII, nel contesto italiano di contrapposizione tra le due reti di alleanze sovraregionali, gli schieramenti guelfi e ghibellini. Dopo aver sconfitto l’altro pretendente al trono imperiale, Federico d’Austria, Ludovico scese nella penisola e si fece incoronare re d’Italia a Milano nel 1327. All’inizio dell’anno successivo entrò in Roma, dove, l’11 gennaio 1328, si fece eleggere imperatore da un’assemblea di romani e incoronare in S. Pietro dai vescovi di Aleria e Castello, ribelli al Papato avignonese. Nell’aprile successivo, Ludovico convocò una nuova assemblea in cui dichiarò deposto Giovanni XXII. Il passo successivo fu l’elezione di un nuovo pontefice. Preliminarmente l’imperatore aveva decretato delle norme alle quali il futuro papa avrebbe dovuto sottostare e che, in sostanza, legavano il pontefice alla città, imponendogli tra l’altro l’obbligo di non allontanarsi da Roma per oltre due giorni di viaggio senza il consenso dell’imperatore o del popolo romano, così come quello di rientrare immediatamente in città su loro richiesta. Avvenuta formalmente su indicazione di un collegio di 13 delegati del clero romano, sollecitati dall’imperatore, la scelta del nuovo papa cadde su Rinalducci. Le tensioni politiche che sottostavano a tale scelta si riflessero nella ritualità inconsueta e ricca di significati della solenne cerimonia di consacrazione, svolta il 12 maggio 1328 in S. Pietro e articolata in quattro fasi.
Innanzitutto la designazione imperiale: sul portico antistante la basilica dinanzi alla folla, l’imperatore, attorniato da alti prelati, chierici, nobili della sua corte, baroni romani e rappresentanti del Comune, fece avanzare Rinalducci e lo fece sedere sotto il baldacchino. Seguì un esplicito messaggio di propaganda: l’eremitano agostiniano Niccolò da Fabriano pronunciò un sermone sul tema evangelico «Reversu Petrus ad se dixit: Nunc scio vere quia misit Dominus angelum suum, et eripuit me de mano Herodis, et de omni expectatione plebis Iudeorum» (Acta Apostolorum, 12, 2). L’allegoria era imperniata sull’identificazione dell’imperatore con l’angelo del Signore, di papa Giovanni XXII con Erode e del clero filoavignonese con la plebe giudaica. Seguì l’accettazione da parte del popolo romano: il vescovo di Castello, Iacopo Alberti da Prato, interpellò per tre volte la folla, che rispose acclamando il nuovo pontefice. La cerimonia si concluse con la conferma dell’elezione da parte dell’imperatore, che consegnò al papa i simboli dell’autorità apostolica, l’anello e il manto pontifici. Infine, gli attribuì il nome Niccolò. Anche questa scelta aveva un chiaro significato politico, legato all’Ordine francescano e al suo rapporto con il papato: era stato Niccolò III, nel 1279, a emanare la bolla Exiit qui seminat con cui erano state definite le regole della povertà dell’Ordine, oggetto del contrasto in corso tra Michele da Cesena e Giovanni XXII; inoltre Niccolò IV, prima di ascendere al soglio di Pietro, aveva ricoperto la carica di generale dell’Ordine francescano.
Dieci giorni dopo la nomina, il giorno della Pentecoste, ebbe luogo la cerimonia della doppia incoronazione. L’imperatore, dopo essere uscito dalla città e aver risieduto per qualche tempo a Tivoli, rientrò in Roma. Quindi imperatore e pontefice si recarono in processione dal Laterano alla basilica vaticana, dove avvenne l’incoronazione reciproca, che rappresentava la concordia e l’equilibrio tra il vertice temporale e quello spirituale della Cristianità.
Il nuovo papa immediatamente prese due importanti iniziative. Innanzitutto costituì una struttura ecclesiastica e amministrativa a imitazione di quella avignonese: si dotò di una cancelleria costituita da 6 abbreviatori, un correttore, 11 scriba, un protonotario, 5 notai, un registratore e auditore, la cui produzione documentaria ufficiale è testimoniata da un solo registro superstite (Archivio segreto Vaticano, Reg. Vat., 118). Oltre alla Cancelleria istituì una Camera apostolica e una Penitenzieria. Infine, si dotò di una propria familia formata da numerosi cappellani, uditori di Rota e, tra il personale laico, un maresciallo, vari sergenti, massari e tesorieri. Il 15 maggio 1328 procedette alla nomina di sei nuovi cardinali, che costituirono il nucleo del suo collegio cardinalizio: Iacopo Alberti da Prato, vescovo di Ostia e Velletri; l’abate di un monastero tedesco, creato vescovo di Albano; Bonifacio dei Donoratico da Pisa, domenicano, vescovo di Tuscolo; Niccolò da Fabriano, cardinale con il titolo di S. Eusebio, in seguito vescovo di Albano; i romani Pietro di Enrico, cardinale con il titolo di S. Pietro in Vincoli, e Giovanni di Arlotto, con quello di S. Nicola in Carcere. A queste nomine si aggiunsero in seguito quelle del francescano Paolo da Viterbo; di Giovanni Visconti, cardinale diacono di S. Eustachio; e di Pandolfo Capocci, vescovo di Porto.
Altrettanto immediato fu l’avvio della campagna di delegittimazione di Giovanni XXII, che il 27 maggio 1328 Niccolò V depose dalla carica pontificia con l’accusa di eresia, ingiungendo a tutti i cristiani di negargli ogni forma di aiuto. Nello stesso mese, con un’altra lettera, privò tutti gli ecclesiastici aderenti al papato avignonese dei benefici, riservandosene la nuova assegnazione.
Il registro superstite della Cancelleria di Niccolò V testimonia la politica di redistribuzione dei benefici volta a conquistare alla propria causa ampi settori del clero, in particolar modo italiano. I sostenitori dell’obbedienza di Niccolò V erano concentrati soprattutto nelle zone controllate dal partito ghibellino filoimperiale dell’Italia settentrionale, in particolare Milano, Cremona, Como, Ferrara, Savona, Albenga e Genova. In Toscana, anche per contrastare l’egemonia di Firenze, alleata di Giovanni XXII, Niccolò V trovò consensi a Pisa, Lucca, Pistoia, Volterra, Arezzo e Borgo Sansepolcro. Nel Patrimonio, infine, arrivarono adesioni da Bologna, Città di Castello, Viterbo, Todi, Bagnorea, Camerino, Osimo, Fermo, Urbino, Jesi, Fabriano, Matelica e altri centri minori.
La situazione iniziò a precipitare il 4 agosto 1328, quando Ludovico di Baviera decise di lasciare Roma sotto la minaccia dell’avanzata delle milizie del re di Napoli, Roberto d’Angiò. Assieme all’imperatore anche il pontefice lasciò l’Urbe e si trasferì a Viterbo. Lì, accolto dal signore della città, Silvestro Gatti, soggiornò nel Palazzo dei papi fino alla fine dell’anno, interrompendo la permanenza con un breve soggiorno a Todi, sempre al seguito dell’imperatore. Per raggiungere quest’ultimo, infine, nel gennaio 1329 si trasferì con la sua corte a Pisa.
Nell’ultima fase, il conflitto tra le due obbedienze si fece ancora più aspro. Giovanni XXII mise in atto una campagna sistematica di persecuzione degli aderenti al partito di Niccolò V. Il 15 gennaio 1329 scrisse al vescovo di Firenze e al rettore della Marca di Ancona, poi al vescovo di Senigallia, al Comune di Siena e alle autorità di molte altre località italiane per ingiungere loro di perseguire e punire i religiosi, mendicanti e appartenenti ad altri Ordini, legati al partito dell’antipapa Niccolò V. Allo stesso tempo, a Pisa, Niccolò V rinnovava solennemente la sentenza di deposizione del papa avignonese, contro il quale, il 19 febbraio, celebrò un processo pubblico, condannandolo come eretico e facendo simbolicamente applicare la pena a un manichino rivestito delle insegne pontificie.
L’isolamento di Niccolò V apparve evidente quando, nell’aprile 1329, l’imperatore dovette lasciare Pisa e, nel febbraio seguente, rientrò definitivamente in Germania. Nonostante la protezione in città del conte Bonifacio Novello dei Donoratico, le pressioni di Giovanni XXII si intensificarono. Iniziarono dunque le trattative per la resa definitiva al papa avignonese. Nel luglio fu raggiunto un accordo: in cambio della rinuncia al soglio papale, Niccolò V avrebbe ottenuto l’assoluzione dai suoi crimini, il privilegio di esenzione da ogni giurisdizione salvo quella pontificia, una pensione annua di 3000 fiorini d’oro. Dopo una prima abiura a Pisa, in presenza dell’arcivescovo della città e del vescovo di Lucca, Niccolò V si imbarcò per la Francia. Il 24 agosto giunse ad Avignone, dove rinnovò solennemente l’abiura dinanzi al pontefice.
Pur nel rispetto degli accordi, fu obbligato alla residenza sorvegliata nel Palazzo dei papi, dove morì il 16 ottobre 1333.
La salma fu sepolta nella chiesa dei frati minori conventuali di Avignone.
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