ANTIOCHIA sull'Oronte
Detta anche "presso Dafne" (Epidaphne) dal nome del suo magnifico sobborgo e luogo di soggiorno estivo, famoso per le cascate del fiume e per il venerato santuario oracolare di Apollo; chiamata "la grande" e "la bella", deve la sua fondazione, nel 300 a. C., a Seleuco I Nicatore e il suo nome al padre di lui Antioco.
Ubicata in una zona fertilissima e ridente, sul gomito dell'Oronte e sulle pendici del monte Silpio e del monte Stauris, sua propaggine, all'incrocio delle più importanti vie commerciali provenienti dal lontano E e dal S, in contatto diretto col Mediterraneo, e quindi col suo porto Seleucia, essendo navigabile l'ultimo tratto, di 20 miglia, dell'Oronte che la separa dal mare, A. ebbe rapidissimo sviluppo, divenne capitale del regno seleucida, quando, con la battaglia di Magnesia del 189 a. C., questo perdette tutta l'Asia Minore. Estesasi presto sull'Isola dell'Oronte, formata da due bracci del fiume presso il primo quartiere della città, meritò il nome di tetrapolis, tramandatoci sin da Strabone, in seguito alla fondazione, dovuta ad Antioco IV Epifane (175-165 a. C.), di un quarto distretto chiamato Epiphaneia, inerpicato sulle pendici del Silpio. Chiusosi nel 64 a. C. il turbolento periodo degli ultimi Seleucidi e diventata la Siria provincia romana, A. non conobbe decadenza, anzi ebbe rinnovato e crescente splendore durante tutti i secoli del dominio dei Romani, che ne compresero l'importanza commerciale e strategica e ne fecero un centro delle loro interminabili spedizioni contro i Parthi e i Persiani. Le munificenze romane ebbero inizio gia in età repubblicana; Pompeo, che aveva lasciato alla città la sua costituzione autonoma (A. libera: Plin., Nat. hist., V, 79), ne restaurò la casa del Senato, e anche prima di lui Quinto Marcio Re, proconsole di Cilicia, aveva riparato il grande ippodromo della città; Giulio Cesare, che le aveva concesso il titolo di "Metropoli", eresse la prima basilica, come anche il teatro e altri edifici, e tutti gli imperatori gareggiarono nell'addobbare la città e arricchirla. Nella riorganizzazione dell'Impero da parte di Diocleziano, teoricamente A. divenne soltanto la capitale di una piccola provincia della Prefettura di Oriente, la Coele Syria; ma, di fatto, per la sua importanza militare e per la sua ricchezza, essa venne ad essere la vera metropoli dell'Oriente, sede del governatore civile della prefettura, il comes dell'Oriente, come del comandante in capo delle sue truppe, il magister militum per Orientem, e la rivale maggiore di Alessandria; il suo patriarca, metropolita dell'Oriente, aveva il rango di quelli di Roma e di Costantinopoli, e infatti nella Tabula Peutingeriana A. è equiparata, fra le città fortificate, soltanto a Roma e a Costantinopoli. Nella città, cosmopolita fin dalle origini - cioè costituita da elementi semitici locali sempre mescolati largamente a quelli dominatori ellenici - l'attività politica e militare era uguagliata e sorpassata dal fervore di vita religiosa. Ad A. trovarono presto rifugio dai torbidi e dalle persecuzioni di Palestina larghi gruppi cristiani; la chiesa cristiana di A. fu la prima regolarmente organizzata, in essa anzi per la prima volta fu applicato il nome "cristiano"; da A., secondo la tradizione, S. Paolo partì per la sua missione, e la città, dunque, più che Gerusalemme, può reclamare il vanto di essere stata la culla della fede cristiana. A. vide una delle prime persecuzioni dei Cristiani (dopo il terribile terremoto che nel 115 d. C. per poco non tolse la vita a Traiano che soggiornava nel palazzo imperiale sull'Isola dell'Oronte, durante la spedizione parthica), e uno dei suoi primi martiri fu allora Ignazio, la cui chiesa sorse poi al posto dell'antico Tychaeion; un altro fu il suo vescovo Babylas, vittima della persecuzione di Decio nel 250 d. C.; a Costantino è dovuta l'erezione della chiesa a pianta ottagona e coperta di cupola che, per la ricchezza sfarzosa della sua decorazione, ebbe il nome di Domus Aurea e che fu il modello di S. Vitale e di altre chiese di tale tipo. Alla fine del IV sec. il grande Giovanni Crisostomo, vi pronunciava le sue omelie nelle quali, peraltro, insieme alle invettive contro la lussuria e le vanità mondane dei suoi tempi, troviamo delle vive descrizioni della fastosa città, la cui popolazione libera, secondo il suo dire, ascendeva a 200.000 persone, ciò che corrisponde a una popolazione totale di circa 800.000 anime. Ma assai più vivace e precisa è l'immagine della città quale ci risulta dalle orazioni del maestro di Giovanni Crisostomo, l'antiocheno Libanio: la sua orazione Antiochicus, pronunziata nella festa olimpica locale del 360 d. C., è un inno alla città natale di cui egli esalta l'opulenza e la salubrità, la piacevolezza delle fresche sorgenti, dei corsi d'acqua, delle innumerevoli fontane, la vivacità del movimento commerciale nelle vie popolose, fra cui va annoverata soprattutto la maestosa grande arteria principale che traversava tutto il centro cittadino fiancheggiata da doppi portici e da file di botteghe per una lunghezza di 4 km. Altre sostanziali notizie sulla topografia e la vita di A., soprattutto per il regno di Giustiniano, ci sono offerte nella Cronaca di Malala - assai attendibile perché l'autore è vissuto ad A. e vi ha posto il centro della sua narrazione - e anche in Procopio. Ancora all'epoca di questi autori, dopo la fine dell'evo antico, la città conservava parte dell'antica ricchezza e splendore; ma, al flagello periodico che ne ha funestato tutta la storia, i terribili terremoti, s'era ormai aggiunto quello delle invasioni persiane. Il più funesto dei terremoti, dopo quello dell'età di Traiano, fu nel 526 d. C. (secondo alcune fonti avrebbe ucciso oltre 250.000 abitanti), e da esso la città non sembra si fosse ancora riavuta completamente nel 540, quando, col sacco dei Persiani, ricevette il colpo mortale. I restauri di Giustiniano, per quanto decantati dai suoi storiografi, non possono essere stati che parziali; all'imperatore, infatti, si deve la restrizione dell'area della città (intenibile ormai nella sua integrità, anche perché gran parte della popolazione era stata trasportata in prigionia e sistemata in una nuova A., costruita presso la capitale persiana Ctesifonte) entro una cinta di possenti mura, che sacrificarono l'Isola dell'Oronte, mentre il braccio meridionale del fiume probabilmente fu trasformato in fossato. Tale superba cinta, pittorescamente inerpicata sulle pendici dei colli della città e ben conservata fin quasi alla fine del secolo scorso - quando lo spogliamento dei suoi blocchi per la costruzione di edifici moderni l'ha ridotta a miseri monconi difficilmente raggiungibili - era fino a poco tempo fa l'unica rovina riconoscibile dell'antica A. (di cui la moderna Antakiè non ricopre che una piccola parte, nell'angolo meridionale della cinta giustinianea presso il fiume), oltre ai resti dello stadio, situato sull'antica Isola dell'Oronte fuori le mura.
La massima parte delle nostre conoscenze sui monumenti e l'arte di A. è dovuta agli scavi condotti dall'Università di Princeton dal 1932 al 1939, scavi purtroppo interrotti bruscamente dall'inizio della guerra mondiale. Anzitutto è risultata con relativa chiarezza la topografia della città, sono stati delineati l'antico corso dell'Oronte e la zona dell'isola scomparsa. Su questa, con tutta probabilità, sorgeva anche il palazzo dei re Seleucidi, identificabile con la Regia nominata da Malala accanto al palazzo (παλάτι) degli imperatori romani; davanti a quest'ultimo stavano un colonnato e il "tetrapylon degli elefanti", verisimilmente incrocio di due strade porticate - presso il quale Giuliano l'Apostata affisse il suo Misopogon, la nota invettiva contro la lussuosa e corrotta città - e che fu distrutto da un terremoto nel 458 d. C. Scavi parziali del vicino stadio, che palesa ancora i suoi carceres, parte della spina e delle metae, ha permesso di misurare la lunghezza dell'arena che si estende per m 492,50; i particolari tecnici dell'edificio suggeriscono che si tratti precisamente della ricostruzione del proconsole Q. Marcio Re. Della cerchia delle fortificazioni ellenistiche non sappiamo molto, se non che, oltre alla cinta generale, ognuno dei quattro quartieri ne aveva una sua propria. Queste ultime mura sono probabilmente scomparse con lo sviluppo dell'urbanistica unitaria della città. Di tutte le mura è stato messo in luce soltanto qualche tratto, come quello sulle pendici dello Stauris, in accurata struttura poligonale, probabilmente del II sec. a. C., situato accanto a un tratto di acquedotto, contemporaneo, che in tempi di piena portava le acque dalla gola del torrente Onopnictus (Parmenio) per riempire le cisterne sulla terrazza del colle. Per la scultura ellenistica propria della città non sappiamo dir nulla, poiché la famosa statua della Tyche di A. - la turrita dea seduta su una roccia che simboleggia il Silpio, ai cui piedi un busto ignudo di nuotatore rappresenta l'Oronte - è opera di uno scultore di Sicione, Eutychides. Ancor oggi si può vedere invece il Charonion, cioè un colossale busto scavato nella roccia su uno sperone calcareo alle pendici del Silpio, non lungi dalla cappella di S. Pietro, a N-E della città odierna, opera di cui Malala ci informa che fu eseguita per consiglio del vate Laio onde mettere fine a una epidemia di peste, sotto Antioco IV Epifane.
Varî altri saggi hanno portato luce sulla dibattuta questione della grande strada porticata.
Per questa strada eseguì importanti lavori Tiberio, al quale fu eretta in mezzo alla via una statua di bronzo in cima a un'alta colonna di granito egiziano, presso il luogo che era chiamato l'òmphalos della città. Una pavimentazione successiva è dovuta a Caracalla: ma la prima costruzione della strada che si estende sotto la via principale della moderna Antakiè e, al di là di questa, a N, lungo la strada da A. ad Aleppo, va attribuita ancora all'epoca ellenistica, e costituisce la base del regolare reticolato ellenistico della città, con le vie minori intersecanti la principale ad angoli retti; questa arteria, rimaneggiata e ricostruita più volte, nel I sec. a. C. aveva già, almeno nel suo tratto centrale, marciapiedi larghi abbastanza da poter contenere dei portici; ma solamente al II sec. d. C. si deve attribuire l'erezione del grande doppio porticato che la rese famosa. In questa ricostruzione il piano carreggiabile, pavimentato a grossi lastroni di calcare duro e fornito di due canali laterali, misurava m 9,60 di larghezza, mentre il complesso della strada arrivava a quasi 30 m coi suoi due porticati su cui si aprivano botteghe e uffici regolarmente distribuiti; gli intercolunni dei portici misuravano a un dipresso 5 m: per questi doppi portici, dunque, dovevano essere state impiegate circa 3200 colonne, di cui molte di granito grigio o rosa. Gli aggruppamenti di case, ai lati del colonnato, sembra misurassero circa 6o m di larghezza lungo la strada, e 120 di profondità lateralmente. Il tutto è stato ricostruito più modestamente da Giustiniano dopo il terremoto del 528; in seguito alla conquista araba l'intera strada si ridusse a quello che prima era stato solo il suo portico occidentale. Su un certo punto è stato riscontrato che la strada posa su un ponte di due ampi archi (di m 6,40 di larghezza ciascuno), destinati al passaggio delle acque del torrente Parmenio, località probabilmente corrispondente al Foro di Valente descrittoci dalle fonti.
Degli altri edifici nominati dagli scrittori antichi, è stato erroneamente identificato, in alcuni ruderi sulle pendici del Silpio, il teatro di tre piani, rispettivamente attribuiti a Cesare, Agrippa e Tito.
È stato scavato il teatro di Dafne che, secondo Malala, sarebbe sorto sulle rovine di una sinagoga giudaica, distrutta da Tito per dare parziale sfogo ai sentimenti antigiudaici prevalenti in quel momento nella città. Nessuna traccia è stata rinvenuta di edifici anteriori al teatro stesso, che ha palesato una scena diritta, con la porta centrale fiancheggiata da due colonne di granito di Assuan a capitelli corinzi in marmo; l'orchestra poteva essere rapidamente allagata per le naumachie. Tra le decorazioni scultoree in esso rinvenute si possono nominare i resti di due repliche, esposte verisimilmente affrontate, del famoso gruppo ellenistico del Satiro e l'Ermafrodita. La costruzione può essere datata nel II sec. d. C. Assai più importanti resti ci hanno lasciato due acquedotti che portavano alla città le abbondanti e fresche acque delle cascate di Dafne, le costruzioni e ricostruzioni dei quali sono attribuite dalle fonti letterarie a Caligola, Traiano e Adriano: infatti alla tecnica del principio dell'Impero corrisponde il più antico dei due, con ampi archi tutti in pietra da taglio, mentre del secondo, in cui v'è largo uso di calcestruzzo, possiamo vedere i piloni conservati di un imponente ponte, il cui arco centrale - anche questo in sole pietre da taglio - aveva una freccia di ben 22 m. Fra i numerosi e grandiosi bagni pubblici alimentati dalle acque di Dafne si può ricordare, a titolo di esempio, il Bagno C, fra i più grandiosi e regolari rinvenuti, la cui struttura finale appartiene alla seconda metà del IV sec. d. C., ma che ricopre le vestigia di uno più antico, probabilmente anteriore al terremoto di Traiano. È un edificio di ben 50 × 90 m, con un frigidario ottagonale nella parte anteriore, verso N, seguito da un tepidario nel centro e da un elaborato sistema di stanze per il calidario nella parte posteriore. Altri bagni, sia pubblici che di ricchi edifici privati, possono avere piante più irregolari. Un bagno, a disposizione più irregolare ma più raccolto, del tipo conosciuto in Oriente come "bagno di inverno", è stato rinvenuto presso lo stadio sull'Isola dell'Oronte, per cui è stata suggerita la sua identificazione con quello donato alla città, in quel sito, da Diocleziano, l'imperatore che, di contro al singolo edificio termale costruito a Roma, ne edificò ad A. ben quattro simili, oltre a due palazzi, uno in città e uno a Dafne, a un tempio a Giove e a uno a Nemesi; un poco più tarda, però, di Diocleziano, circa della metà del IV sec., è almeno la decorazione musiva del bagno, a noi conservata, di cui importante è soprattutto il pannello della più ampia aula centrale, con l'allegoria della Terra feconda, rappresentazione di Ghe e dei Karpoi che trova riscontro in un quadro descrittoci da Giovanni di Gaza. In un altro bagno, pressoché contemporaneo, è stato rinvenuto un mosaico con una interessante riduzione, nello stile della tarda antichità, del gruppo di Hermes che porta in braccio il bambinetto Dioniso. Notevole per la pianta anche un piccolo ma ben costruito bagno, che era forse di natura privata, annesso sul lato settentrionale, a un ampio complesso architettonico che non è stato scavato, situato sulle pendici di uno dei colli digradanti dallo Stauris fuori della città stessa, a 9 km a N-E dell'abitato odierno. Attraverso un portico e un vestibolo si aveva accesso al bel frigidario ottagonale con, agli angoli, quattro nicchie semicircolari per le vasche, decorato nel centro dal busto allegorico di Soterìa ("Salvezza" o "Salute"), dal quale verso E si apriva un'altra vasca absidata, decorata del mosaico di Apolàusis ("Godimento") che ha dato il nome al bagno, mentre a O sono collocate le due stanze, la prima con una e con due absidi la seconda, per il tepidario e il sudatorium; a O d'un cortile settentrionale, fiancheggiato da due logge, era la fornace, mentre le tubature per l'aria calda da essa immettevano dietro l'abside del tepidario. Oltre che nei grandi bagni, pubblici e privati, le acque della città si riversano in numerosissime fontane, nelle vasche dei cortili e nei ninfei delle case, decorati per lo più di mosaici attinenti al mondo marino o a leggende delle acque, con pesci, Eroti cavalcanti delfini, thìasoi marini, immagini di Narciso e via dicendo.
Gli scavi hanno soprattutto messo in luce l'architettura e la pianta delle abitazioni dell'età romana. Una casa di benestanti, come quella di Dafne, chiamata "della Barca della Psyche", comprendeva nel suo centro l'ambiente principale e più lussuosamente decorato, il triclinio, per lo più con mosaici figurati volti alla vista dei banchettanti seduti sulle klìnai, fiancheggiato da due altre stanze; in questo caso l'ingresso dell'abitazione si apriva sul lato posteriore, verso N; un'ampia porta fra due colonne conduceva dal triclinio a un lungo colonnato, che, a sua volta, dava su un ninfeo con cinque nicchie, decorate a mosaici con figure di Eroti cavalcanti delfini. Certamente più modeste erano le case di A. inerpicate sulle pendici dei colli, dove gli elementi dell'abitazione erano più o meno ridotti per le esigenze dello spazio e adattati alla pendenza del terreno. Degna di ricordo la pianta, particolarmente ben conservata, di una casetta di tale specie a Seleucia - porto e città sorella di A. - dalla quale, attraverso il colonnato antistante il triclinio, lo sguardo dei banchettanti spaziava sul magnifico panorama del Mediterraneo, così come ad A. spaziava sulla vallata dell'Oronte. In questa casetta, limitata su tre lati dalle viuzze della città, un solo ambiente fiancheggiava il triclinio, dietro il quale le stanze di servizio, a un livello più alto, erano accessibili mediante gradini. La decorazione musiva delle case ci permette di tracciare assai chiaramente la storia dell'arte pittorica ad A. (v. mosaico), nella quasi totale scomparsa della decorazione ad affresco sulle pareti, di cui solo pochi tratti sono rimasti in piedi, specialmente lungo le pendici dello Stauris. Gli avanzi, generalmente poveri, dell'elevato degli edifici, permetteranno tuttavia di precisare anche le successive tecniche struttive attraverso i secoli. Dagli ambienti rettangolari, con pareti ad opus incertum, completamente dominanti, per esempio nella casa del "Thìasos bacchico", arriviamo, per la fine dell'antichità, all'architettura prevalente in un complesso di edifici (chiamato il "Complesso di Yakto"), dove alcune parti palesano varie ricostruzioni, ma in cui gli elementi più tardi e ben caratteristici sono le ampie absidi, e, inoltre, una vasta sala cruciforme in opus testaceum, con probabilità coperta originariamente da una cupola, e inserita in una pianta quadrata mediante quattro stanzette angolari; le pareti esterne della sala palesano tuttavia una struttura diversa, cioè assise di blocchi di pietra uniti con cemento, alternate da filari di mattoni - tecnica in uso nella tarda antichità pure a Roma -, mentre probabilmente tre salette adiacenti verso E erano costruite tutte in pietra da taglio. Anche quanto ci è noto delle necropoli attorno alla città appartiene soprattutto ai periodi più avanzati: così le belle tombe della necropoli detta "di Mnemosyne", situata sulle più basse pendici del Silpio presso il bordo S-orientale della città non lontano dalla cinta delle sue mura: alcune di esse hanno ampi ambienti, costruiti in bella struttura di mattoni, altri a blocchetti cementati, con nicchie, archi, talora con vòlte a botte, e contenevano sarcofagi costruiti nella medesima tecnica delle pareti e pure essi con coperture piatte o a vòlta. Il pavimento a mosaico che ha dato il nome alla necropoli rappresenta, con tutta probabilità, una cerimonia di commemorazione dei morti, forse entro una cappella funeraria della necropoli stessa.
Per quanto riguarda la scultura, delle numerose statue che abbellivano la città e di cui parecchie ci sono nominate dagli scrittori antichi, si conservano copie soltanto della già citata Tyche di Eutychides; né dagli scarsi trovamenti del territorio siamo in grado di riconoscere uno stile peculiare alla scuola di Antiochia. Fra tali ritrovamenti, vecchi e recenti, si possono annoverare, per esempio, un bel gruppetto bronzeo di due lottatori su un alto piedistallo; una graziosa statua acefala marmorea di Igea, verisimilmente di età adrianea; una tarda statua, pure in marmo, di un oratore, anch'essa con la testa quasi del tutto mancante; vari frammenti di gruppi ellenistici, oltre quelli delle due repliche del gruppo citato del Satiro e l'Ermafrodita; una statuetta in bronzo dorato di Afrodite; vari busti di filosofi e imperatori e, soprattutto, sempre dai recenti scavi, un'efficace testa in porfido di stile tetrarchico.
La più viva immagine degli edifici della città, nonché della vita che fra essi e nelle sue strade e piazze si svolgeva verso la fine dell'Evo Antico, ci è suggerita dalle rappresentazioni sul bordo di un ampio mosaico, nel cui centro vediamo il busto simbolico di Megalopsychìa, che ornava uno degli ambienti, posteriormente aggiunti, al testé citato "complesso di Yakto" (v. mosaico). Il bordo stesso, purtroppo mutilo, rappresenta appunto una serie di edifici identificabili, grazie alle loro iscrizioni, come quelli che si ergevano, probabilmente, non ad A. ma nel sobborgo di Dafne, dove il mosaico stesso era collocato; fra questi uno ci offre una data ad quem assai stretta, poiché rappresenta il "Bagno privato" (πρίβατον) di Ardaburio, personaggio conosciuto per essere stato magister militum dell'Oriente dal 450 al 457, ed ancora residente ad A. nel 459, avendo assistito, in quell'anno, ai torbidi scoppiati nella città durante la traslazione in essa del corpo di S. Simeone Stilita, secondo la notizia tramandataci da un altro storico antiocheno, Evagrio (Hist. eccl., i, 13): forse era questo l'edificio cui apparteneva il mosaico medesimo. Due costruzioni vicino ad esso rappresentano le due fonti Pallas e Castalia, mentre un ninfeo semicircolare, a forma di teatro colonnato, può essere il ϑεατρίδιον costruito da Adriano, al quale erano fatte defluire le acque di una delle fonti. Più in là vediamo lo Stadio Olimpico (τὸ ᾿Ολυμπιακόν), il Laboratorio del Martirio (τὰ ᾿Εργαστήρια τοῦ Μαρτυρίου), una serie di case private vicino a un luogo chiamato "la Passeggiata" (ὁ Περίπατος), bancarelle di venditori e di pescivendoli, una piazza con alcune statue, un ponte, una pista per cavalcare. Le case private più modeste sono a semplici blocchi rettangolari, talvolta con alcuni scalini di accesso posti esternamente alla porta d'ingresso; altre case sono a due piani, talora con una loggia al piano superiore, e spesso con balaustre tra i fusti delle colonne, edifici che ricordano la caratteristica architettura tardo-siriaca quale vediamo per es., nell'edificio chiamato "il Caffè" di Sergilla: sappiamo da Libanio, anzi, che le case spesso erano anche a tre piani, sormontate da una terrazza dove si poteva dormire nell'estate alla fresca brezza notturna. Un altro edificio, con un porticato di sei colonne fra due ante al piano inferiore e un basso arco sostenuto dai due più interni di quattro pilastri visibili sul piano superiore, sembra essere concepito come una delle ben conosciute basiliche protocristiane della Siria, a tre navate con quella centrale a vòlta, per es. la chiesa di S. Maria a Sheikh Suleiman (v. H. C. Butler, Early Churches of Syria, Princeton 1925, p. 58, fig. 55). Infine una costruzione sul nostro mosaico presenta anche una cupola ottagonale (v. mosaico). Dentro e davanti agli edifici vediamo scene di taverna con bevitori e giuocatori, facchini che portano fagotti, madri con bambini per mano, conducenti di asini, donne cavalcanti e cavalieri alla pista, venditori, compratori, e altre briose scene di genere.
Le rappresentazioni dei numerosi e ricchi mosaici ci offrono una quantità di informazioni sulla vita ad A., sugli usi quotidiani dei suoi abitanti, la loro religione e le loro superstizioni, le loro predilezioni letterarie e le loro speculazioni filosofiche (v. mosaico); ma, contro ogni aspettativa, pressoché tutte queste informazioni si riferiscono alla città pagana, mentre mancano quasi completamente per quella cristiana. Per quanto riguarda le sue chiese, fra le scoperte di notevole importanza sono i ruderi - ridotti pressoché dappertutto ai soli pavimenti - di quella a pianta cruciforme, la cui costruzione è fissata da un'iscrizione musiva al marzo 387 d. C., e che per la data, come per la posizione al di là dell'Oronte, è stata con verisimiglianza identificata col Martyrion di S. Babylas, fondato appunto pochi anni dopo che, sotto Giuliano l'Apostata, le ossa del Santo erano state ricondotte in città da Dafne perché ivi avrebbero disturbato, con la loro presenza, gli oracoli di Apollo. Alla prima costruzione appartengono solo i quattro bracci della croce; un'altra iscrizione ci dà la data in cui, sotto il vescovo Theodotos, fra il 420 e il 429, fu aggiunto, presso l'ala settentrionale, un ambiente chiamato pistikòn con l'annesso battistero; altre aggiunte sono più tarde, probabilmente posteriori al terremoto del 526 d. C. Oltre alle iscrizioni i mosaici ci palesano tutto un repertorio di motivi decorativi geometrici, peculiari di questi ultimi secoli di grandezza della città. I mosaici figurati pagani ed altri di carattere incerto ci permettono di seguire la trasformazione dello stile pittorico e del repertorio dalla tarda antichità al principio del Medioevo: si moltiplicano le rappresentazioni allegoriche, fra cui abbiamo nominato quelle di Apolàusis e di Megalopsychìa, le teste si presentano in pieno prospetto, coi grandi occhi sbarrati e fissi nello spazio; si fanno sempre più frequenti i pavimenti a limitazione di tappeti, e penetrano motivi persiani, come il nastro ondeggiante attaccato al collo di uccelli e di leoni, o le teste di capri - altro simbolo della dinastia persiana - che si presentano appaiate e posanti su ali aperte come bordo del vasto mosaico della Fenice (v. mosaico). Questo mosaico, con tutto il campo seminato di petali di rose, è, con ogni probabilità, posteriore al terremoto del 526 d. C., così com'è databile quasi sicuramente, grazie a una moneta di Giustino (518-527 d. C.) rinvenuta sotto di esso, un altro mirabile mosaico che presenta la medesima decorazione a tappeto di petali nel centro, e con un bordo a tralci di vite racchiudenti in ogni girale uccelli, animali e grappoli, fra cui, nel centro di un lato lungo, notiamo due superbi pavoni affiancati a un cesto di uva, decorazione prediletta di un gran numero di chiese paleocristiane.
Per le altre arti, che producevano i lussuosi oggetti di cui si dilettava la vita quotidiana, non possiamo dir nulla: perché niente garantisce - anzi i bolli di fabbrica piuttosto negano, per attribuirla a Costantinopoli - la produzione ad A. dei bellissimi piatti figurati e delle altre argenterie rinvenute in notevole quantità nel prossimo Oriente, particolarmente il tesoro di Kerynia a Cipro, la patena con la Comunione degli Apostoli da Riha, sull'Oronte, fra Aleppo e Hama, ora nella Collezione di Dumbarton Oaks a Washington, e via dicendo. Il famosissimo e tanto discusso "Calice di A." - in cui s'è voluto riconoscere nientemeno che il calice di Cristo nell'Ultima Cena - potrebbe al più presto appartenere al periodo a cavallo fra l'Evo Antico e il Medioevo, però ne è disputata tanto l'autenticità quanto, soprattutto, la provenienza. Indubbiamente il più grandioso monumento di tutta la sua storia, di cui la città ci abbia lasciato testimonianza - assai sostanziale, come abbiamo detto, fin quasi alla fine del secolo scorso - è la cinta di Giustiniano. Le mura, inerpicate sui colli della città e digradanti lungo valli e precipizi, erano rinforzate da un gran numero di torri quadrate a due piani (fra 300 e 400); nelle torri, dalla stanza a pianterreno, con ingresso sormontato da archi di scarico, una scala saliva al primo piano, donde si usciva sul cammino di ronda, in parte sostenuto da modiglioni; la cortina delle mura, spessa oltre due metri, nei punti più scoscesi prendeva l'aspetto di ripida gradinata. Cinque porte principali, oltre a un gran numero di postierle, si aprivano nella cinta, mentre la cosiddetta "Porta di Ferro" (Bab el-Hadid) non è che un tratto della cinta sopra una gola, presso l'angolo S-E, racchiudente un viadotto annesso, ed eretta per un'altezza eccezionale di almeno 18 m. La struttura delle mura è in pietre da taglio, contenenti un nucleo in opera a sacco, ma con belle e regolari fasce di mattoni decoranti le torri. Dalla porta O la cerchia si inerpica sul Silpio, sul cui punto culminante, sempre entro la cerchia, un castello, rinforzato da 14 piccole torri rotonde, è stato costruito solamente nel X sec. dai Bizantini.
Ad eccezione di queste opere militari, per quanto riguarda la vita civile e le creazioni artistiche dall'età di Giustiniano in poi, la città probabilmente non conobbe che una progressiva decadenza e un lento esaurimento, che presto la ridussero a un insignificante centro di provincia. Non abbiamo più testimonianze di monumenti notevoli da accompagnare ai racconti che di A. ci hanno lasciato i viaggiatori medievali, e alle date delle sue vicende storiche: un'altra occupazione persiana del 611 d. C., la conquista araba del 637-38, la riconquista bizantina sotto Niceforo Foca nel X sec., la sua annessione al regno dei Turchi Selgiuchidi nel 1084, la sua occupazione da parte dei Crociati nel 1098, quando fu fatta capitale di un principato normanno, il sacco del conquistatore mamelucco Baibars nel 1268 e il suo passaggio ai Sultani d'Egitto, cui appartenne fino alla conquista dei Turchi, nel 1517.
Bibl: K. O. Müller, Antiquitates Antiochenae, Gottinga 1839; R. Förster, A. am Orontes, in Jahrbuch, XII, 1897, p. 103 ss.; H. Leclercq, in Cabrol-Leclercq, Dictionn. Arch. Chrét., I, 1904, c. 2359 ss., s. v. Antioche; E. S. Bouchier, A Short History of A., Oxford 1921; C. R. Morey, The Mosaics of A., New York 1938; A.-on-the-Orontes, I-IV, Princeton 1934-48; D. Levi, A. Mosaic Pavements, Princeton 1947. Sulle argenterie attribuite ad A. cfr. L. Matzulewich, Byz. Antike, Berlino 1939, p. 62 s. Una parte della bibliografia inesauribile sul Calice di A. può essere vista in O. de Jerphanion, Le Calice d'A., in Orientalia Christiana, VII, n. 27, Roma 1936.