Antinferno
. ‛ Vestibolo ', ‛ antilimbo ' furono le denominazioni presto adottate per la prima regione dell'Inferno dantesco, e per lo più seguite, almeno fin a quando, nel periodo positivistico del secondo Ottocento, non ebbero larga diffusione gli studi sulla topografia, sulla struttura, sul parallelismo della Commedia, dopo le sporadiche anticipazioni offerte in tale direzione dalla critica dantesca del Cinquecento e dei primi decenni del Seicento. In correlazione al termine ‛ Antipurgatorio ' - che, se non ricorre in D., è però così evidentemente suggerito dalle parole di Virgilio presso la scaletta di tre gradi breve (Pg XXI 48): Tu se' ornai al purgatorio giunto (IX 49) - fu coniato quello di A. e quindi usato generalmente in luogo di ‛ vestibolo ', antilimbo ‛ atrio ', anche se non sempre con lo stesso significato di questi: specie nell'ambito dell'esegesi allegorico-simbolista (Pascoli, Valli, Pietrobono) il termine A. assunse una più ampia significazione, con una dilatazione della propria area fino a comprendere anche il Limbo.
Già gli antichi esegeti, e fra questi lo stesso Pietro, escludendo il ‛ vestibolo ' dal novero dei nove cerchi dell'Inferno, facevano cominciare questo dal Limbo, indicato nella Commedia sempre come primo cerchio che l'abisso cigne (If IV 24), cerchio primaio (V 1), primo grado (IX 17), cerchio superno (XII 39), primo cinghio del carcere cieco (Pg xxll 103). Tuttavia, non è meno vero che il Limbo si situa su la proda... / de la valle d'abisso dolorosa (If IV 7-8) e non è sottoposto a Minosse (cfr. Pg I 77), cioè è marginale per luogo e per condizione rispetto all'Inferno propriamente detto; gode, almeno in una sua parte, di luce sua propria (If IV 68); e la pena delle anime è duol sanza martìri (v. 28), cioè sola poena damni senza poena sensus, sicché non vi si applica il contrapasso in senso proprio (v. CONTRAPASSO). E indubbio che l'abito di simmetria della Commedia postuli già una classificazione più mossa degli ‛ Anti ', ampliando lo spazio dell'A. e includendo la possibilità di un ‛ antiparadiso ', classificazione, peraltro, da motivare più largamente, rispetto all'eccessivo schematismo di taluni esegeti (ad es. il Valli e il Pietrobono), nel quadro della complessiva tematica dantesca. A parte gli adeguamenti tentati dal Pascoli tra le anime del ‛ vestibolo ' e quelle del Limbo, ingegnosi ma inverosimili; resta intanto l'evidente rapporto, la voluta corrispondenza tra le due figurazioni, accostate " come portelle di un dittico ", sicché l'una " prenda spicco e valore dall'altra, nel forte chiaroscuro morale che nasce dalla giustapposizione " (cfr. F. Forti, Il Limbo dantesco e i megalopsicoi dell' " Etica nicomachea ", " in Giorn. stor. " CXXXVIII [1961] 329-364, ora in Fra le carte dei poeti, Milano-Napoli 1965, 9-40).
Restando a un A. limitato tradizionalmente al ‛ vestibolo ', esso è da immaginare come una pianura immensa, che si apre nella cavità sotterranea (aere sana stelle, senza cielo), eternamente oscura (aura sana tempo tinta, l f III 23 e 29) degradante verso l'Acheronte, il mal fiume (Pg 188) ove convengono coloro che muoion ne l'ira di Dio. Nel ‛ vestibolo ' D. colloca quegli spiriti tristi che in Terra visser sanza 'nfamia e sanza lodo, gli ignavi o, meglio, i pusillanimi, e ad essi sono frammisti quegli angeli che all'atto della ribellione di Lucifero restarono imbelli, non furono fedeli a Dio e non si opposero a Lucifero, ma per sé fuoro, stettero vilmente in disparte. Si è anche ipotizzata - ma senza fortuna - una partizione dei pusillanimi in due schiere, distinguendo coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo da la setta d'i cattivi, a Dio spiacenti e a' nemici sui (If III 63; pensò per primo a una bipartizione il Lana, seguito naturalmente dall'Anonimo; e per la distinzione predetta cfr. N. Scarano, Gli spiriti dell'A., in Saggi danteschi, Livorno 1905). F. Flamini (in Il significato della D.C., ibid. 1916, I 223 ss.) affiancò ai pusillanimi gli " afilotimi " in una schiera a parte: tesi largamente e giustamente avversata (cfr. F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D. C. Inferno: canti I-III, Firenze 1967, 366-367).
La grande moltitudine dei pusillanimi si aggira nella buia campagna, fuori del baratro infernale, seguendo con orribile tumulto un'insegna veloce. Stimolati da vespe e da mosconi, che rigano ad essi il volto di sangue raccolto ai loro piedi da fastidiosi vermi, piangono a guaio (il dolore e il terrore fanno divenire disumane le loro voci); inutilmente con le mani tentano di difendersi da quella tortura.
L'A. dantesco trae evidentemente sua origine dal vestibolo dell'Averno virgiliano (Aen. VI 273), popolato dalla " inops inhumataque turba " (VI 325); cioè dagli insepolti, che desiderano invano passare l'Acheronte; e questa " tam dira cupido " (VI 373) è la loro pena (si pensi al dantesco che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte). Un riscontro si può avere anche nella Visio Pauli, dove l'Apostolo, avvicinandosi alla regione infernale, in una specie di vestibolo vede un fiume di fuoco entro il quale sono sommersi coloro che " neque calidi neque frigidi sunt, quia neque in numero iustorum inventi sunt, neque in numero impiorum ". Questi dati offerti dalla tradizione furono da D. raccolti e profondamente rielaborati. I teologi non conoscevano tale categoria di dannati, così come la tradizione biblica ed evangelica non conosce la schiera degli angeli imbelli, ignorata anche dalla teologia e dall'angelologia tomistica. La critica ha ricercato nella direzione dei testi filosofici e patristici e in quella delle leggende medievali possibili fonti dell'invenzione dantesca. Nel quadro di queste ricerche si è potuto allegare un passo di Clemente di Alessandria (Stromata VII 7), ove si parla appunto di angeli caduti sulla Terra " propter socordiam "; un episodio del cosiddetto " Paradisus avium " della Navigatio Sancii Brendani (vi è il motivo degli angeli pusillanimi decaduti e relegati, sotto sembianza di volatili, in una remota isola); e altri testi (come l'Image du monde, la Visio Tungdali, il Libro d'Enoch, il Liber Scalae), nonché luoghi di Alessandro di Hales, Duns Scoto, Pietro Olivi, e passi del Commento alle Sentenze di s. Bonaventura. Va ricordato, infine, un passo dell'Apocalisse (3, 14-16), quello del noto richiamo all'" angelo " " né caldo né freddo " della Chiesa di Laodicea, del cui riferimento a creatura angelica si occupò p. es. Origene (Homil. XIII in Lucam), passo che, frainteso, poté portare alla nozione degli angeli che per sé fuoro, un ‛ locus communis ', quindi, giunto sino a Dante.
Per una chiarificazione saddisfaciente del signifiicato dell'A. e degli altri ‛ Anti ', occorre muovere dal senso generale delle tre cantiche: l'Inferno è verifica di fatto delle dimensioni cui si riduce l'uomo schiavo dei beni terreni e separato dal Bene; il Purgatorio è eliminazione di vincoli imprigionanti, e perciò conquista dell'umana perfezione, che è essenzialmente libertà; il Paradiso è " inhabitatio Dei in homine iusto ", e dunque visione beatifica di Dio " sicuti est ", e in forza e in conseguenza di ciò è anche definitiva metànoia del naturale, e perciò redenzione ed esaltazione di questo nei cieli rotanti. Ora, condizione necessaria affinché un uomo possa non irresponsabilmente volersi schiavo di piccoli beni e tormentarsi per essi; o affinché possa liberarsi di fatto da una consimile schiavitù dopo essersene liberato intenzionalmente; o, infine, affinché possa accogliere in sé la divina presenza e da questa essere esaltato, è che egli abbia raggiunto una reale maturità di persona umana. Ora, la persona umana non può attuarsi né maturarsi se non attraverso il rapporto con ‛ l'altro ': il quale ‛ altro ', secondo il pensiero di D. della Commedia, che uscito dalle molte ‛ selve ' ricompone Cielo e Terra in visione unitaria, è il mondo umano, ed è Dio. Dunque, un'anima beata, o purgante, o dannata, è tale in modo autentico se è autenticamente persona; ed è autenticamente persona se ha realizzato e un reale rapporto con il mondo umano e un reale rapporto con Dio. Se manca o scarseggia l'uno o l'altro, il soggetto è un uomo dimezzato. E dicendo ‛ rapporto con il mondo umano ' e ‛ rapporto con Dio ', non si esclude, certo, il rapporto buono e onesto, ma altresì si comprende qualsiasi rapporto implicante l'esercizio delle umane facoltà. Se si obietta che i pagani Ulisse e Capaneo non sarebbero dunque pienamente dannati poiché mancò loro la possibilità del rapporto con Dio, la risposta non è difficile: salvati i valori e i significati generali - di cui è emblema, nel caso, lo schema strutturale dell'A. - ai casi particolari si può pur sempre dare una spiegazione particolare: ad es. che Ulisse e Capaneo abbiano attuato, nonostante il loro paganesimo, un reale, anche se moralmente negativo, orgoglioso e blasfemo, rapporto con la Divinità. Così si potrebbe obiettare che, allora, le anime dell'Antiparadiso lunare non sarebbero pienamente beate - obiezione che ha impedito per lo più di pensare a un Antiparadiso -: ma se D. se l'è proposta (Pd III 63 ss.), ciò mostra che egli pensava proprio secondo la tesi cui quella obiezione contrasta. E del resto la risposta di Piccarda conferma il nostro discorso: siamo piene di Dio come può esserlo una creatura di scarsa capienza, e siamo beate perché 'n la sua volontade è nostra pace (Pd III 85); un motivo soggettivo, dunque, che non esclude una qualche oggettiva condizione di scarso rapporto con il mondo umano, o, per i mercuriali, di scarso rapporto con il soprannaturale divino. Siffatta deficienza non esclude che anime lunari e mercuriali siano veramente beate, così come non esclude che le anime dell'Antipurgatorio siano veramente anime espianti, e quelle dell'A. veramente dannate: ma sono beate, purganti o dannate così come può esserlo una creatura dimidiata, quasi una sottospecie mal riuscita di uomo. È cosa notevole che il poeta abbia così sottolineato, nella struttura stessa dei tre regni oltremondani, le due esigenze del rapporto con gli altri e del rapporto con Dio, come indispensabili componenti del vero uomo: delle quali due esigenze, giova ripeterlo, quella del rapporto con Dio appare posta, nel contesto ideale di cui veniamo parlando, non come premessa religiosa alla futura beatitudine, ma semplicemente come coefficiente indispensabile per una reale attuazione della persona umana terrena e naturale, e ciò anche se uno dei termini (del rapporto umano-divino) è soprannaturale. Ciò premesso, si veda, anzitutto, che gli ‛ Anti ' del poema non sono soltanto il ‛ vestibolo ' dei pusillanimi e, globalmente, le balze inferiori della santa montagna; bensì, si delineano duplici per ogni cantica, corrispondenti, rispettivamente, a deficienza di rapporto col mondo, sul piano storico o politico, e a deficienza di rapporto con Dio, sul piano metafisico o religioso. Abbiamo già osservato che non il ‛ vestibolo ' soltanto, ma anche il Limbo è marginale, per luogo e condizione, rispetto all'Inferno propriamente detto. E nell'Antipurgatorio (a parte le schiere dei nuovi arrivati) s'incontrano gruppi i cui precedenti spirituali sono assai diversi: da una parte anime deboli nelle virtù umane, dall'altra anime scarse nella partecipazione al soprannaturale (v. ANTIPURGATORIO). Poco o nulla si suole parlare di un ‛ Antiparadiso ', e va osservato subito che una tal denominazione, quando sia intesa alla lettera e non, come si dovrebbe, in senso puramente analogico, sarebbe contraddittoria e in sé stessa e con quel che afferma il poeta (Pd III 70 ss. e VI 118 ss.). Ma si può ben ritenere che i cieli della Luna e di Mercurio costituiscono per il terzo regno l'analogo (non l'identico) di quel che suole denominarsi nelle prime due cantiche ‛ Antinferno ' e Antipurgatorio ': il poeta stesso attribuisce ai beati lunari e mercuriali un segno che li fa diversi da tutti gli altri che egli incontra nei cieli rotanti: non hanno l'aureola di luce, o, almeno, questa non è così brillante da celare i loro volti alla vista di D.; e su di essi soli, fra tutti gli altri beati, grava una nota di sia pure rispettosa disapprovazione o per il manco di voto o per gl'intenti ambiziosi. Né possiamo non notare che quella deficienza di ‛ aureola ' indica, secondo quanto mostrammo altrove (cfr. S. Pasquazi, All'eterno dal tempo. Studi danteschi, Firenze 1966, 244 ss.), una deficienza nell'assunzione ontica, sul piano dell'eternità, della loro realtà storica, e dunque una deficienza esistenziale del loro ‛ essere uomo '. Sia pure in forme e modi ben diversi, si profilano, dunque, sei ‛ Anti ': tre destinati a chi esistenzialmente fu - e però onticamente è - meno uomo perché mise più o meno da parte la responsabilità pratica e l'impegno etico che la sua concreta condizione storica comportava (vestibolo, gruppi di Belacqua e dei principi della valletta, cielo della Luna); e tre destinati a chi esistenzialmente fu - e però onticamente è - meno uomo perché alla sua umanità mancò o scarseggiò il coefficiente indispensabile, anche se extraumano, del rapporto con Dio (Limbo, schiere di Manfredi e di Buonconte, cielo di Mercurio): meno uomo, si è detto, e quindi meno dannabile, meno purgabile e meno beatificabile. Proprio perché insufficienti, queste anime appaiono, nei tre regni e coerentemente con essi, in qualche modo integrate, rispettivamente, da uno stimolo esterno quelle poco impegnate, e da un'interiorizzazione quelle troppo pragmatiche: il che è evidente nella pena dei pusillanimi o nel ‛ nobile castello ' ; ma il discorso è valido anche per le altre: si pensi all'episodio del serpente nella valletta; al muoversi lento e alla lunga attesa degli scomunicati; al sostegno (Pd III 123) offerto ai suoi beati dalla Luna, che è altresì, secondo l'astrologia del tempo, l'astro ‛ umanizzante '; all'annidarsi dei mercuriali chiusi nel proprio lume, così come la loro stella s'annida nel Sole (Pd V 124, 129, 138). Avviene così che questa serie di ‛ Anti ' finiscano per rappresentare il lungo dramma dell'umanità che attende di essere quel che ancora non è, che si dibatte penosamente nella ricerca di sé stessa: e si comprende allora perché in essi appaiono costantemente le due rappresentazioni più evidenti di siffatta umanità in cammino, ma al cammino troppo restia: la folla, e l'esponente di essa (cioè, dantescamente, l'imperatore): una lunga tratta di gente (If III 55-56): una selva... di spiriti spessi (IV 66); un essercito gentile (Pg VIII 22) che se non è folla per lo meno la significa, poiché compendia le nazioni europee; una turba spessa (VI 10); e se non appare nel cielo della Luna, è perché quivi le figure allontanandosi svaniscono, sicché si possono ben immaginare altre categorie di anime, come vi è quella di Piccarda e di Costanza, con altro denominatore e con analoga motivazione; e, infine, i più di mille splendori del cielo di Mercurio. Accanto e di fronte alla folla, l'imperatore. E sarà un imperatore attivo, e per tale aspetto bene idoneo alle funzioni a lui provvidenzialmente affidate, negli ‛ Anti ' della scarsità religiosa: Cesare, Manfredi (che fu vicario imperiale ed esercitò pertanto, in Italia, tutti i poteri dell'Impero) e Giustiniano. Ma negli ‛ Anti ' dellascarsità pragmatica sarà un imperatore debole, e per tale aspetto dunque un imperatore che portò invano la spada: Rodolfo nella valletta, Costanza (che, vedova, ebbe i poteri imperiali durante l'età minore del figlio Federico II) e, a nostro avviso, colui che fece per viltade il gran rifiuto (v. CELESTINO V): la discussione, apertasi qualche decennio subito dopo la morte del poeta, sull'identificazione di questo personaggio, si protrae ancora oggi: l'esame degli Anti ' ci porta alla figura di un imperatore, e non possiamo proporre se non l'indicazione offertaci da un commentatore molto vicino al poeta, Pietro, che fece il nome di Diocleziano (il quale rifiutò la porpora e andò a coltivare legumi in Dalmazia, come D. aveva letto - è il medesimo Pietro che ce lo fa sapere - nell'epitome storica di Eutropio). Un'altra costante degli ‛ Anti ' è quella della presenza di persone in cui il poeta rappresenta il suo entourage: quello di fatto, dell'ambito fiorentino, mal sopportato e spesso disprezzato, oggetto del fastidio che in D. la gente dappoco suole ingenerare; e, all'opposto, quello di elezione, la compagnia desiderata di coloro con cui egli ama conversare. Rappresentano l'entourage di fatto: alcun riconosciuto, Belacqua e Piccarda, e sono tutti dell'ordine dei ‛ disimpegnati '; e, invece, la bella scuola del Limbo, le anime che assorbono tutta l'attenzione del poeta (Pg IV 1 ss.), la schiera fulgida che scopre in lui chi crescerà li nostri amori (Pd V 105), rappresentano le affinità elettive, lungamente coltivate nel cuore.
Infine, si può registrare un'ultima e significativa corrispondenza fra i vari ‛ Anti ': quella che riguarda la posizione personale di D. stesso. Egli ha voluto porre sé stesso, in realtà o in figura, negli ‛ Anti ' della scarsità religiosa e dell'impegno pragmatico, mentre ha voluto porsi in netto e tagliente contrasto negli ‛ Anti ' della scarsità pragmatica e del disimpegno morale: Romeo e Sordello appaiono, infatti, come vere controfigure di D., il quale poi ha direttamente collocato sé medesimo là dove si fa sesto fra cotanto senno; ed è facile avvertire la sua esigenza di separazione non solo quando si fa dire non ragioniam di lor, ma guarda e passa (If III 51), ma anche quando Virgilio lo rimprovera di aver prestato orecchio ai neghittosi bisbigliatori (Pg V 10 ss.), e anche quando Beatrice trae motivo dalle visioni lunari per riaffermare con ogni energia quelle virtù umane che le anime del primo cielo non hanno saputo praticare.
Bibl. - Oltre alle opere citate nel corso della voce, si veda: A. Manetti, Dialogo circa il sito, forma et misura dello Inferno di D., Firenze 1506; G. Benivieni, Del sito, , forma, et misura dello Inferno di D., ibid. 1544; P. Giambullari, Del sito, forma et misura dello Inferno di D., ibid. 1544; G. Galilei, Lezioni intorno la figura, sito e grandezza dell'Inferno di D., (1587), in Opere, XV, ibid. 1856; G. Todeschini, Dell'Ordinamento morale dell'Inferno di D., in Scritti su D., Vicenza 1872, I 1-114; G.G. Vaccheri-C. Bertacchi, La visione di D.A. considerata nello spazio e nel tempo, Torino 1881; L.A. Michelangeli, Sul disegno dell'Inferno dantesco, Bologna 1886; M. Caetani, La materia della D.C., Firenze 1886; L. Filomusi Guelfi, La struttura morale dell'Inferno di D., in " Giorn. d. " I (1893-94) 341-357, 429-447; V. Russo, Nell'Inferno di D. Nuove osservazioni e ricerche, Catania 1893; id., Le condizioni necessarie al disegno dell'Inferno dantesco, Firenze 1902; G. Busnelli, L'Etica Nicomachea e l'ordinamento morale dell'Inferno, Bologna 1907; M. Baldini, La costruzione morale dell'Inferno dantesco, Città di Castello 1914; L. Pietrobono, Il poema sacro. Inferno, Bologna 1915, 1; id., D. e la D.C., Firenze 1953; L. Valli, Il segreto della Croce e dell'Aquila nella D.C., Bologna 1922; A. Santi, L'Ordinamento morale e l'allegoria della D.C., Palermo 1923; F. Gaeta, Per una lettura del c. IV dell'Inferno, in " Il Mulino " II (1953) 571-576; B. Nardi, Gli angeli che non furono ribelli né fur fedeli a Dio, in Lect. Siciliana Trapani 1959 (ora nel vol. Dal Convivio i poteri dell'Impero) e alla' Commedia, Roma 1960, 331-350); N. Sapegno, Il c. III dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 53-71; J. Freccero, D. and the neutral Angels, in " Romanic Review " LI (1960) 3-14; F. Mazzoni, Il c. IV dell'Inferno, in "Studi d." XLII (1965) 29-206; G. Padoan, Il c. III dell'Inferno, in Nuove Lett. I 46-71.